Francesco Carelli - Poesie

Ritorno notturno

Gli stessi sono quei lastroni, più difficile ora camminarci, sempre sconnesso il percorso, di inciampare il pericolo è costante, le caviglie di meno si adattano, ma già di nuovo vederli sa di un ritorno alle origini del tempo.
Troppe auto su entrambi i lati, il marciapiede sempre stretto se una valigetta si tira appresso. Ecco il portone, già si accinge a suonare il campanello e a rimirare il batacchio. Ma il portone è già aperto, molta gente sta dentro, un baracchino a destra vende calze. A sinistra in fondo, una torre si erge un ascensore a contenere.
Il cortile è grigio di pietra maestosa, silenzioso, come la corte di un normanno castello. La scalinata la stessa appare e la rampa che continua su a destra. Il campanello fa un trillo uguale nel tempo, ma alla porta la zia più non compare. Una donna straniera sulla soglia appare, un altro mondo per sempre scompare, da una porta, in fondo al pianerottolo, oltre le piante, una donna s’affaccia, che forse ha memoria, che forse riconosce, per un attimo si guardano, logica dice che sia lei, ma lei non capisce, la porta si chiude.
In casa nessuno, la valigetta riposta, lo scalone si scende. Fuori dal portone, a destra si gira, non più i negozi, non più il fabbro, non più il rosso di ferro che batte, non più i colpi nell’aria risuonano, non più i bimbi col go-kart di asse di legno e cuscinetti a sfere nella discesa ora asfaltata, non più il venditore la merce ripone, nel secchio a calare, tra voci che si trasmettono fra terra e gli alti balconi.
In bicicletta, ecco che ancora si trova, corre la bicicletta davanti al Palazzo, i balconi ancora vi sono, su nessuno di essi sta Maria il ragazzo in bicicletta a controllare, l’Aragonese torrione, occorre frenare, a destra girare, ecco il mare, dov’è il mare ?, ecco il porto, dov’è il porto ? il mercato ittico, anch’esso è scomparso ? una distesa, di barche infinita, di vele velette e gommoni, di banchine tante file, che di acqua non si vede il luccichio.
Si ferma la bici, gira se stessa, da Aragona ritorna, in salita dubbiosa procede. Al Palazzo il ciclista, pedone ritorna. Del Palazzo, l’angolo gira, alla antica chiesetta, la lapide ritrova, ancora due passi, tra famigliari lastroni, al portone il serpentello ancora riposa.
Risuona il batacchio col suono suo antico, si apre il portello nel buio dell’atrio, i primi gradini di luce la stessa al ricordo di quanti essi sono, di quante curve per la cima toccare. Due piani sono, ma come se fossero tre, tanto la pietra per balze si innalza. Il piano raggiunto, la porta sta aperta, nessuno si affaccia. Le voci non sente, gli odori non sente, i rumori non sente, il vento salmastro non sente, la luce dalle chiuse finestre non vede, nello studio nessuno che scrive, in salotto nessuno che sorseggia, in salotto nessuno che discorre, in sala da pranzo nessuno che pranza, in cucina nessuno che governa, nelle camere da letto nessuno che legge, nelle camere da letto nessuno che dorme, da un balcone interno…ma il via vai,ora è morto, spettrale silenzio fra tetti crollati.
Allora dai balconi esterni pure si tenta. Davanti case e cemento in lunga schiera, dove vigneti e trulli lo spazio s’abbracciavano. Neppure il geranio sempre vivo nei lustri è rimasto, il suo antico vaso neppure.
Degli Avi il Palazzo i ricordi riporta, degli Avi i passi contiene, nascite e morti contiene, tutta la Storia in sé conserva, il bisnonno, dove stava la grande pendola, sedeva, la prozia verso mare riposava, la bisnonna verso il vicolo quattordici volte procreava, nello studio il prozio amministrava, nella stalla il cavallo riposava, nelle botti giù il vino stagionava.
Si torna su un balcone, un bambino eccolo, la bicicletta corre, lo saluta con mano, è il suo riflesso, il passaggio suo al rovescio, nei lustri passati. E’ dolce e amaro, il risveglio da un viaggio nel tempo, al ritorno.

 


 

Da Milano a Madrid ?

F. deve raggiungere R, sua mamma, e alcuni amici per un appuntamento in un ristorante. F. parte da casa e attraversa con sicurezza varie strade, ne percorre di altre strade, giunge al Castello, lo costeggia, percorrendo un vialone, imbocca una stradina che lo dovrebbe portare ad attraversarne un’altra ampia e poi sarebbe arrivato, nell’intrico delle vecchie stradine di quel quartiere. F. non riconosce più nulla, dopo la stradina non trova il viale, attraversa sì una strada ma non trova le stradine. Eppure, le vede scorrere nella mente, ritorna a pensare al passaggio vicino al Castello; dunque, poi cosa ha fatto ? ma sì, ha fatto il giusto; e però non trova quanto dovrebbe trovare; comincia a pensare ad un altro quartiere con antiche stradine; ma quello sta da un’altra parte..; ma allora dovevo attraversare dove ? Afferra il telefonino, cerca di chiamare R.; il telefono si accende ma non lascia cercare i nomi, nome e i numeri compaiono in un succedersi infrenabile, una confusione totale; F. lo spegne e lo riaccende, ancora maggiore confusione, invece dei nomi, compaiono numeri a caso, cerca i siti ma compaiono applicazioni, cerca google – maps ma il sito risulta introvabile, tutto è nel caos. E’ calata la sera, il buio, F., non sa come, si trova davanti un signore, gli chiede la strada, il signore è francese, ma il signore è gentile, dice che ha una mappa stradale in tasca, ecco che già apre la cartina, non si come già rischiarata dalla luce di un lampione. F. gira la cartina, F. la ruota, la vista va in confusione, non ci si ritrova affatto almeno con un punto di riferimento, i due discutono, poi tacciono e si guardano: la cartina è…di Madrid. Il signore francese è evaporato nel nulla, comincia a piovere, F. non sa più cosa fare, dove andare, non trova più neppure la strada da dove è venuto, non ha più un punto di riferimento, tutto è confuso, tutto è buio, tutto è bagnato e sgocciola, anche il telefono ha lo schermo bagnato. F. trova che il suo telefono iphone non esiste neppure più, si trova in mano un cellulare di seconda generazione; non sa come riuscire a usarlo, tutti i parametri a cui è abituato sono cambiati, non sa come chiamare R., non sa come riuscire a chiamare chiunque, non sa più dove si trova e dove comunque andare, tantomeno ritornare. Deve essere tardi: l’orario dell’appuntamento con R. e gli amici è passato, è proprio buio, F. guarda l’orologio, lo riguarda, si mette sotto un lampione per cercare di vedere meglio, l’orologio non indica l’ora, esiste solo la lancetta dei minuti, F. è stordito, sperduto, preoccupato, non passa neppure un’auto, neppure un taxi, F. riguarda il telefono, ora non vi è più neppure la lancetta dei minuti, F. vede correre la lancetta dei secondi, F. sente correre il suo cuore, F. sente la testa girare, F. si sveglia….

 


 

La città misteriosa

La carovana dei cammelli viene messa insieme faticosamente e avanza lentamente, troppo lentamente. La carovana si ferma a K., pare per fare altre provviste, e pare non muoversi più di là. F. chiede due cavalli e, con G., su due cavalli velocissimi, corrono verso Est. L’aria è fredda, serena, la pista s’allunga nell’orizzonte, lunga, diritta, tra l’erba corta e dura nella pianura immensa. Cavalcano molte ore, nel silenzio, in silenzio, nessun incontro. Fanno una sosta dietro una duna per mangiare qualcosa e, usando un po’ di sterpi, G. prepara un the. I cavalli brucano tranquilli nel sole. Tutti riprendono la corsa fino al tramonto, nel crepuscolo ancora limpido si distingue ancora la pista. La luna si alza, piena, sulla riga della pianura, a levante. I cavalli non danno segni di stanchezza, nitriscono, si leva un vento gelido, non riparato né da monti né da piante. Nessuna tenda come invece si attendevano, nessuna voce, nessun rumore.
Ad un tratto, di fronte, alla distanza di mezzo miglio, una lunga ombra, alta, massiccia, lineare. Più avanti, sembrano le mura di una città, nel biancore della luna ecco una cinta immensa di alte muraglie, con rotonde torri di guardia. Ecco profilarsi un ricovero, un albergo, una cena, un letto. Ma G. non sembra contento. F. chiede come di chiama la città: non glielo vuol dire. “Meglio non entrare”.
Ecco una porta altissima, di legno massiccio, con numerose grosse capocchie di ferro, chiusa. F. picchia forte col bastone: nessuno risponde. A mezzo miglio, fra due torri, ecco una vasta arcata buia, F. vi entra, ma dopo una decina di passi il cavallo si ferma davanti a una porta. A colpire i grossi battenti, nessuna risposta, nessun rumore al di là. Proseguono il giro della cinta, le mura sempre alte, antiche, silenziose. Compare un’altra porta, spingono forte, pare che ceda a spallate, i due battenti di legno marcito si schiantano, si spalancano. G. non vuole entrare, dice che aspetta lì e che non dovrebbero entrare.
F. entra a cavallo in un labirinto di strade strette, deserte, silenziose. Nessuna illuminazione alle porte, alle finestre, nessuna voce, nessun segno di vita. Tutti gli usci sono chiusi, le case non in buono stato. F. arriva in una piazza inondata dalla luna, tutt’attorno una serie di statue in pietra, di animali. Qui, le case sono più alte, meno povere, nessuna porta si apre, nessuno risponde alle grida di F. Nessun rumore, nessuna voce, nessun latrato, nessun nitrito. F. percorre altre strade, arriva in altre piazze: sembra una città molto grande. F. crede di scorgere un bagliore di lumi, si ferma, un battere d’ali gli fa scorgere un branco di uccelli notturni. In una strada, qualcosa biancheggia nell’ombra di un portico. F. scende da cavallo, accende la lampada elettrica: riconosce gli scheletri di due cani, ancora legati al muro da catenelle arrugginite. Lo scalpitio del cavallo, ormai stanco, fa eco nella strada lastricata. La città pare abbandonata da poche settimane o pochi mesi, le finestre ben chiuse da sportelli verniciati, le porte sprangate. Tutto sembra intatto, pulito, ordinato, come in un abbandono generale, per decisione unanime, con calma, alla stessa ora. F. giunge ad un palazzo enorme, forse una reggia o una fortezza o un carcere. Al portale, in bronzo, due guerrieri colossali, con le armature, di verderame, torreggiano come sentinelle dei secoli morti.
F. comincia a sentire l’orrore di questa città spettrale, deserta di umani, deserta in mezzo al deserto. Sotto la luna, nel dedalo di strade e di piazze abitate soltanto dal vento, F. si sente solo, spaventosamente solo, lontano dalla gente, quasi fuori dal tempo e dalla vita. E’ scosso da brividi, forse di stanchezza e di fame, forse di paura. Ora, il cavallo avanza lentamente, col muso verso terra, talvolta si ferma e trema. F. ritrova la porta da dove è entrato. G. dorme, avvolto nel cappotto. All’alba avvistano, lontano, il fumo dell’accampamento che dovevano raggiungere. La carovana con i cammelli arriva due giorni dopo. Nessuno vuole dire a F. il nome della città misteriosamente abbandonata.

