Francesca Petrucci - Poesie e Racconti

ANELLI DI FUMO

 

Cerco il bosco del tuo sorriso

tra gli anelli di fumo.

 

La mia sigaretta è un’arma bianca.

 

Corrode e consola istanti

vuoti

che pure anelano al cielo.

 

Occhi stretti di stelle

immani senza tempo

navigano pelle e capelli.

 

Il naso verso il cielo

in cerca di te.


 

 

DAVANTI AL MARE

 

Albe saline rintoccano

amare di nebbie

su pagine sporche.

 

Schizzi di parole

vagano.

Imbrattano

nuvole di passato che punge

ancora lingua e gola.

 

Non impara la luce.

Non impara il vento, e

neppure io so di quel sogno

che all’infinito veglia,

si sveglia e batte,

rintocchi di pianto

in giardino chiusi

dentro fontane mute.

 

L’ombra d’un volo

diventa schiuma.

 

Brandelli di mare

raggiungono cieli

senza catenaccio.

 

Sei qui da millenni

stretto

in cristalli d’anima

dentro ore socchiuse

di giorni impenitenti.

 

Vieni con me

dentro il tenero velo della notte.

 

Sarà sogno l’autunno

in erbe spalancate

su baci molli

di antico rossore.


FIGLIO

 

Sei mio! come le mani, gli occhi o il sangue.

 

Parto dell’anima  della mente  dell’io del tutto.

 

Germoglio del sogno del desiderio della realtà del silenzio.

 

Sei mio ma il mondo ti prende.

 

Sempre, incalzante vorace ti prende.

 

Sorridi mentre bevi il dolore dal mio viso

 

in un nuovo gioco

 

che nasce tra le mie braccia.

 

Passa il vento sul piccolo sguardo

 

e una carezza azzurra

 

dalla piccola mano muore tra i capelli.

 

Ti stringo più forte piccolo batuffolo di vita

 

ma, come aria o cielo scivoli

 

e nel mio cuore fiori e rovi

 

impronte di sangue.


 

NON CE LA FA …

 

Gronda sangue la terra.

 

Si è fatto pugno il cielo

e non si apre.

 

Strizza lacrime sporche.

 

E lava e lava l’onda

di piena, ma mai

cancellerà il tuo sangue.

Mai!

 

Resta

in ogni pietra, in ogni vena

ormai stanca, incapace,

di inghiottire dolore.

 

Resta

sulla pelle

di chi ancora geme e

s’accora.

 

Resta

in capillari immondi

di mani

senza amore.

 

Ahi, la notte,

che impotente inghiotte

il tuo grido!

 

Urla e urla lontano

la tua voce.

Ormai diventata un gemito,

inconsolato, perso,

in quel buio

senza più stelle né luna.

 

Ahi, la pelle!

e ventre e labbra di chi

ancora soffoca sogni

nella pozza di un dolore

senza perdono.

 

Densa è l’aria

dei brandelli della tua anima,

di preghiere singhiozzate,

inascoltate.

 

E la terra,

non ce la fa, non ce la fa,

ad abbracciare le tue membra

senza tremare, senza piangere

senza trasudare sangue.

 

O Dio! Dove ti sei nascosto.

Dove sei finito Dio.

Dove.


 

NON ERAVAMO CHE RESPIRO

 

Non eravamo che respiro.

Il soffio

di un istante del mondo.

 

Un raggio di luna nascosta,

un germoglio morto di freddo.

 

Noi 

nell’incanto eterno di un attimo.

Ora, siamo del vento.


 

SILENZIO

 

Laggiù

non un soffio

non un alito.

Solo un grande fragore di stelle.

 

Nell’aria, orecchie immobili ingoiano

tralci di lune spezzate

o forse un’eco, una voce

che è stata, un cristallo, un sorriso vivo.

 

Ahi notte, perché non parli?

Urla, mordi, azzanna

mani di ferro e cuori inesistenti.

 

Un monile là, a bruciare la terra

che sola arde quel dolore. Fino

allo spasimo ultimo, 

fino all’istante del duro sogno.

All’istante dell’eternità.

 

Ahi, com’era fuggito il tempo dei sospiri.

 

Una lama al posto del cuore

una lama al posto delle viscere,

una lama al posto del petto,

dell’anima, del tuo sorriso

ormai di sangue rappreso.

