Francesco Brozzetti - Poesie e Racconti

ALL’IMBRUNIRE, SUL MONTE

 

La ghiaia, lamentosa, scricchiola sotto gli scarponi
e in lontananza un cane abbaia.
Una cinciallegra canta su di noi.
Paolo cammina davanti a me,
le sue mani si muovono, rilassate,
e le dita sembra vogliano comunicarmi qualcosa.
Non riesco a sintonizzare i miei passi con i suoi,
ma lui è sempre lì, davanti a me, alla stessa distanza.
Ora rallenta il passo,
sembra ascoltare il vento.
Si ferma,
osserva il sole che fa capolino
tra le fronde ormai scure degli alberi.
Il lago è lì,
dorato come il sole
che se ne sta andando dietro nuvole di fuoco.
Sembra un vassoio imbrunito dal tempo.
Tanto silenzio.
Troppo, forse.
Vorrei gridare,
cantare,
ma non posso,
questa atmosfera me lo impone.
Ci fermiamo ad una radura.
Davanti a noi il mondo.
Ancora tanto silenzio.
Luci lontane cominciano a dominare la scena.
La luna, bizzosa primadonna,
appare a tratti tra nuvole argentate.


 

DALLA FINESTRA

 

La luce che filtrava dalla finestra

non mi illumina più

Il sole ormai stanco

è uscito dal mio orizzonte

 

La tristezza mi assale

Non ha pietà

Non mi lascia libero

di vivere

 

Vivere la mia vita

Serenamente,

Con allegria,

Amico degli amici

 

Eccomi qua invece

Solo e affranto

In questo silenzioso

ultimo bagliore di luce.


 

IL MONTE

 

Torno a casa la notte
La malinconia m’assale.
Ti ho appena lasciata
E già mi manchi.
Lungo la strada
Sento una vibrazione
Guardo e vedo là
In fondo alla valle
Un’ombra scura
La silhouette brilla
Dei raggi d’argento della luna
E si staglia contro un cielo scuro.
Sono le sinuose gobbe
Del nostro monte
Sono le sinuose forme
Della tua persona
Distesa lì
Sul letto
Dal lenzuolo marrone
Torno a casa sereno


 

LA MIA TERRA

Strette valli

Ove di sasso in sasso

Saltellano ruscelletti

D’acqua fresca e pulita

 

Ripidi colli

Ombrosi

Chiusi da siepi

di rovi pungenti

 

Boschi profumati

Di alberi eterni

Giganti silenziosi

Dalle ombre imponenti

 

Soffio di venti

Che gelidi e impetuosi

fanno cantare

foglie sempre verdi

 

E allorquando

La stagione si fa mite

Si tramutano in aliti

Dolcissimi

 

Il grugnito del cinghiale

Il ringhio della volpe

Il cinguettio degli uccelli in volo

Il raglio dell’asino

 

Il richiamo delle donne

Nei campi

Il suono delle campane

Lontane nei borghi

 

Questa è la mia terra


 

NEBBIA

 

Amavo la nebbia

la sua atmosfera

il suo profumo

i suoi silenzi

 

Ora non più

 

Solo tristezza

Solo rumorosi lamenti

Solo malinconici ricordi

mi ispira

 

solo il tuo lento

indolore ma doloroso distacco

mi ricorda

 

perché?

Perché tutto questo.

 

Ora nemmeno la nebbia

mi dona serenità


 

NEVICA

 

Nevica
Qualche misero fiocco di neve
Cerca disperato
D’arrivare fino a terra
Ma un vento forte e spietato
E rigido
Lo fa roteare a mezz’aria
E lo respinge
E crea vortici
Simili ad onde marine
Qualche folata più forte di vento
Penetra tra gli spiragli delle finestre
E sembra fischio di treno in arrivo.
Ed io me ne sto assorto
Annoiato
Dietro un vetro
Desiderando di fare qualcosa,
Qualcosa di bello
Stimolante
Piacevole
Piacevole come guardare
Fuori la neve che cade.