 


 

L’auto con la capotte

Allo scollinamento la strada è dura e liscia, non più fangosa seppure sia mattino presto. Attorno, le colline sono affollate di castagni e di robinie e di faggi. In alto, le montagne sono brulle, incastonate, selvagge non più innevate. Nella discesa, l’auto passa tra boscaioli che accostano cataste di tronchi che sono puliti dai rami, sono affiancati con regolarità, ecco un camion per caricarli. “Salve, buon lavoro” chiede F. “Ne avete per tanto ?”. Qualcuno si ferma, il rumore delle seghe sminuisce, qualcuno saluta. Il camion è a lato della strada. “Ci passo ?”. Qualcuno fa segno di okay. L’auto rallenta e F. sporte la testa a sinistra per controllare le ruote del camion, M. si sporge a destra a controllare il ciglio, là dove diventa sterpaglia che s’inerpica nel bosco. Il camion è superato, le motoseghe riprendono un frastuono che si dissolve più avanti, l’auto sfrigola le ruote sullo sterrato, la strada scende e risale, tra macchie di bosco e sciabolate di luce, dalla capotte aperta una pennellata quasi continua di azzurro. L’auto arriva ad una baita, qualche mucca osserva senza interrompere il suo ruminare, un cane abbaia senza fine finché l’auto lo sorpassa. La discende, l’auto raggiunge un villaggio, campo coltivati, filari di vigneti, con grappoli di uva bianca e uva rossa, le foglie spruzzate di blu – verde metallico. Uomini e donne e giovani ragazzi sono al lavoro nei campi. Molti alberi da frutta, ciliegi, peri, meli, prugni, albicocchi. Le macchie di bosco sfumano progressivamente, ma talvolta di netto, in radure con prati, in festa, dipinti di fiori gialli, bianchi, rossi, azzurri.
L’auto raggiunge il torrente e oltrepassa il ponticello di pietra. I prati luccicano al primo sole, è frescura che inebria dalla capotte aperta. I boschi finiscono, l’auto si allontana dal torrente, fa due curve, strette e contrapposte, discende rapida, cambia la marcia, fa spolverio ai lati e sul retro, polvere sui muretti di pietre, da secoli accomodate sui lati e, più in là, sulle piante di ulivo. L’auto è allo stradone, è sul mare. Va a sinistra e giunge nella città, la pavimentazione in pietra è cosparsa di tratti umidi e qualche spolverio. L’auto si ferma quasi davanti ad una grande caffetteria. F. chiude l’auto, M. va a comperare il giornale dall’altro lato della strada.
Sulla porta della caffetteria, una ragazza li guarda e sorride. “Vorremmo fare colazione”. “Prego, venite”. Dentro è poco illuminato, la luce proviene dalla porta e dai faretti sulla parete che ha due mensole con i liquori. “Per favore. Due cappuccini e croissant. Io liscio”. “Io con marmellata di ciliegie” dice M. La ragazza si mette a preparare dietro al bancone. F. e M. si siedono ad un tavolino quadrato, in acciaio, circondato da quattro sedie pure in acciaio. Al centro, un vasetto con alcuni fiori veri e un porta-tovaglioli. Un vassoio arriva con i cappuccini, due piattini con i croissant, due bustine con lo zucchero, due bicchieri con acqua liscia. In un angolo, in penombra, ad un tavolino pure di acciaio e con due sedie in acciaio che osserva forse la sua tazzina col caffè, forse ormai vuota, forse ancora bollente, sul tavolo un giornale ben piegato, ancora non letto. F. e M. pagano ed escono.
Il cielo si è fatto buio. L’auto riparte con la capotte chiusa. Comincia a piovere. Anche i finestrini si chiudono. La pioggia diventa forte, l’auto si destreggia tra i camion che vanno e vengono dal porto, le pozzanghere aumentano ai bordi della strada e fanghiglia schizza sui marciapiedi, i pochi passanti si riparano nei portoni e in qualche negozio già aperto. L’auto rallenta perché il tergicristallo non regge appieno l’ondata d’acqua scrosciante. L’auto esce dalla città, il mare è maestoso, danza e spumeggia, le onde s’infrangono sul parapetto e spruzzi colpiscono la fiancata. Spiove e, davanti, una striscia di azzurro si distende. Un’altra auto s’incrocia e spande uno strato di acqua fangosa sul parabrezza, spalmandosi a destra e a sinistra, finché sparisce soltanto azionando l’acqua del tergicristallo.
L’auto percorre molti chilometri, il cielo è sereno, il mare molto mosso, tumultuoso, plumbeo, poche le auto di fronte. M. apre il giornale e legge i titoli ad alta voce. F. le chiede di leggergli l’editoriale. Ad un promontorio prima di una villaggio, l’auto affronta una sferzata di vento che quasi la fa sbandare. M. smette di leggere il giornale e guarda F. che dice “Spero di uscire da questo o ci dobbiamo fermare”. L’auto si ferma tra le case del villaggio. Le barche barcollano nel porticciolo, molte sono tirate a riva. Nella piazzetta non si vede nessuno, due pagine di un giornale sportivo svolazzano alte e basse, avanti e indietro, in circolo. Il vento sibila tra i muri un po’ scrostati M. finisce di leggere l’editoriale. “Visto che il vento non smette, non mi piace guidare sulla costa così esposto. Ci conviene fermarci e mangiare qualcosa”
L’auto aspetta in una via al riparo, davanti ad una insegna di trattoria che affaccia ondeggiante la sua lamiera colorata. Il treppiede con il menù è rovesciato. M. e F. entrano, proiettati dentro dal vento. I tavoli sono tutti vuoti, tranne uno con una coppia che sta già mangiando. I tovaglioli di carta sono rossi, la tovaglia a quadrettoni bianchi e rossi, le sedie di legno con lo schienale basso e curvo, un’aria antica e casalinga, una musica nel sottofondo. “Cosa avete di buono del posto? Pasta asciutta col pesto. Pesce del luogo, appena pescato prima di questa mareggiata. Vino bianco”. F. e M. si guardano e annuiscono. “Va bene. Ci porti tutto questo e magari delle patate fritte”. La padrona della trattoria torna con un calice di vino bianco e una caraffa d’ acqua e un cestino con varie fette di pane. “Sono ancora calde, appena arrivate qua dal fornaio”. “Faccia pure con comodo” dice F. “Non abbiamo premura. Finché tira questo vento, preferisco aspettare qui”. Poi, rivolto a M. “Ripartiamo prima che inizi il tramonto e ci fermiamo a dormire nella prossima città. Così, intanto, visitiamo davvero un paesino e poi quella città non prevista nel programma. In questo modo, possiamo vedere davvero l’ambiente, le persone e come si vive qua”.

 


 

Bummel

Un piccolo album, di cartone elegante, pagine cartonate, rilegate perfettamente, una per una, opera compositiva dello Stabilimento A.Kettlitz, tenute insieme da un cordoncino a fili tutti intrecciati, rosso, bianco, verde, giallo, nero; raffigurano i colori delle bandiere del Regno d’Italia e del Reich, in un significativo abbraccio. Una nota di finezza e di apertura mentale, e nel 1912. Ma la avevano ben già prima dimostrata con analoghi cordoncini, nel 1909, al matrimonio di Liselotte e Adolfo, e rappresentanti i quattro suoceri anche se tutti nati in Germania ( Dresda, Stoccarda, Lipsia, Lipsia ).
Liselotte ha 23 anni, è sposata da tre anni con Adolfo, che lavora nello Stabilimento Cromo – Litografico, fondato dal padre Albino. E’ ora una cittadina italiana, nata a Lipsia, moglie, nuora, e, come figlia, fa un “Bummel”, cioè una passeggiata, di una settimana, con la mamma Bertha Jenny, di anni 55, cittadina germanica di Lipsia. Noleggiano una carrozza con fanali, cocchiere con cappello, carrozza di dimensioni da piccolo viaggio, con tetto di tela cerata da aprire o chiudere a seconda del tempo atmosferico, una cassetta di legno legata sul retro della carrozza, due borsoni di pelle, appoggiati su uno dei due sedili. Si inoltrano per carrarecce di collina e poi di montagna, con la vista di torrenti impetuosi e vaste abetaie. Bertha e Liselotte indossano ampi, lunghi, ma comodi vestiti, e, riparate da cappelli a larghe falde, fanno soste, mentre un ignoto fotografo, si direbbe il cocchiere, è ben “professionale” a ritrarle di profilo, e/o sono loro a istruirlo. Bertha, è appoggiata ad un parapetto di solido legno, Liselotte si mostra di tre quarti; laggiù in fondo, il torrente ingrossato, in una zona dove è ampio. Bertha e Liselotte giungono ad un lago alpino, vengono riprese, in piedi, appoggiate a un parapetto del pontile di attracco; hanno appoggiato al parapetto dei maglioni, nell’evenienza. Attorno al lago, esiste un ampia zona pianeggiante, tutta a prato, Bertha e Liselotte si semi-sdraiano comodamente, i lunghi vestiti, che fanno lunghe ed eleganti pieghe sul prato.
Giunte da un’altra parte del lago, eccole che vengono riprese, artisticamente, certamente vi era stato un accordo di scenografia, mentre procedono da un pontile con l’insegna, verso la terraferma. Sullo sfondo, montagne, una col ghiacciaio, al centro della prima collina, un grande edificio, un albergo – rifugio. Bertha e Liselotte proseguono per uno scorcio di canaloni al cui fondo si vedono torrenti e rocce. Le vediamo sedute fra le grosse pietre ed i cespugli a osservare una gola, a fianco di un torrente; le vediamo, su un ponte, sedute, entrambe di profilo, su un tronco che fa da parapetto sul grosso torrente sottostante, una gamba sul tronco, una gamba per terra.
Ecco si vedono arrivate, con una nuova carrozza, molto più grande, una carrozza postale, a quattro cavalli, cocchiere protetto anche da vetri laterali, spazio per passeggeri doppio e ora tutto chiuso dai vetri e dalle capotte, anche il bagagliaio è grande e protetto. Sono arrivate al grande albergo – rifugio, sono scese, stanno davanti ai cavalli, Liselotte si tiene il largo cappello chiaro dal soffio del vento, la strada carrabile sembra finita, attorno si vede neve e ghiaccio, siamo ai primi di Settembre.
Eccole in un paesaggio di alta montagna, il cielo è livido – grigio, le montagne sono semi – coperte di neve ghiacciata, c’è un ampio laghetto, si vede una barca , ormeggiata, una panchina coperta da neve ghiacciata. Ben dentro la riva, in piedi nella neve, Bertha indossa un lungo e pesante cappotto, il bavero rialzato, il cappello scuro ben calcato, le mani nelle tasche. Osserva Liselotte, che ha aggiunto una retina al cappello perché non voli via al vento gelido di lassù, e ha deposto a terra uno zaino ben pieno. Il libretto ben cartonato e con i doppi colori nazionali, termina con una stella alpina, ben conservata.
Così, abbiamo seguito, grazie a fotografie di ottimo e pregevole gusto espositivo, un viaggio, anzi un “Bummel”, una passeggiata loro la intitolano così, , una passeggiata di una settimana, di una Signora di 55 anni, con sua Figlia di 23 anni, fra montagne e vallate e laghetti, cambi di carrozze, e rifugi, e ghiacciai, dal 1 al 7 Settembre 1912.