 

Laggiù 

ad accogliere lacrime

crude di silenzio

come carezza

di una morte che non ti vuole.

 

Laggiù

a tessere ancora ghirlande di eterno

soffocata da un fragore

di stelle,

che solo tu puoi sentire.


 

TRISTI BATTELLI

 

Vivi,

come si suol dire

in questa calce spenta o

in questo inferno.

 

Dapprima larva e poi farfalla

esplosa nello spazio di un bicchiere,

stivi con orgoglio e con saggezza,

con follia e stupida fiducia,

tutto quanto puoi. 

Tutto quanto ami,

 

a che serve attendere che

il giro cambi direzione.

 

Attendere è contemplare il nulla.

 

Ma lungamente chiami e lungamente

attendi.

Continui a costruire crisantemi di carta

da conficcare

nella melma di  una tomba senza nome,

 

ma i pensieri (tristi battelli)

fischiano ancora, fischiano sempre.


 

CAGLIARI

 

Pioveva a tratti.

Stretta nel mio trench, le mani nelle tasche, mi beavo di quell’attesa. L’autunno inoltrato, regalava, cromatismi contrastanti tutt’intorno. Ricadenti sulla città. Sensazioni diverse. Spaziai con lo sguardo. Il cielo, sopra al porto, offriva scuri cobalti macchiati da schizzi di luce dell’ultimo sole. Un attimo e fu buio. Spinsi di più le mani nelle tasche. Tardava. E quel brivido che non mi abbandonava, si fece sentire più forte, mischiato a quello trasmesso dalla notte, ormai padrona di tutto. Non ero sola. Ero felice. Lui era sempre con me, anche quando non c’era. Se non avessi più tremato, se la mia pelle fosse rimasta immota, se quel mare dentro non avesse più avuto le sue continue tempeste, tutto sarebbe caduto. In un lampo perduto, scordato.

Sotto il portico, l’atmosfera era quieta. Scaldata dai sorrisi, dal chiacchiericcio dei pochi avventori seduti ai tavolini, all’esterno del Caffè Torino. Stretti nelle loro giacche autunnali, sembrava respirassero all’unisono. Qualcuno soffermava lo sguardo su di me. Forse attratto dal mio largo cappello di feltro nero. Sollevai lo sguardo verso i piani sovrastanti. Rividi il mio nonno materno, seduto alla scrivania del suo ufficio. Il passato si rovesciò improvviso dentro di me. Lo scacciai. Ora il mio cuore era impegnato in altri desideri. Mi venne un immediato bisogno di solitudine. Scartai a sinistra di qualche passo e fui fuori dal portico, sul largo marciapiedi della Via Roma.

Ricominciava quella pioggerella sottile, rada, ma insistente. Era quello che volevo. Sollevai la faccia verso il cielo per godere di quella piccola tempesta di frescura. Presto ripiegai sotto il mio cappello. Quel brivido caldo che saliva dai piedi alle ciglia, lo volevo sentire tutto. Non volevo dividerlo col fresco della notte.

La pioggia cominciava ad avere ragione dei miei vestiti. Ma compresa in quell’attesa, non mi importava. Tutto in me mescolava mare a deserto. Ora non sapevo più. Non mi importava, né delle auto che passandomi accanto cominciavano a schizzare, né della pioggia che non cessava, né della notte che avanzava, né degli ombrelli che uno dopo l’altro cominciavano  ad aprirsi sorpassandomi frettolosi. Qualcuno si girava a guardare: “Ma dove va, quella. Sola. Con quell’inutile cappello e quel sorriso stampato sulla faccia”. Non mi importava. Del trench bagnato, della pioggia che grondava dalle falde del mio cappello. Né dei passi, che da qualche tratto mi seguivano. Non avevo orecchi per loro. “Ciao piccolina”. Trasalii. Quella voce! Sì, quella la riconobbi subito. Mi fermai di scatto. Mi girai di colpo. Lui era lì, proprio davanti a me, con le braccia aperte a prendersi anche lui tutta la pioggia. Neanche il tempo di un ciao e quelle braccia mi presero. Stringevano, stringevano, che il respiro a tratti mi mancava. E subito fui preda di quell’abbraccio, di quello sguardo. Di quelle stelline che corrusche bucavano la notte e quel velo, alle volte così fitto, impenetrabile dei suoi occhi. E rise, sì rise. E si fece giorno dentro il suo cappuccio da pioggia, dentro di me e tutto intorno. Rise e rise! Forse conscio di quella breve ansia che mi aveva preso nell’aspettarlo. Con le mani bagnate prese la mia faccia bagnata e se la portò vicino alla sua bagnata e ci stringemmo bagnati e ci baciammo. Tanto. Forte. Stretti da quella calda spirale di inesorabile burrasca. 