 

TRAMONTANA

 

Spietata, dispettosa e pungente

Sfiora le creste del monte

E si tuffa allegramente

nella dolce valle,

 

Si insinua tra i tetti,

Sibila tra i campanili

E sconvolge le capigliature

delle sprovvedute ragazze

 

Eccola, arriva, presto,

solleviamo il bavero della giacca

appena in tempo per non sentire

il gelido bacio della tramontana


 

TRAMONTO

 

Lungo la linea dell’orizzonte,

lungo quella striscia che segna

l’ombra delle colline,

una sfumatura di rosso fuoco

si staglia verso il cielo,

un cielo ormai scuro

che ci chiama al vespro.

 

Ed io vorrei essere lassù,

sul monte,

a godere della luce e dell’aria,

fredda e tagliente, ma pura

come lo è solo sulla cresta,

in quell’ora in cui,

giù nella valle

uomini stanchi tornano a casa.

 

Ed il calore della famiglia

li accoglie e li circonda.


 

La bufera di neve non si placa e la strada sterrata ci sembra sempre più difficile da percorrere.

Finalmente arriviamo alla strada comunale asfaltata, mal ridotta ma pur sempre asfaltata e su uno spiazzo poco distante scorgiamo una luce filtrare da una vetrina.

E’ la flebile lampada di un piccolo negozio di alimentari-bar e quant’altro può servire qui. Entriamo e veniamo subito assaliti dal forte odore emanato da una stufa a lampada che male brucia il gas di una vecchia bombola.

Un semplice bancone, un espositore di vetro con quattro merendine e una macchina per il caffè espresso dall’età indefinita che fischia sommessamente dietro ad una signora che con calma sta preparando una bevanda calda ad un operaio.

In un angolo, quasi invisibili due persone usufruiscono avidamente ma con discrezione di quel poco di caldo che la stufa permette di sentire.

Sembra di essere usciti dal mondo e di essere entrati in una atmosfera irreale, in un film in bianco e nero degli anni cinquanta.

Non riusciamo ad aprire bocca, siamo in estasi, e nessuno comunque ci chiede nulla.

Ci lasciano godere dell’atmosfera e del caldo, gratis.

Improvvisamente, insieme ad una folata di freddo misto a qualche fiocco di neve, entra un uomo ricurvo sul suo freddo.

Nemmeno saluta, fa appena un mugolio, si avvicina alla stufa, distende le palme delle mani quasi a raccogliere tutto per sé il calore, se le stropiccia ben bene ancora un poco e se ne va, così come era entrato.

Incredibile!

Solo in un posto simile avremmo potuto assistere ad una tale scenetta, eppure nulla era stonato, come altro avrebbe potuto essere?

Noi ormai ci sentiamo già appagati e ce ne andremmo così come l’ospite di poc’anzi, ma non ne abbiamo il coraggio.

Ordiniamo allora, dopo aver dato una sbirciata dietro al bancone per scoprire cosa potevano mai offrirci, una frugale merenda e ce la gustiamo con calma, non vorremmo mai andarcene, e nessuno poi ce lo richiede, siamo entrati anche noi nella filosofia semplice e genuina del luogo e della sua atmosfera.

Ma altri luoghi ci attendono e così, dopo un ultimo malinconico sguardo di ammirazione apriamo la porta e via, nella tormenta, che ora sembra si stia leggermente attenuando.


 

UN CACCIATORE VERO

 

 

Mio padre era un cacciatore, un cacciatore vero, di quelli che andavano in bicicletta fino a dove potevano e poi, lasciato il mezzo presso qualche contadino, proseguivano a piedi camminando anche per qualche ora.

La caccia forse era quasi un pretesto per una bella giornata all’aria aperta.

Mi ricordo ancora quando la sera prima del giorno prestabilito, lui disponeva sul tavolo della cucina tutti i suoi attrezzi e si preparava le cartucce da solo, era un vero e proprio rito.