 


 

Era tutto di lucciole

Nell’ora del tramonto
il giardino
di rosso era tinto
di rosso vivo
dopo un quarto d’ora
di rosso blu
mutava
ma già più tardi
era di un viola
meraviglioso
sotto la luna
era tutto di lucciole.

 


 

Le vele son stremate

Vedo l’orme
di tanti tramonti
tra fradici assi
da mari lontani
corrose dal vento
le vele son stremate
braccia lucenti
le calano agili
anche per oggi
c’accoglie Morfeo.

 


 

La terra s’allaga

Assordante
la pioggia
fra l’ombra
dei rami,
laggiù
i tronchi
fasciati
di nebbia,
s’allaga
la terra,
di vita
s’inebria.

 


 

Aureole

Vetri in fiamme
dal sole calante
enorme
maestoso,
le nubi
dall’altro
sulle vette
si frangon
e i monti
han le aureole
dei santi.

 


 

Lo scompartimento e gli spaghetti

Il taxi è arrivato. F. ed i suoi genitori si fanno caricare le valigie. Non c’è molto traffico. La stazione Centrale è raggiunta e si scaricano le valigie. Un facchino è pronto a portarle al binario, con il suo porta bagagli a due ruote. Il treno è lì in attesa, ma è ancora presto. Le valigie vengono caricate. Fortunatamente, per ora, c’è ancora posto. F. e sua mamma si siedono a fianco del finestrino, nello scompartimento, di un vagone di seconda classe. In effetti, è ancora presto, mancano quindici minuti alle 21.05. F. e sua mamma passano in corridoio e parlano con A. dal finestrino. “Preso tutto?”. “Ma certo!”. Avete preso il cibo, intendo”. “Come ricordi, abbiamo cenato. Speriamo di dormire in qualche modo. F. si può allungare e mettere i piedi e le gambe sulle mie. Abbiamo due thermos con il the. Due banane e i biscotti. A pranzo, ci penserà M., alla grande. Dovremo attenti al peso. Ma penso che F. avrà di che divertirsi per consumare quello che M. preparerà”. Arrivano tante persone, le carrozze sembrano riempirsi, la carrozza di F. e di sua mamma si riempie, tutti gli scompartimenti, le valigie non ci stanno più, ne hanno portato troppe. Alcune finiscono in corridoio. Una persona si siede sul seggiolino apribile, in corridoio. Niente più saluti, le portiere si sentono sbattere a ripetizione, si sente il fischio acuto del capostazione o del suo collaboratore. Il treno si muove lentamente, sotto le enormi volte della stazione Centrale, illuminate da gradi lampioni. Il treno esce nel primo buio, tra segnali e scambi continui, deve trovare la sua strada di uscita. Si vedono le luci delle case, prima passano lente, poi sempre più fretta. Fuori diventa buio, nello scompartimento è accesa la luce doppia, i passeggeri si guardano per i fatti loro.
Un signore, vicino al corridoio, apre un libro. Anche una signora seduta in mezzo, apre una rivista. F. è felice di essere su questo treno che lo porta lontano per tanti chilometri, un’avventura di molte ore, ma che ha già sperimentato, non si ricorda come fosse quando era troppo piccolo e dormiva. Il treno comincia il suo ritmo sulle rotaie, un po’ rumoroso, un po’ dondolante. Stazione di Lodi, il treno ferma. Nessuno sale o scende.. Il fischio del capostazione arriva presto. F. pensa che sia bello stare al finestrino, pensa a domani, con la luce e sole. Aspetta di vedere il mare. La mamma gli dice di allungarsi e cerare di dormire. Il dondolare del treno concilia come in una culla, ma il treno è scomodo. F. riesce ad allungare il sedile, anche se è poca cosa, si toglie le scarpe e si allunga sulle gambe della mamma. Passano altre stazioni, F. un pò dorme, ricorda poco di quelle stazioni, fuori è buio, solo le luci prima e dopo le stazioni. Sono città importanti, F. le ha studiate a scuola, con la geografia. La mamma gli ha ricordato a quali stazioni si fermeranno. F. sente uno stridio e un sobbalzo, il treno si è fermato. La mamma, gli aggiusta una copertina sulle gambe. “Siamo a Bologna. È una città grande con una stazione grande e importante. Ci fermiamo più a lungo. Ecco vedo che salgono molte persone. Dove si metteranno? Tu cerca di riaddormentarti. Hai sete ? Devi andare in bagno ?”.
Il treno riprende. F. non sa così sia successo fuori dal suo scompartimento. Sa che qui è pieno di persone adulte. Hanno acceso la luce notturna. Ora si può riuscire a dormire davvero? Mah……F. ha sonno, con un occhio, sbircia verso la mamma e vede che gli sorride. F. entra in un sonno anche un po’ profondo. Ogni tanto, ma quanto ?, F. si sveglia stordito “Cosa c’è?” “Niente, siamo arrivati a Pesaro. Dormi che è ancora buio”. F. guarda un attimo verso i suoi compagni di viaggio, tutti cercano di riposare, con le teste appoggiate. Ognuno ha un modo diverso per cercare di riposare in posizioni così scomode.
F. si sveglia, la luce è forte, la mamma ha abbassato un po’ la tendina di plastica, il sole dell’alba non arriva il faccia. “Ciao, buon giorno. Sei riuscito a dormire ? Mi pare di sì. Siamo arrivati sul mare. Ti ricordi? Questo è il mare Adriatico. Noi vediamo verso Est, quindi vediamo l’alba e il sole salire su nel cielo”. F. toglie le gambe distese sulle gambe della mamme, le sente intorpidite, si mette seduto, sbadiglia, si frega gli occhi. “Vuoi bere un po’ di the? Vuoi i biscotti? Sono quelli che ti piacciono tanto”. Il thermos è di buona marca, delle cugine tedesche, il the è ancora abbastanza caldo. E’ complicato versare dal thermos nel tappo a bicchierino, con questo dondolio del treno. F. inzuppa dei biscotti nel bicchierino. “Saluta i signori che viaggiano noi”. “Ciao, buongiorno”. “Che bel bambino, Come ti chiami? Quanti anni hai? Che classe fai?” F. è sommerso, finisce i biscotti in mano e poi li accontenta tutti. E tutti sembrano soddisfatti. F. si accorge che lo scompartimento è sempre pieno e le persone sembrano essere quelle salite a Milano. Sbircia verso il corridoio, vede gente in piedi o seduta sulle valigie. F. guarda il mare, che compare e scompare al di là di palazzi, case, stabilimenti, alberi. “Dove andate?” chiede la signora seduta in mezzo, tirando fuori la sua rivista. La mamma di F. risponde “Andiamo a Bisceglie”. “Ah, benissimo, vado anche io a Bisceglie, allora scendiamo insieme”, dice il signore vicino al corridoio, ma non quel signore che ieri sera aveva aperto un libro.
Stare vicino al finestrino è proprio una bella cosa, F. può stare tranquillo a guardare fuori. Vede che lo scompartimento e certamente il treno è pieno zeppo di viaggiatori. F. comincia ad annoiarsi a guardare anche se questo non gli provoca nausea. La mamma gli porge un suo libro di avventure. F. se lo mette sulla gambe, lo apre dove aveva lasciato il segno. “Cosa leggi di bello?” gli chiede la signora seduta in mezzo. “Dalla Terra alla Luna” . “E ti piace?” “Si”. “Si, signora” aggiunge la mamma. “Ma che bravo! Ne hai letti altri di questo scrittore?”. “Si, signora. Ho già letto “Ventimila leghe sotto i mari” e ho visto anche il film”. “Non chiamarmi signora. Cosa ti è piaciuto del film o ricordi di più?”. “L’avventura dentro il sommergibile, io ero emozionato e poi mi piaceva il Capitano Nemo”. “Sai che, durante la guerra, mio marito è stato nei sommergibili?”. “Ah, e come si stava?”. “Beh, siccome c’era la guerra, era molto pericoloso venire colpiti dai missili. Ma lui si è salvato e tornato a casa”. “Ha affondato qualche nave?”. “Bravo. Bella domanda. Sono sicura, me lo ha raccontato al ritorno a casa e c’era sui giornali a grandi titoli, una grande notizia, , che con il suo sommergibile, danneggiarono due navi nemiche che stavano in un porto, e riuscirono ad arrivare alle navi e poi scappare dal porto”. “Un giorno, alla televisione, ho visto che gli italiani avevano dei sommergibili molto piccoli, si chiamavano maiali”. “Bravo, è proprio così”. “Tu guardi spesso la televisione?” “No. I miei genitori l’hanno comperata da poco e mi fanno vedere la TV dei Ragazzi e qualche documentario interessante. A me piacciono quelli che parlano di storia o di geografia o con animali”. “Penso che a scuola vai proprio bene. Vedo che la mamma sorride e annuisce”. “Si, gli piacciono quelle materie, ma anche gli piace scrivere, inventa storielle e poi me le fa leggere.” “Che ne pensi di farne vedere qualcuna alla tua maestra? Sarebbe contenta del suo alunno”. “Ma io mi vergogno, ma una gliela ho fatta vedere”. “E cosa ha detto?” “Bene, scrivine altre”.
Il treno dondola e dondola, F. beve altro the e tre biscotti. “Guarda, siamo a Pescara”. Non scende nessuno, ma qualcuno sale, dove trova un buco di spazio. Sono più di dieci ore che il treno dondola per centinaia di chilometri. Dondola, non corre, mai, è un treno chiamato Diretto, la mamma ha detto a F. “Se prendiamo il treno Espresso, dobbiamo scendere prima a Trani con le valigie, e poi aspettare un treno locale per Bisceglie. Questo è un treno che si ferma a molte stazioni, ma così arriviamo proprio dove G. ci aspetta”. “Sono un po’ stanco di stare seduto”. “Abbi pazienza. Torna a leggere. Anzi, adesso guarda dov’è la spiaggia, la riva sul mare. Siamo attaccati alla riva, le rotaie sono proprio vicino all’acqua.” Il treno ha rallentato, il dondolio è quasi cessato, si sente il rumore delle ruote sulle rotaie. F. guarda, non vede terra dal finestrino, vede già solo l’acqua del mare, si alza per vedere meglio, e scorge la riva con i ciottoli, che scorrono ben visibili, il treno procede lentamente. “Questo tratto andrà modificato, andrà cambiato, così è pericoloso e tutto si ferma, anche i treni Espresso qui diventano lumache, e si creano ingorghi di attese nelle stazioni” dice il signore che ha quasi finito di leggere il suo libro. F. è eccitato dal mare così vicino, lo eccita il treno, lo eccita questo percorso da avventura, non si dispiace più della lentezza, di fermarsi a così tante stazioni, la mamma gli ha detto che, anche questa volta, se in orario, dovrebbero arrivare a Bisceglie, alle 11.30. I signori che stanno seduti vicino a corridoio, chiacchierano fra loro. “Io vado a Bari. Insegno alla Università. Adesso c’è una sessione di esami”. “Io, a Bisceglie, sono in amministrazione di Consorzio Agrario. Ci occupiamo della spremitura delle olive e della distribuzione di olii a diversa gradazione, su tutto il territorio italiano”.
La moglie del sommergibilista “Io scendo alla fine, a Lecce, ho ancora molte ore di viaggio”. “Ah, però!”. “Che cosa vuol farci. Abito con mio marito a Lecce, ma mia figlia ha famiglia a Milano, e così io mi faccio questo viaggio. Vedo alcuni giorni i nipotini. Poi loro vengono giù in estate, quando mia figlia e suo marito hanno le ferie”. “Ma allora siamo tutti un po’ pugliesi. Anche lei signora?” chiede il signore che ha finito il libro, alla signora seduta al suo fianco, la signora seduta a fianco di F. “Sì, pure io; sono nata a Galatina, sono pazza per il mio paese, per me il più bello del mondo. Anche io, ho la famiglia di mio figlio a Milano. Ho anche mia Figlia, suo marito, e un figlio che va finisce le elementari, a Torino. Così, quando li vado a trovare, sto via da Galatina da due a tre settimane, facendo il giro per Milano e Torino”. “Siamo tutti un po’ dei pendolari, allora. Siamo dei viaggiatori molto pazienti su questi treni sopravvissuti alla guerra”.
F. ha bisogno di andare alla ritirata. La mamma capisce e si guarda intorno sul da farsi “Scusate, il bambino deve andare alla toilette”. “Ma certo. Ci mettiamo di traverso. Tu sei agile e riesci a scavalcarci”. F. affronta la selva di gambe, riesce ad arrivare al corridoio, ma qui è problema grosso. Gente seduta sul seggiolino apribile, gente seduta sulle valigie. F. guarda la mamma con un punto di domanda, poi risolve di partire all’assalto del “nemico” che gli sbarra la strada alla toilette. F. deve farcela, deve arrivare e presto adesso, alla toilette. “Permesso, permesso, permesso, devo andare alla toilette”. F. raggiunge la toilette e, miracolo, la trova libera. “Permesso, permesso, devo tornare dalla mamma”. Qualche mugugno, qualche difficoltà in quel pieno, ma tutto va liscio, F. è nuovamente seduto davanti alla sua mamma, e …ora vede che il suo mare è sparito. “Siamo entrati in Puglia “ dice la mamma, attraversiamo la pianura del Tavoliere, ricordi ?” “Si, qui si produce molto grano”.