Stemmo lì così, immemori e unici, dimentichi. Consapevoli soltanto di noi. Stemmo lì. Non so quanto tempo. Su quel marciapiedi bagnato e luccicante da tutte le luci della città. Finché tutto cominciò a girare come in una giostra, finché tutto intorno a noi scomparve dileguandosi nella pioggia e nel buio della notte.



QUEL DIAVOLO DI SELLA

 

Il cappello di paglia sulla faccia.

“Ma tu, ce l’hai un tormento?”. Mentre il sole bruciava la pelle, e un ricordo brillava sotto le palpebre chiuse. Domande. Sempre senza risposta, sempre sdraiate lì, tra mento e cuore, che scossano e a volte schiantano costole e bruciano come questo sole. E stare lì inerme, con l’onda che tange talloni e caviglie. Beato te che ti muovi e muovi pensieri infiniti, che lasci impronte di schiuma che muore e all’istante ricomponi merletti sottili di fragile suono e ali di vento. Schiudo appena le ciglia umide. Attraverso la rada paglia del mio cappello appare un orlo e un altro più in basso di azzurro che abbatte e respinge sorrisi passati su morbide labbra di pianto. “Ma tu ce l’hai un tormento?”. Il mare ce l’ha, continuo e non si arresta se non nell’istante del suo ritorno.

Andavano così fili di pensieri, prigionieri dell’alito tiepido settembrino. Voci di bimbi più in là, da un altro mondo sembrava. Quella quiete tutta mi pesava addosso. La pelle arrossata stillava calde lacrime, orlava i bordi dello slip fino a ricadere sulla rena. “Sarà il caso di un bagno”, pensavo. Quaggiù è caldo il settembre. Eppure più in là, lontano, si rinnova l’autunno dei filari, delle castagne, dei pampini rossi e dell’uva matura e del mosto. La sapa forse ribolle già in un tino di  qualche casolare solitario, dove i contadini faticano tra i grappoli opulenti e con la prima semina festeggiano “su Cabudanni”. Ma qui c’è quiete di membra, sciabordio solo di onde e tutt’al più il fracasso di un cuore che non si arrende e manda scintille qua e là, testardo, incapace di capire. Ho trita l’anima. Non ci sta a ricomporsi. “Ma tu ce l’hai un tormento?”. Mi chiama il mare ma non mi muovo. Stoica, immobile, le mani affondate nella sabbia. Un tempo infinito era passato. Un anno, tre, dieci. Non lo sapevo più. Avevo smesso di contare. Sono infiniti i numeri, i miei no. I miei tutti finiti. Sepolti sotto quella sabbia, sotto quel silenzio. Si sbriciolava ancora di più quel passato divenuto ormai presenza costante. Un abito troppo stretto sulla pelle da togliere il respiro. Perché non ti sei fermato tempo su quell’istante di labbra accese su quell’abbraccio di infiammata marea, che torna con inutile angoscia. 

Sposto il cappello dalla faccia, giro lo sguardo più in là, chiamata da quelle voci di bimbi a ricordare i miei: prima teneri germogli ora forti piante. E quella sella, sul ciglio del monte… Si narra, che lo spirito del male, cacciato da Dio, rovinò su questo colle prima dell’inevitabile inabissarsi in queste acque. La “Sella del Diavolo” l’hanno chiamata. È questo il tuo tormento? La continua lotta che ti impone? Sotto le trame di paglia, più di quel sole, bruciano labbra e cuore. Le dita affondano nella rena, più giù, fino all’indifferenza del dolore. È un cartoccio l’anima. È ancora una fiamma il sole che rotola, e soffoco. Mi coglie un’onda 