A me era permesso solo stare a guardare, anche se le mie manine a volte si muovevano da sole ed andavo a toccare qualcosa che non dovevo.

Lui brontolava fintamente seccato, burbero, ma non abbastanza.

Mia madre lavava i piatti in silenzio, ma dagli angoli della bocca spuntava un sorriso.

“Ah, questi uomini, i suoi uomini!”

Ed io stavo lì, quasi senza respirare, ad osservare, attento a non lasciarmi sfuggire alcuno dei movimenti basilari.

Che fascino la bilancina con tutti quei piccoli pesi, identici per forma a quelli delle stadere del negozio di alimentari!

E quelle bellissime pittoresche ed affascinanti scatole piatte contenenti addirittura la “polvere da sparo”!

I misurini!

E poi, la macchinetta per chiudere i bossoli!

Quante volte ho sognato di girare quella manovella e tenere in mano le cartucce, soppesarle, accarezzarle, saggiarne la consistenza, ma guai, era troppo per un piccoletto come me!

Ed allora sognavo di crescere in fretta e poter essere io a fabbricare le mie munizioni, insieme a mio padre, parlando del giorno dopo e dei piani strategici da ponderare.

Poi il tempo passò, io crebbi veramente, anche se ancora di poco, ma abbastanza comunque per fare compagnia ai “vecchi cacciatori”.

“Stammi sempre dietro, mi raccomando!” diceva, preoccupato non poco della responsabilità che si era presa portandomi con sé.

I suoi amici ridacchiavano di tanta apprensione, i loro figli erano già grandi e non andavano più a caccia con loro.

Ed io, obbediente, stavo sempre un passo dietro mio padre, attento a non disobbedire, attento a ciò che mi accadeva intorno, attento a tutto quello che facevano loro, i veri cacciatori.

Ma poi, forse, in fondo non era quello che mi affascinava.

Erano altre le cose che mi attiravano, anche se ancora non me ne rendevo ben conto.

La bellezza della natura mi ammaliava, mi trascinava, mi entrava nel cuore, ma ancora non me lo faceva capire.

Che spettacoli!

La caccia, come oggi, cominciava in autunno ed i colori della campagna erano indescrivibili.

Io, pur essendo ancora bambino, già percepivo qualcosa che mi trascinava verso quei luoghi.

Non mi rendevo conto che non dipendeva dalla caccia ma dalla loro bellezza.

I profumi, l’aria tersa, i colori brillanti dei prati, il cupo verde dei boschi, il marrone dei campi arati di fresco, il fruscio delle foglie, il rumore dei ruscelli che saltellavano di sasso in sasso in fondo a qualche fosso, tutto insomma era poesia.

Ed anche essere lì con mio padre, a caccia, era un avvenimento!

Poi un giorno successe.

Un nugolo di uccelletti si alzò d’impeto da un campo arato.

“PAM”

Il fucile di mio padre riempì l’aria di rumore e di quell’odore acre della polvere da sparo che solo i veri cacciatori sanno apprezzare.

Lontano un uccelletto cadde.

“Vallo a prendere, corri!” Urlò.

Ed io corsi, saltellando tra le zolle di terra lavorata.

Lo trovai.

Lo raccolsi.

Non era morto.

Immobile con il cuoricino che pulsava freneticamente nella mia mano che lo teneva prigioniero, mi guardava, con l’occhio sbarrato e sembrava chiedermi “perché?”.

“L’hai trovato?”

“Si, ma non è morto”

“E allora finiscilo, dai,”

“Come”

“Battigli la testa su un sasso”

Ci provai, ma non credo di essere stato capace di ucciderlo.

Fortunatamente mio padre arrivò quasi subito e fece lui quello che andava fatto.

Oggi ho più di settanta anni, e ancora se ci penso sento nella mano quella sensazione.

Per me la caccia finì quel giorno.