Il treno ha acquistato una insolita velocità, le stazioni sono distanziate. San Severo, F. comincia a fare il conto alla rovescia. “Mamma,ti ricordi quante stazioni mancano ?”. Con questo treno, adesso le facciamo quasi tutte, altrimenti non si scende alle stazioni di seconda categoria, e noi non scendiamo a casa al mare. Guarda, verso il corridoio, si vede la montagna del Gargano”. “Manca ormai poco, dai che arrivi al mare e fai i bagni. Hai finito il libro? Sono arrivati sulla Luna?” chiede il signore che scende a Bisceglie. “No, ma sono partiti. Sono dei geni a costruire quell’astronave, e arriveranno sulla Luna” dice F. Il signore che scende a Bisceglie “Cosa ti piace a Bisceglie?” “Tante cose, si mangia bene, Maria a casa ci prepara cose buone. A me piacciono molto. Poi, vado in bicicletta, e vado al mare, e vado al porto a vedere i pescatori”. “E cosa fai al porto?” “vedo i pescatori che arrivano con il pesce, e quando partono con le barva che hanno le lampade per la notte, per illuminare i pesci”. “E tu peschi?”. “No, i corro in bicicletta, e vado in campagna a vedere come lavorano. Una volta sono salito su una barca, ma sono troppo piccolo per andare con i pescatori a pesca, anche la mamma non ha voluto”. “Ma no, i pescatori stanno fuori tutta la notte, al buio, al freddo, e poi non possono portare bambini. E poi, i pesci dove li mettono, se ci sei tu?”.
F. guarda dal finestrino l’insegna della stazione di Foggia. Una stazione un po’ grigia, una città che non gli dice niente. Sembra tutto non interessante. “Signora, va spesso a Bisceglie?” chiede la moglie del sommergibilista. La mamma di F. “Ci vado da anni, prima che nascesse mio figlio. Pensi, che lo portato giù che aveva meno di un anno. Col bambino in braccio, e i binari erano ancora malmessi. Bisognava fare molte soste in stazioni o in campagna; mi ricordo che una volta dovetti rinviare la partenza perché i binari erano franati in quel tratto così vicino al mare, e non potevo andare a Bisceglie direttamente col terno”. “Sì, signora, io ricordo che tante volte siamo dovuti scendere, e prendere un autobus, e poi ripartire col treno da Termoli, se non da Foggia. Con i bagagli, le valigie di cartone, legate con la corda, e su quegli autobus di ripiego, mi sembrava di tornare ai tempi della guerra”. “Si” fa la signora di Galatina “e spesso non c’era il treno pronto per proseguire a sud, e ci toccava aspettare ore in stazione”. “Io, sapete vado a Bari” dice il professore universitario, “ma ho dovuto prendere questo treno perché l’Espresso della sera era soppresso. Siamo ancora in cattive condizioni.
Qualcuno vuole favorire una caramella al miele?” “Io sì, grazie” dice la moglie del sommergi lista “ho un po’ di mal di gola. L’altro giorno ho preso quel temporale a Milano. Ricordate? Ero senza ombrello e mi sono bagnata ben bene. Ecco, molto gentile. Ma sono le Ambrosoli, le mie preferite”. “Mamma, guarda, siamo a San Severo. Qui cominciamo a vedere sempre olivi e vigneti” dice F. “Vuoi ancora del the?” “ Arriviamo al mare, arriviamo al mare” risponde F. “Oh, ti vedo entusiasta. Allora, adesso basta con il viaggio sulla Luna? Lo leggerai a casa. Vedere la costa adesso è molto bello” dice la mamma. “Adesso comincio a sentire i profumi, a vedere i colori della mia Puglia “dice la signora di Galatina “quanto vi fermate a Bisceglie? Signora”. Penso per tre settimane, così lui ha un buon periodo di sole e aria buona” dice la mamma. “Dicono che il tempo si manterrà buono per un mese almeno” soggiunge il signore di Bisceglie.
“Avete qualcuno che vi aspetti stazione?” “Sì, o almeno così spero, non abbiamo il telefono, ho avvisato per lettera e anche per telegramma, giorno e orario, spero proprio che ci sia, ma non si può mai essere certi”. “Adesso la aiuterò a scendere con le valigie, vedremo se si passa dal corridoio. Altrimenti dobbiamo usare il finestro, ma ci occorre un altro aiuto. Mh… vedo che il corridoio sembra ancora pieno. Speriamo che molti scendano alle prossime tre stazioni. Temo che non saranno ancora molti. Chissà quanti proseguono molto più giù. “La ringrazio, cominciamo a vedere quando arriviamo a Trani e ci prepariamo. Lei ha molto bagaglio?”. “No, una valigia” risponde il signore del Consorzio Agricolo a Bisceglie. “Lei abita a Bisceglie, penso”. “Si, se ci fossero dei problemi, mio figlio viene con l’auto e vi possiamo portare a casa”. “Molto gentile, spero che ce la caviamo, vero ?”. F. non risponde, lui sa aiutare la mamma anche se le valigie sono valigie. F. poi, è entusiasta, il treno è nella stazione di Barletta, F. si ricorda della Disfida di Barletta, l’ha studiato a scuola, ma ai signori non lo dice. F. è al finestrino abbassato, guarda il suo orologio ricevuto in occasione della sua Prima Comunione. Segna 11.25. F. ha deciso, lui lo sa, che il treno non può arrivare a Bisceglie alle 11.30, il treno è in ritardo.
F. non sta a pensare che il treno è sempre arrivato in ritardo, ma mai in ritardo come arrivavano i treni quando lui ero troppo piccolo per ricordarlo, o quando la mamma andava a Bisceglie, prima che lui nascesse. F. è comunque euforico, vorrebbe affacciarsi per prendere ancora più vento e aria che sa di mare, inspira, i capelli gli si arruffano. “Bambino, sei quasi arrivato. Fai allora una bella vacanza, diventa scuro scuro, che sei tanto biondo” dice la moglie del sommergibilista. F. si volta e la fa un sorriso. La mamma pure sorride. A Barletta, sono scesi un po’ di passeggeri. Quelli che scendono a Trani e poi a Bisceglie, sperano. Il treno adesso corre, sembra correre, forse per la vicinanza della meta, ma F. vede che le case passano vicine, poi case agricoli, e distese di filari di vite, e ulivi.
F. riconosce la sua terra, riconosce di essere tornato nel territorio di certe belle vacanze. I passeggeri, sono distanti nello scompartimento, F. ormai guarda solo davanti a sé, si fa scorrere tutto davanti come un fiume. Il treno fischia, fischia di nuovo, rallenta in mezzo alle case, entra nella stazione di Trani. “Dammi il libro. Ecco, lo rimetto nella tua cartella. Questa la porti tu. Mi raccomando”. “Adesso, bisogna tirare giù le valigie. Allora c’erano il facchino e il papà. Adesso, questo signore è così gentile di aiutarci”. “Ma Signora, la aiuto anch’io, ce la caviamo. Vediamo piuttosto se attraverso il corridoio o il finestrino. Quante valigie avete?” chiede il Professore Universitario. “Due. Queste due qua sopra”. La signora di Galatina guarda su alle valigie “Potrei dare una mano anch’io ma non arrivo certamente a quella di sopra”.
Il treno lascia la stazione di Trani, acquista nuova velocità, F. è attaccato al finestrino. Pensa alla prossima, la sua stazione, là inizieranno le sue vacanze, tanto amate, con persone tanto care. Il corridoio è almeno transitabile. Il signore di Bisceglie si alza e prende la sua valigia, la mette in corridoio. La moglie del sommergibilista si alza e si sposta in corridoio. “Ecco, così avete più spazio” dice. Allora il Professore e il signore di Bisceglie fanno spostare di fronte la mamma di F. Lei tiene F. sulle ginocchia. Afferrano una valigia, poi l’altra, le portano in corridoio. “Permesso, grazie”. Le valigie, tutte le tra valigie arrivano allo sportello della carrozza. “Buona vacanza, signora. E tu fai tanti bagni. Divertiti” dicono quasi insieme la signora di Galatina e la moglie del sommergibilista. F. non può più vedere dove si trova, sente il treno che fischia e comincia a rallentare, a cigolare. Ecco, il treno si è fermato. Il signore di Bisceglie apre lo sportello, fa scendere la sua valigia, il Professore gli passa le altre, “Buon proseguimento. Piacere della conoscenza. E tu …sempre così che crescerai giudizioso”. La mamma di F. scende i gradini e si volta a controllare la discesa di F. Bisceglie, stazione di Bisceglie! Il grande viaggio in treno, nel profondo Sud è terminato. F. e sua mamma sono arrivati. Le valigie. “ Signora. E’ venuta la persona che doveva venire? Non faccia scrupoli. Le ho detto di mio figlio”. “Grazie, la ringrazio veramente molto. Si è disturbato. Eccolo il signore che doveva venire. Ci siamo. A lei, un buon proseguimento”. “Si figuri. Se volete venire a trovarmi al Consozio, questo è il mio biglietto, con indirizzo e numero di telefono. Potete venire a verere come funziona e come si prepara l’olio. A te interesserebbe vederlo?” “Si, a piacerebbe vedere come si fa”. “Allora, arrivederci e, voi, divertitevi, io ho il mio divertimento col lavoro”. E così dicendo il signore del Consorzio fa una bella risata, prende la valigia ed esce di stazione.
G. aspetta F. e la sua mamma, li abbraccia, prende le due valigie e va fuori sul piazzale. Sul piazzale, c’è il furgoncino, carica le valigie, e poi fa salire F. e la sua mamma. Il furgoncino parte, con gran rumore e infila il lungo viale alberato, arriva nella piazzetta, prosegue nella immensa piazza Vittorio Emanuele, si ferma al semaforo. Verde, Riparte per tutta la piazza, passa davanti al ciclista che noleggia ogni anno la bicicletta a F., ingrana la marcia, svolta arrampicansi attorno al torrione Aragonese, poi prosegue, sballottando tutti sui lastroni centenari. Passa davanti al Palazzo Comunale, scende verso il mare, gira sulla destra e poi a sinistra, si è fermato. G . è sceso, fa scendere F. e la sua mamma. Mentre G, scarica le valigie, la cartella di F. e la borsa a tracolla di sua mamma,
F. guarda il portone secolare del Palazzo degli Avi. Sta a bocca aperta, come fosse la prima volta. E’ felice ed emozionato. “Vediamo se adesso ci arrivi. Prova a picchiare il batacchio. F. si alza sulla punta dei piedi e riesce ad afferrare la punta del serpentello di bronco, alza e abbassa, il serpentello fa rimbombare il portone e lo si sente bene per strada. M. si affaccia al balcone; il portone si apre, M. ha tirato la fune di ferro che sta in cucina e che attraversa il pavimento e arriva fino a giù, a sollevare la serratura. “Mamma, corro su” “Ecco, porta la la tua cartella”. F. corre su per le antiche scale, dai gradini molto alti, per due piani, arriva su, sulla porta lo aspetta M. china per accoglierlo, si rimette dritta, lei piccola, per abbracciare F., della sua altezza o quasi. M. piange “Come ti sei fatto grande, come ti sei fatto grande, come ti sei fatto un bel bambino”. E poi, M. torna a piangere. “Oh la mia signora. Come sono contenta. Come sta?”. G. arriva con una valigia per volta e vengono messe, una nella camera da letto della prozia Maria, una nella camera da letto dello zio Giuseppe. “Datevi una rinfrescata. Fra poco si mangia, Avete appetito?”. “Io tantissimo, ho fame” dice F., saltellando. La grande tavola nella grande sala da pranzo, con i soffitti, e le pareti decorate, è apparecchiata ancora con le tovaglie i grandi tavoglioli, probabilmente servivano per proteggere i coletti e gli sparati di una volta. I piatti, sono quelli inglesi con le decorazioni applicate di paesaggi cinesi. M. arriva trionfante con una zuppiera colma di spaghetti al pomodoro. Quando si dice spaghetti al pomodoro, si dice quelli cucinati da M. Fanno venire appetito anche a chi non volesse. Poi, le cotolette di M., che una tira l’altra, come le ciligie. Poi, una mozzarella di bufala che a Milano la mamma di F. non la trova così. Poi, grappoli di uva baresana, a F. l’isa baresana lo fa impazzire, spalanca gli occhi. “E adesso andate a riposarvi che avete viaggiato assai e sarete stanchi. E tu non sei stanco, ma che bel signorino si è fato”. “Giro un po’ le stanze, guardo il mare dal balcone, e poi vado a letto. Svegliatemi, che vorrei poi andare a trovare gli zii verso sera. Mi piace rivedere tutti “.
Calma, calma” dice la mamma “adesso dormi un po’ poi avremo tanto tempo e tanti giorni per fare e vedere”. “Grazie M. e G. Andate a riposare anche voi”. F. si stende sul lettone, immenso, in ferro battuto, che era stato della sua prozia Maria, in quella stanza con tanti cassettoni, e varie statue di santi sotto campane di vetro, quanti altri Avi erano stati lì, avevano dormito lì, si erano alzati al mattino, e si erano lavati con l’acqua fredda, sciacquandosi nel catino di porcellana, con il piattino per il sapone, e il porta lenzuolini, e lo specchio regolabile. Giù in strada, F. era nella camera da letto dietro la sala da pranzo, verso la facciata più antica del ‘700, nella stradina di lastroni, laggiù, qualcuno gridava in dialetto per vendere la sua merce, a quell’ora oggetti per la casa, fermandosi ad uno portone o portoncino, e ripetendo il suo. Anche queste cose piacevano a F., erano ricordi, erano atmosfere che stava assimilando sempre più. F. aveva fatto un grande viaggio, lo aveva studiato di nuovo nella sua stanza a Milano, si era preparato per tutte le stazioni, anzi si era preparato per le stazioni più vicine alla meta. A F. piacevano i treni, piacevano i treni ed i capi stazione. Avrebbe desiderato avere, in futuro, un trenino elettrico. Ma ora cominciava ad avere sonno. “Ancora non dormi?” chiede la mamma, comparendo sulla porta che separa le due camere da letto. F. dorme.