d’ombra improvvisa. Il respiro s’incanta nel petto.  “Mi aspettavi? Dai, dillo che mi aspettavi!”. Andava giù il sole ma non la luce di quell’istante. Trema il mare, torna e va via e torna la tempesta che non finisce. Si accosciò alle mie spalle, mi liberò le mani prigioniere e se le portò alla faccia così tutte pungenti di sabbia. Mi abbracciò. Le mie spalle contro la sua camicia da città. Si sporse e mi baciò piano a lungo e fu ancora quello sguardo velato e furono ancora quelle labbra, ancora quel calore dolce che placa e rinasce ogni tempesta. Laggiù, all’orizzonte un guizzo di giada intreccia mente e cuore. “Perché ci hai messo tanto?”.


 

TILLI

 

Se il davanzale della finestra fosse stato un po’ più basso, avrei potuto affacciarmi e scorgere la piazza del Comune sulla destra. Solo uno squarcio si vedeva, lui sarebbe potuto passare, e io, avrei potuto vederlo.

Ogni giorno, in quella casa della nonna, era il mio pensiero costante.

Io abitavo nel vicolo: due rampe di ripide scale e un piccolo appartamento in cima. Ma luminoso e accogliente. Lui, nella piazza del Comune, in una grande casa col giardino insieme alla sua grande famiglia. Io con i nonni materni, momentaneamente lontano dalla mamma per l’intero anno scolastico della prima elementare.

Nella piazza ci s’incontrava tutti. I bambini di tutto il paese si trovavano lì per il gioco nelle belle giornate dopo i compiti.

Lo vidi un giorno. Spiccava tra il gruppo delle sue cugine un po’ più grandi di me. Sempre eleganti, ben pettinate e bionde. Io, con il caschetto scuro e la frangetta tirata di lato, tenuta dal fiocco. Era alto, più alto di tutte. Biondo, la carnagione chiara e quel suo neo sulla guancia sinistra. E sorrideva. Fui presa da qualcosa di strano, qualcosa che mi faceva essere ancora più inappetente di quanto non lo fossi già. E la sera, poi, prima di dormire, rivedevo quel neo sulla guancia, quella pelle così chiara, quei capelli così biondi, quel sorriso. Tutte le volte che uscivo con la nonna, speravo di passare per la piazza, magari avrei potuto incontrarlo. Non accadde mai. Anche la scuola, era situata verso il piano adiacente al Piazzone, dove i ragazzi andavano a giocare al calcio lontano dalla piazza.

Lui era grande, forse dieci anni o undici, non so dirlo. Forse frequentava la quarta classe o la quinta: chissà.

Da quando lo vidi la prima volta, da un lato speravo sempre di incontrarlo, da un altro temevo di vederlo durante i giochi in piazza con le mie amichette. Ma lui non sempre si vedeva nel gruppo delle sue cugine. Il mio sguardo era sempre attratto da quella grande porta, dalla quale temevo, e nello stesso tempo speravo vederlo uscire.

Non mi guardava mai. Troppo piccola per essere notata da lui. O forse troppo modestamente vestita, rispetto alle sue cugine sempre così eleganti e ben pettinate da Otello, il parrucchiere della città.

Venne la Pasqua. Si usava indossare abitini nuovi e quella volta, anche io indossai un abito bellissimo, di pannolenci. Verde. Con l’ampia gonna tempestata di piccoli fiori colorati, cucito dalla mia mamma lontana. La camicetta bianca e il bolerino, sempre verde, con un mazzolino di fiori colorati appuntato, le scarpette di pelle bianca. Quella volta mi notò: “Come sei elegante!”, mi disse. Il mio piccolo cuore ebbe un sussulto. Una delle sue cugine bionde gli disse: “Ti piace il suo vestito o ti piace lei?”. Allora non notai il sarcasmo. Avevo solo sentito la sua attenzione, che mi riempì di gioia. Ma lui non lo seppe mai. Quel fatto mi permise di soffrire di più, quando, alla partenza, avevo abbandonato il mio paese per sempre: allora ancora non lo sapevo.

Nei miei fugaci ritorni speravo sempre di vederlo, ma non accadde più. Quel portone rimase sempre chiuso, ma non ho più dimenticato il suo nome. Ha sempre girato dentro di me e ancora gira. Tilli.