 


 

Infermeria

S. si sente a pezzi. Il cielo è buio, i fanali spengono le stelle, oltre è sempre e tutto buio, l’orizzonte è spento, tagliato fuori. S. si nasconde dalla luce di un fanale, dietro l’angolo della baracca. La via è libera, nessuno: S. si affretta ed entro nell’infermeria. Aperta la porta, appare un corridoio, è tutto pulito, tutto è bianco, tutto abbacinante, le pareti smaltate di bianco, i mobili smaltati di bianco, pure loro. Ai lati, tante porte, tutte chiuse. A destra, una porta è aperta, vi sono alcune sedie, smaltate di bianco, le pareti sono smaltate di bianco, nulla si trova appeso, non un avviso, un quadro, uno specchio, un orologio e un tavolino pure smaltato di bianco, a quel tavolo una sedia pure smaltate di bianco, dietro al tavolo sta seduto un infermiere, con camice bianco di bucato. Scrive. S. lo guarda scrivere per un po’, poi guarda le sedie “Mi siedo ?”. s. si toglie il berretto. “Scusate, ehm, ecco scusate, sono un po’ malato”. S. rimane in piedi davanti al tavolino. Passa un minuto. L’infermiere interrompe la scrittura, alza lo sguardo. “Perché sei venuto questa mattina ? E’ troppo tardi. Non lo sai che di mattina non si riceve ? La lista degli esonerati va al comando alla sera”. S. lo sa, come pure sa che neppure di sera è facile farsi esonerare. “Non viene il male a comando, al momento giusto. Io ho male adesso”. “Cosa ti fa male?”. “Non saprei dire dove con esattezza, mi sento un po’ a pezzi, mi sento ammalato”. L’infermiere dà una occhiata a due foglietti appuntati al tavolino. “Ho già esonerato due di voi. Non posso esonerare altri. Guarda lì” e gli indica i foglietti. L’infermiere prende un termometro da un barattolo coperto di garza e lo asciuga. “Tieni”. S. si accuccia su una delle sedie, mentre l’infermiere riprende a scrivere. Un silenzio assoluto, l’infermeria è isolata, ovattata, sembra vuota, sembra dormire in silenzio, neppure una pendola, neppure un gatto o il rumore di un animale. Sono passati cinque minuti: S. è dubbioso e trova strano a stare in una stanza pulita, silenziosa, bene illuminata e a fare proprio niente di niente. S. si guarda addosso. Si guarda il giaccone: ha il numero poco consumato “Posso stare tranquillo con le guardie”. S. si liscia il volto, trova la barba lunga. “Me la sono fatta dopo il bagno, sono dieci giorni, fra cinque giorni, nuovo bagno e me la taglio”. “Ma cosa scrive l’infermiere, non si ferma, riga dopo riga, sarà un cosa importante, oppure non lo è affatto”. “Come vorrei essere ammalato per qualche settimana, ma ammalato giusto per entrare nell’ospedale, stare al caldo, in un letto, qualche settimana di riposo e anche mangiare soltanto il brodo mi sta bene”. “Mah! Chissà se si sta bene almeno nell’ospedale. Qualcuno mi ha detto…ma chi? non ricordo, ma mi ha detto che è arrivato un medico prepotente che tormenta gli ammalati, ha detto che impone di fare lavorare tutti i ricoverati che non sono costretti di stare a letto…gli fa fare lavori, riparare infissi, pulire i sentieri, fare i giardinieri, spalare la neve appena nevica…e ha detto che il lavoro rende liberi, sani, la migliore medicina”. “Mah! ma quel medico ha mai lavorato davvero ? vallo dire anche a un cavallo! Vada a rompersi la schiena e poi lo voglio vedere se ha la stessa opinione”. “L’infermiere continua a scrivere. Mah! sta facendo qualcosa di suo, magari scrive una poesia o un racconto, qualcuno dice che sia un tipo di terapia”. “Ma sarà proprio un infermiere ? cosa fa come infermiere?”. S. guarda i vetri, sono opachi, anche loro bianchi per il ghiaccio. S. sospira, ha dei brividi, si alza. L’infermiere afferra il termometro, lo guarda e “Trentasette e tre: non sei né carne né pesce. Con trentotto, ti posso scartare. Vedi tu, se restare. La responsabilità è tua, poi viene il dottore e ti va bene se ti trova malato, ma altrimenti ti manda in cella. Vedi tu. Penso che faresti meglio a lavorare”. S. tace, fissa l’infermiere, si gira di scatto, si infila il berretto in testa, percorre il corridoio, afferra la maniglia della porta ed esce nel freddo alle prime luci. Il freddo è pungente. Lo spiazzo dell’appello è ancora deserto, anche il campo è ancora deserto.

 


 

Intervista con un Genio

Oggi, F. ha una intervista con un pittore e scultore eccezionale, e vorrebbe sapere qualcosa di più sulla sua salute, di cui da tempo corrono voci preoccupate, anche se va considerata l’età raggiunta dal grande artista.
“Eccoci qua comodi. Mi scusi, so che lei è sempre molto impegnato, ora, mi dicono, con una grande statua. Le rubo un poco del suo tempo perché sono interessato a sapere qualcosa sulla sua salute”
“Eh, caro signore. Provi ad arrivare alla mia età di 89 anni. Ho l’artrite, dicono osteoartrite, e il lavorare con martello e scalpello, dicono che non mi aiuta. Io, invece, ritengo che proprio questo mio lavorare sempre mi permette di mantenere comunque l’uso delle mani. Qualcuno mi ha visitato, qualcuno ha confrontato alcuni dei miei autoritratti, per studiare la progressiva deformazione delle articolazioni delle dita. Questi hanno potuto esaminare una mia mano . Poi, questi sono gli stessi a lodare le mie ultime sculture, meno rifinite, più grezze, come sculture potenti e vitali”.
“Qualcuno afferma che lei soffra di gotta”. “Mah, io accennai alla gotta con mio nipote Lodovico. Ma è un termine che, per ora costituisce una sorta di diagnosi del metti insieme tutti i tipi di dolori articolari, infiammazioni e sofferenze artritiche. Le mie mani non presentano noduli particolari, il fatto è che mi sento dolorante e rigido, è ed esattamente quello che ho detto a mio nipote. Capisce che non è poca cosa se tutti i miei mezzi di sussistenza dipendono dalla mia capacità artistica basata su un lavoro fatto con le mani. Altri dottori dicono che il dolore non sia dovuto all’artrite, ma allo stress di martellare e scalpellare. Io, comunque, lei mi vede a 89 anni continuare a lavorare duramente, io non mi faccio fermare”.
“Alcuni affermano che lei sia affetto da autismo, cosa mi dice in proposito?”
“Mah, le considererei dicerie da spazzatura. Si sa che solitamente ho lavorato con una sola mano, ho uno stile di vita fuori dal comune, e poi miei interessi sono limitati, non sviluppo capacità sociali e comunicative e ho vari problemi nella mia vita, ma non saprei o penserei affatto che tutto questo significhi essere autistico. Il fatto di avere un comportamento ossessivo, un temperamento focoso, dal brutto temperamento, la propensione ad essere un solitario, mi pare siano collegati a molti degli artisti. Hanno perfino interrogato miei assistenti e la mia famiglia, non ne hanno cavato molto circa questo fantomatico autismo. Sono un ossessivo, e allora ? sono anche ripetitivo. Io mi focalizzo molto sul lavoro, ad esempio ho lavorato duramente per otto anni sul Giudizio Universale. D’altra parte, le confesso che ho una memoria ritentiva grazie anche alla quale ho potuto creare molte centinaia di schizzi per il soffitto della Sistina”.
“Ancora una domanda. Cosa mi può dire del suo saturnismo ?”.
“Sì, è una cosa comune, legata al tipo di lavoro. Già era diffusa durante l’Impero Romano e sembra che contribuì alla sua dissoluzione. Ora, questa tossicità viene chiamata colica dei pittori oppure follia dei pittori. Ma le sembro un folle ? Sono folli i miei colleghi ed i miei assistenti ?”
“Non mi pare proprio, folli no, piuttosto sapete esprimere opere di pittura e di scultura, che le assicuro rimarranno nei secoli”
“Va bene. Ciò mi conforta. La ringrazio, ma ora devo riprendere il mio lavoro, che lei mi ha interrotto già da troppo”.
“Grazie, maestro”.

 


 

Era tutto di lucciole

Nell’ora del tramonto
il giardino
di rosso era tinto
di rosso vivo
dopo un quarto d’ora
di rosso blu
mutava
ma già più tardi
era di un viola
meraviglioso
sotto la luna
era tutto di lucciole.

 


 

Le vele son stremate

Vedo l’orme
di tanti tramonti
tra fradici assi
da mari lontani
corrose dal vento
le vele son stremate
braccia lucenti
le calano agili
anche per oggi
c’accoglie Morfeo.

 


 

La terra s’allaga

Assordante
la pioggia
fra l’ombra
dei rami,
laggiù
i tronchi
fasciati
di nebbia,
s’allaga
la terra,
di vita
s’inebria.

 


 

Aureole

Vetri in fiamme
dal sole calante
enorme
maestoso,
le nubi
dall’altro
sulle vette
si frangon
e i monti
han le aureole
dei santi.

 


 

Una perfetta compagnia

F. aveva lavorato tutto il giorno. Aveva lavorato come il solito, tutto il santo giorno, tanti pazienti, tanti problemi, tanti problemi seri, situazioni serie, decisioni rapide. F. aveva saltato il pranzo, F. era stanco, ma più stanco di quanto fosse stato stanco ogni giorno di ogni santo giorno, F. aveva dimenticato l’ombrello, non lo aveva dimenticato perché uscendo per altre visite non pioveva, e poi F., se non pioveva più o non pioveva ancora, ogni volta dimenticava l’ombrello da qualcuno. La pioggerella lo bagnava e poi inzuppava, e poi colava dai capelli sul viso, la borsa da medico raccolta in braccio per fare inzuppare meno possibile il cuoio.
F. era tornato a casa tardi, F. aveva i brividi, aveva cambiato i vestiti, aveva indossato il pigiama, aveva ancora brividi e poco appetito, la minestra era da scaldare soltanto, almeno un tepore addosso, ma basta, F. non aveva appetito. Termometro: 37.8. F. non aveva svegliato nessuno e si era messo a letto; F., la notte, aveva i brividi e sudava, e sempre brividi, si era alzato e aveva preso un paracetamolo e bevuto molto; era tornato a letto sperando, sperando cosa ? ma se era chiaro, anche per un medico! che sì! si era preso, per lo meno, una infreddatura aggiunta alla stanchezza accumulata e che si metteva male, male nel senso che al mattino come avrebbe fatto con il lavoro, con lo studio, con i pazienti in coda reclamanti, richiedenti, bisognosi ? Al mattino che era fra poche ore, non pensava neppure a come potessero essere i prossimi giorni, o a complicanze, strascichi, sostituti da cercare col febbrone, F. viveva il presente, a digiuno, con la sovra-coperta, tanta sete, come fare anche nella ruotine di casa, ma tanto questo era il meno: F. quando era in casa di giorno, nei giorni ?
Al mattino non si alzava dal letto, non si alzava proprio, se non per effetto della tanta acqua bevuta, e poi dei succhi di frutta. Altra tachipirina ma il termometro diceva 38.2, diceva che era indispensabile! telefonare per trovare subito un sostituto, e come era facile trovare subito un sostituto! e poi per quanto tempo, con la pioggia, con la febbre in salita ? Al telefono il collega era al settimo cielo per la notizia, ma per quanti giorni ?? cerca di guarire presto! F. sapeva, sì, sapeva che non sarebbe guarito in poche ore, che anche il giorno dopo era da considerare anzi era consigliabile da allettato o domestico, a riposo. F. aveva il sostituto e il lavoro era salvo, la continuità era salva, i funzionari sanitari erano super-soddisfatti, ma F., nel letto, pensava alla sua vita senza soste, da “Tempi Moderni”, adesso l’incubo era non a sé stesso, ma al ritorno in studio, alla valanga di pazienti che non andavano dal sostituto, giammai se sapevano che il dottore tornava molto presto. In quel mentre, P. si era messo sul letto, seduto e poi sdraiato, prima a guardare F. poi a chiudere gli occhi. A mezzogiorno F. aveva deciso che comunque qualcosa bisognava mettere sotto ai denti, andava in cucina, si scaldava qualcosa di già pronto; allora, anche P. si alzava e andava in cucina. F. tornava a letto, cominciava a sudare, il termometro diceva 37.2. F. pensava di farsi, forse, una dormita. Anche P. pensava la stessa cosa, ma insieme con F. Dormivano, entrambi, per parecchie ore, si era fatto buio, il sonno a F. era passato perché si sentiva, anzi si trovava inzuppato, non aveva più brividi, la fronte era fresca, il termometro diceva 36.4. In casa c’erano tutti, si cenava. La notte successiva, per F. era notte insonne o quasi, aveva dormito varie ore nel pomeriggio e sera, ma F. era cauto, alle quattro il termometro diceva: 36.1, F. era soddisfatto. Non era certo opportuno dirlo al sostituto al mattino, ma aspettare il consolidarsi degli eventi nella giornata. Al mattino, la sveglia generale era la solita, l’uscita di quasi tutti per lavoro o per studio era la stessa, la stessa non era per F. che finalmente stava a letto, e non col febbrone e i brividi e le preoccupazioni lavoro e sostituto. P. era rimasto a casa, e tornava a fare compagnia a F., senza fare sobbalzare il letto, senza dire parola, perfetta compagnia. F. voleva godersi ore a poltrire nel letto, cosa rara, e pure era in perfetta compagnia, e quando F. voleva decidere di occupare il tempo da seduto e leggere un libro, tutto rimaneva perfetto. F. poteva non essere solo a sentirsi solo e acuire i tanti problemi, aveva una buona lettura, una buona prospettiva di essere sano il giorno dopo, al giorno dopo era meglio non pensare, tanto aveva anche la compagnia, tranquilla, discreta, silenziosa, ma erano pensieri di breve durata, il suo errore era stato di mettersi seduto a leggere, mentre a fianco c’era P. Ora P. era fra il suo viso ed il libro, lo guardava intensamente, allora sei guarito!… e faceva grandi fusa.

 


 

Il suo laboratorio

Il suo laboratorio è in un cortiletto di una vecchia casa in un vecchio quartiere storico. Sono tutti artigiani, qui. C’è il bronzista, c’è il tappezziere, c’è l’argentiere, E. è qualcosa di indefinito, lui sa fare .
Lui sa inventare, sa ricostruire da oggetti di legno rovinati dal tempo, da lampade non più funzionanti, sa fare brillare di nuovo lampade di oltre un secolo fa, ancora usando i fili a intreccio, e tutto messo a norma di sicurezza. E. lavora su prezzi bassi, ma questa sua onestà gli crea problemi nel pagare le spese di affitto. E. vive sempre sul filo di lana del sopravvivere. Eppure, nessuno sa lavorare come lui. Soltanto con E. gli oggetti validi come qualità, ma che sembrano ormai fuori uso, riprendono una vita nuova.
“E., ti ho portato queste due lampade liberty di bronzo, da parete, con il braccio mobile col peso per stabilizzare e il supporto porta candele. Cosa si può fare? Il design è stupendo”. “Sì, sono stupende” dice E. “So già cosa fare. I corpi intagliati diventano le basi. I bracci vanno in verticale con il peso in basso a tenerli e, sul porta candela, faccio un innesto elettrico per le lampadine. Con un paralume, diventano due lampade originali, da tavolino o d’angolo, eccezionali”.
“E., ho recuperato questo stupendo ed enorme centrotavola Wurtenberger Metallfabrik, un arabesco liberty a tre gambe che ha in cima il supporto per una ciotola porta dolci, e tre bracci, a cui si agganciano dei porta piattini per caramelle. Unico problema. Mancano tutti i vetri”. “Vediamo. Ho trovato. Prendo le misure dei quattro supporti e faccio mettere, al posto della ciotola e dei tre piattini degli analoghi in peltro che si armonizzino con tutto il centro-tavola in peltro”.
“E., questa statua di donna è caduta. Un braccio si è rotto di netto. Penso che sia fatta con una lega, come si usava più di cento anni fa. Riesci a riattaccare il braccio?”. “E’ complicato. Cerco di farlo alla fiamma. Ora procedo”. E. sa dare una risposta operativa per ogni problema diverso, su materiali diversi. “Ecco. Ora occorre lasciare lì la statua per un’ora. Non si vede nulla, solo chi lo sa, vede come un braccialetto al braccio della fanciulla liberty”.
“E., questo orologio liberty in peltro, mi è stato fatto cadere. Si è spezzato un piede della base. Ho consultato vari artigiani del peltro, ma nessuno dice di essere in grado di riparare”. “Lasciamelo. Ci penso io a sistemarlo e farlo stare in piedi come prima”.
“E., ho a casa un vecchio lampadario liberty. E’ sano, bello, ma l’impianto elettrico è marcio”. “Ci penso io a rimettere tutto un impianto a norma. Senti F., a quella lampada da tavolo con le foche che si sorreggono, ho recuperato un interruttore a peretta di bachelite e pure il filo intrecciato”.
“Come va il lavoro?” chiede F. “Mah, lavoro c’è ma poi non pagano. L’affitto è troppo. Non ce la faccio con queste due stanze. Penso di ridurmi a solo questa in cortile. E poi, sorgono sempre nuove tasse, e nuove regole. Non sai cosa ho speso per l’apparecchio smaltimento polveri. Ma se ci lavoro solo io! Se a me non importa, perché dovere fare tutto questo? E poi a chi lascio questo lavoro? Andrà perduto, come a poco a poco si perdono i lavori degli artigiani, non si restaura più, si butta via tutto. Volevo trasmettere il mio lavoro a mio nipote. Niente. Le autorità me l’hanno fatto allontanare perché non in regola con non so quali nuove disposizioni sull’apprendistato in una officina, in un laboratorio come il mio! Ma se la storia dell’uomo è fatta di pilastri dell’Arte che passarono i loro primi anni come garzoni dai loro Maestri, senza aspiratore, senza contratti di formazione e non so io cosa altro si sono inventati. Quelli, molti di loro furono Artisti, molti sapevano fare al meglio, era Rinascimento, era Arte, ora è decadimento, e nessuno saprà fare questo. Tutto prefabbricato o da Amazon”.

 


 

Polenta uncia

Legarono le racchette alla rastrelliera appesa al muro di pietre grezze ed entrarono. Dentro era illuminato dalla tante piccole finestre, zone illuminate e zone in penombra. Si tolsero le giacche a vento e si sedettero vicino ad una finestra dove stava uno dei vasi di gerani rossi, vi era uno ad ogni finestra, sedettero al tavolo accanto alla piccola stufa austriaca di porcellana, ora spenta. Tutto sembrava essere di legno, anche le pareti di pietra erano coperte da assi di legno chiaro, ricco di venature, verniciato. Le sedie e il tavolo erano dello stesso legno, tutto dava un senso di accoglienza, brillantezza, pulizia. Le sedie avevano cuscini con disegni e riquadri bianchi e rossi. Un uomo ed una donna sedevano chiacchierando, al tavolo vicino. Sull’altro lato della stanza, quattro uomini stavano pranzando. Una ragazza portò due piatti fumanti alla coppia. Si avvicinò al tavolo di F., a G. e P., sorridendo. Aveva un vestito vivace con maniche bianche a sbuffi, ed un grembiule ampio a quadretti bianchi e rossi. “Buongiorno! Cosa vi porto? Io vi consiglierei il piatto del giorno. Abbiamo la polenta uncia. E’ praticamente pronta.” “Ottimo” risposero F. e P. “Papà, cos’è la polenta…uncia?”. “Una polenta con aggiunta di burro e formaggio. Poi ti spiego meglio. E’ molto buona. Ti va bene?” rispose F. “Si, va bene”. “Allora, ci porti due piatti di polenta, un mezzo piatto per lei”. “Cosa vi porto da bere?”. “Direi vino bianco” disse F. “Per me va bene. Facciamo un litro di sfuso?” disse P. “Allora, ci porti il vino bianco e dell’acqua non minerale”. “Bene, grazie. Torno tra poco”. “Allora, la polenta uncia. E’ una specialità delle zone del lago di Como, cioè delle provincie di Como e Lecco, ma diffusa in molte zone del nord Italia. Viene condita con burro di qualità e formaggi semigrassi o grassi, come bitto, fontina, taleggio. Qui, penso usino il taleggio che è proprio di queste parti. E’ un piatto buono, anzi buonissimo, e sostanzioso, ti mette a posto la fame venuta con la salita”. “Allora G.. è stata dura la salita ? “. “No, tutto bene. Ho fatto salite più difficili. Ora però ho appetito”. “Allora bene per la uncia. Dove sei stata in altri rifugi ?” chiede P. “Papà, dove siamo stati insieme ? Io ricordo il Resegone, una volta in estate, una volta in inverno. Poi in cima alla Grignetta, ma non c’era il rifugio lì, mi ricordo un casotto di metallo . E poi in Valtellina e nelle valli sopra Bergano, ricordo un ghiacciaio eravamo molto in alto. Nel rifugio si stava bene. Abbiamo passato una notte”. “Perbacco, ti piace andare per rifugi con tuo papà. Quanti anni hai? “ “Ho compiuto otto anni da poco”. “Perbacco. Prometti bene come scalatrice”.
“Ecco la vostra polenta” annunciò la ragazza, reggendo tre piatti fumanti. “Evviva,” dissero F. e P. G. sorrise e guardò il suo piatto; aveva solo un pò meno polenta degli altri due. “Allora, vi è piaciuta questa salita” chiese P. “Molto bella, diciamo agevole, non sotto il sole essendo mattino e poi questa vista del lago che ne fa un percorso particolare”. “Io sono venuto qua varie volte e volevo farvi conoscere questo percorso, la vista ce la siamo proprio goduta già uscendo dal bosco e io proporrei di godercela, dopo pranzo, seduti fuori” disse P. La polenta era molto buona, non era più troppo calda, i dialoghi si interruppero. Tutti e tre finirono senza commenti e pulirono pure i piatti sul fondo qualche avanzo di polenta. Due ragazze entrarono nella stanza e si sedettero al tavolo libero. Parlavano tedesco. La cameriera si recò da loro. “Di tanti rifugi, non ero mai venuto a questo. Non ero mai venuto da questa sponda del lago. Ho fatto quasi tutti quelli delle Grigne, il Resegone , e due volte con G. come ha detto, e poi sulle Dolomiti …ah con G. in Valtellina ai ghiacciai”. “Vi è piaciuta la polenta “. “Molto buona” risposero tutti i tre. Poi, mangiarono dello strudel e bevvero quello che rimaneva. “Ci porta due caffè, per favore?” “Corretti?” “Tu che dici”chiese F. “Ma sì, appena appena”. “. G.,hai ancora nello zaino l’aranciata?”. “Si, avevo bevuto solo l’acqua dalla borraccia”.. “Allora, vuoi altro?” chiese F. “No, sono a posto”. G. si stirò. P. inclinò indietro la sedia contro la parete e chiuse gli occhi. “Il vino mi fa sempre sentire così” disse. “Male?” disse F. “No, bene. Ma in un modo buffo”. “Vuoi berne altro?”. “No, per carità. Penso che tra poco sia anzi meglio uscire a prendere il sole prima che scompaia e un po’ di aria frizzante”. Rimasero così seduti. G. apriva e chiudeva gli occhiali da sole. F. rimase seduto in silenzio. Guardò le due bottiglie ed i tre bicchieri ormai vuoti. P. riaperse gli occhi e tornò dritto con la sedia dalla parete. Sorrise. “Che polenta. La uncia! E poi vino, strudel, caffè corretto. Abbiamo recuperato tutte le calorie perse nella salita. Ma, ditemi, non ne valeva la pena?” G. sorrise contenta e si mise a guardare nella stanza. I due al tavolo vicino si alzarono, pagarono e uscirono. Al tavolo lontano, bevevano di nuovo, birra. Le due ragazze che parlavano tedesco, avevano preso la polenta, con birra. Ridevano sonoramente. I tre conclusero, aprirono la porta e uscirono. Rimisero le giacche a vento. Il sole stava già per scomparire dal rifugio, scappava a ovest, ma illuminava ancora il lago e certamente le montagne di fronte. Faceva non freddo, ma la differenza rispetto al rifugio era forte. Si sedettero su una panca di legno con schienale, subito fuori dal rifugio, sotto una delle finestre con vasi pieni di gerani rossi. “Scusi, signore, può fare una foto a noi tre, con dietro il nome del rifugio?” chiese F. “Non si tornerebbe giù, tanto qui è bello. Ma poi, ci troveremmo nel buio, in basso, nel bosco”. Presero le loro racchette da trekking dalla rastrelliera dove le avevano legate. “Allora, siamo pronti ragazzi?” chiese F. P. aveva già preso il sentiero, a piccoli saltelli, G. lo seguì, F. chiuse la fila. Ora avevano da fare una discesa come una volata, giù fino al piazzale dove avevano lasciato l’auto.

 


 

Le Radici sono la nostra Storia

F. si sentiva trenta anni di meno. Stare nei luoghi di tante memorie e radici, stare ad ascoltare, all’aperto e dal vivo, musiche da un violino del 1709, esattamente dove quasi 60 anni prima lanciava dal prato il missile TOR, che sfrecciava dritto nel cielo, lontano dagli abeti e dai tigli, per aprirsi, capovolgersi e tornare a terra fra le sue mani, con la dolcezza creata dalla apertura di un paracadute a raggi bianchi e rossi. Stare sui luoghi dove aveva corso con la pistola da cow-boy, stare sulle sedie di ferro del giardino, sempre dipinte di rosso, dove aveva studiato medicina, entrare nella sala da pranzo dove aveva consumato vari pranzi indimenticabili nella memoria della memoria. Passare dalla stanza delle Armature, dove stava il telefono con cui due volte alla settimana comunicava con la famiglia in città, passare dalla cucina dove stavano appese al grande e largo lampadario le strisce moschicide e il camino non scoppiettava più come 60 anni prima, ma era lì, testimone del Tempo, testimone della Memoria, della Radice, della Storia. Una replica, una concessione di seconda, di terza, di quarta vita dopo avere subito e superato sessanta chemioterapie. Un ritorno vero alla Vita, alla Radice, il ritorno a tutto un percorso sulla propria Vita.
Nelle pause, F. sgusciava a perlustrare i luoghi del parco, ogni angolo un ricordo, ogni piccola modifica accendeva il ricordo di come era stato esattamente, anche fosse un sedile spostato, e il contrasto non c’era non era un male. Questo F. faceva nelle pause dei concerti e delle recite dantesche e dei discorsi sulla essenzialità della Storia, della propria storia, delle radici, del fare comunità, essere comunità, territorio, crescita e ricrescita continua, nuova Vita e Rinascenza da trasmettere agli altri perché la vivano e la trasmettano nel Futuro.
Poi scendeva dal vialone dei tigli, il sole era radente, il prato di verde intenso, tagliato di fresco, un sole enorme che tingeva di arancione le foglie cadute, i tronchi, la ghiaia, l’aria, le ultime luci del tramonto, poi scendeva nell’imbrunire tra le stradine silenziose e vuote del paese, guardava la bella villetta con dimora del custode, una volta abitava un suo collega, chissà, si vede chiuso, non si vedono targhette con nome, chissà, guardava e considerava tutti i negozi che erano ancora lì, in quel paese, gli stessi negozi da bambino e da ragazzo e da giovane. Negli stessi posti, le stesse insegne, il cartolaio dove comprava il Corriere della Sera o i numeri del Corriere dei Piccoli, la pasticceria rinomata ben oltre il paese nel territorio, la gastronomia che aveva sempre avuto il suo spazio anche nei cambiamenti di distribuzione dei mercati, con leccornie e prodotti fatti nel retrobottega da generazioni della stessa famiglia. E poi il “Sale e Tabacchi” , sempre lo stesso anche se il sale si compra altrove e non ha più quel monopolio di Stato, e chissà se ancora si trovano i francobolli ormai fuori uso sul territorio nazionale, quelli che F. da piccolo comprava per la sua mamma e allora chiedeva “le carte gibollate”. Ed i grandi recipienti vetro col coperchio, contenenti caramelle e zuccherini “Ne vuoi una, bambino?” E il bancone di fronte dove bere un caffè e un liquore. E la stanza a fianco con i tavolini per il gioco alle carte. C’era pure un telefono di bachelite appeso al muro, funzionante, ma in luogo poco garante della riservatezza. E dalla stanza successiva si sbucava a fianco della chiesa, sul piazzale. E poi i portici percorsi, certi anni, più volte al giorno, e subito sempre lì, un po’ allargatosi ecco sempre l’ottico, anche questo negozio con fama più che locale.
F. scendeva in un crepuscolo luminoso e sentiva solo il suoi passi e si trovava come fosse ancora bambino, ragazzo, giovane. Tornato alle origini, alle radici. Le Radici sono la nostra Vita, le radici sono anche un altro luogo di Eccellenza, magari diverso da dove si è nati, magari diverso da dove si abita, un luogo che è diventato un significato, un luogo cui sono legate radici di una Vita, cui sono legati ricordi, memorie, Emozioni, e il continuare a viverli e a viverci, e saperlo trasmettere.

 


 

Comprano Cultura

B. si alza presto al mattino, alla sera ha già riempito, con la nuova merce trovata, il suo camioncino. B. trova il suo nuovo posto al mercato rionale. Parcheggia il camioncino al lato del marciapiede, e comincia a scaricare e montare il suo tavolo pieghevole. Poi, estrae l’ombrellone e con manovre abili e pluriennali lo apre in modo da coprire il tavolo e ne fissa un lato al camioncino. Il mercato si svolge, tutte le settimane, in un vialone, utilizzando lo spazio fra le due corsie di marcia del traffico. Davanti a lui, alla sua destra, alla sua sinistra si aprono tendoni, si aprono tavoli, si riempiono di casalinghi per le più svariate funzioni e necessità, si riempiono di scarpe, di stoffe, di indumenti di vario tipo, dai tendoni pendono camicie e vestiti. Una folla prevalentemente femminile, molte anziane con la carriola, molte extra – comunitarie, molte donne di media età in cerca di occasioni di vestitini quasi firmati, molti giovani, anche molti single.
B. estrae dal camioncino alcuni scatoloni, nei quali ha suddiviso la sua merce. Una parte la mette sparpagliata, alla rinfusa, occupando quasi tutto il tavolo, sparpagliandola ancora di più in modo che possa vedersi almeno in parte ogni oggetto. Invece, una parte la mette in un settore laterale, ben ordinata, per somiglianze, per origine o contenuto. Gente si ferma anche da lui, e osserva questa merce così differente; curiosano, toccano, prendono in mano un pezzo, lo esaminano, poi ne prendono un altro, e poi un altro. Comprano cultura. B. espone e vende, tra lo sventolare dei vestiti del mercato rionale…libri, soltanto e poi ancora libri. B. vende romanzi, vende libri di avventura? Si, ma da B, si trovano enciclopedie, libri di ottanta anni fa, da B. si possono trovare, in uno scatolone a parte, libri di cento anni fa, chicche , curiosità da bibliofili, e …sparpagliati sul bancone, F. vede decine di libri della letteratura e del teatro greco e romano. Aristofane, Sofocle, Eschilo, Platone, Seneca e tanti altri, brillano fra i casalinghi e le scarpe. I vestiti appesi fanno a loro festa.

 


 

La Primula Rossa

K. è di circa anni venti, bionda, carnagione bianca, statura media, avvenente. Passa da Odessa a Kiev e si dilegua, in seguito alle retate del 1874, ma prosegue la sua attività di cospirazione. E’ affiliata al Circolo Rivoluzionario fondato tra gli studenti dell’Università della Nuova Russia in Odessa. Viene fatta ricerca di K. con ripetute circolari, ma non si giunge a conoscerne la dimora e la procedura che la concerne resta sospesa. E’ affiliata del Circolo Rivoluzionario di Elisabetgrad, è aperta una inchiesta dal Comando della Gendarmeria con ordine di arresto, in attesa che venga rintracciata.
Nel ’75 è di nuovo tra i ricercati della polizia di Odessa, per aver fatto propaganda tra gli operai, ma riesce a vivere nella clandestinità e a sfuggire all’arresto. In Autunno ’75 entra nel movimento cosiddetti dei Rivoltosi del Sud. L’attività di questa formazione mira a scatenare rivolte contadine locali. Secondo i cospiratori “ ogni rivolta avrebbe avuto significato anche se fosse stata schiacciata, anche se non si fosse estesa. Essa avrebbe contribuito comunque a compiere l’educazione rivoluzionaria del popolo. E’ in parte un’applicazione dei metodi di Bakunin. Il gruppo non pensa astrattamente, ma insegue rigorosamente problemi definiti e pratici, da risolvere in rivolta organizzata o come organizzazione armata. Il gruppo decide di pubblicare un manifesto falso dello Zar che incita il popolo alla rivolta, in cui si ricordato la divisione della terra e che dovrebbe chiamare il popolo alla rivolta e in quel momento il suo reparto armato deve essere pronto ad arrivare a quel punto in cui potere raccogliere gli elementi ribelli del popolo.
K. ha l’incarico di procurare la tipografia da stampare, tra l’altro, il falso manifesto dello zar e mettere in moto il tentativo di rivolta. K. assolve al compito: si reca apposta in Svizzera, qui acquista la macchina utensile, che, attraverso i confini rumeni, giunge poi effettivamente ad Odessa; con la sua eleganza, con la sua calma, col suo dominio delle lingue straniere, è l’unica ad avere potuto riuscire in tale impresa.
K. diventa la primula rossa, è intraprendente, determinata, coraggiosa, bella, riprende, pure, i contatti coll’emigrazione in Svizzera. Una volta, si trova faccia a faccia col celebre gendarme il Barone Heiking, terrore di tutti i rivoluzionari. Questi la fissa e la riconosce: ma K. incontra il suo sguardo così calma e sicura, che il poliziotto rimane esitante per un minuto. Basta perché K. scompaia. Si improvvisa cantatrice nel parco di Charkov in due con un’amica, per procurarsi da vivere. Quando i suoi compagni la esortano ad essere prudente per non cascare in trappola, risponde dolcemente: “non importa, vogliamo lavorare ancora un po’”.
Vi sono sintomi di fallimento delle operazioni dei Rivoltosi, la situazione si fa troppo pericolosa.
Gendarmeria provinciale di Kiev, 11 Maggio 1877: “ nell’indagine promossa c’era anche la ricercata della circolare del 10 dicembre 1874, n.4565, K”. Gendarmeria della polizia ferroviaria, circolare 24 marzo 1877, n. 1140 “si ordina l’arresto, la perquisizione e l’accompagnamento alla gendarmeria di Odessa di K”. Nonostante sia ormai segnalata a tutte le polizie, K. ancora per qualche settimana riesce a sottrarsi alle ricerche e anche a prestare qualche aiuto ai suoi compagni. La permanenza in Russia diventa insostenibile e inutilmente pericolosa.
K. vive a Kiev vari mesi sotto il nome di Anna Michailovna Ivanovna, ospite di Elena Kosac di Mlink, che aveva aperto un asilo per bambini di lavoratori; impartisce lezioni presso case private e, incalzata dalla polizia, concerta con Elena di chiedere un passaporto per la sorella Alessandra.
K. si avvia alla frontiera. La gendarmeria lo viene a sapere e telegrafa alla frontiera, segnalandola perché sia arrestata. Dalla frontiera ri-telegrafano che la persona segnalata…ha già varcato il confine.
Archivio della famigerata III Sezione. Rapporto della gendarmeria di Kiev, 25 aprile 1877: “ Si porta a conoscenza di polizia che K., il 14 aprile , col passaporto .124, rilasciato dal governatore di Kiev, al nome di Alessandra Kosac passava il confine alla dogana di Radzivilov”.
Elena Kosac, è fautrice di forti e radicali istanze femministe. Viene perseguitata anche per questa protezione.
Malgrado i suoi vent’anni, K. è ascoltata e ha peso per la sua esperienza rivoluzionaria, per la conoscenza all’estero di illustri esuli, che costituisce uno speciale attestato, perché lavora in mezzo al popolo e perché il suo nome si trova negli elenchi della III Sezione. K. passa dalla propaganda all’approvazione di tentativi insurrezionali in uno svolgimento all’atmosfera politica e intellettuale interna, che rende perplessi perfino i vecchi amici di Bakunin all’estero. Collauda il suo primo apprendistato politico, anche sostenuta da elementi teorici e analitici acquisiti nell’esperienza zurighese, con una profonda immersione nel sottosuolo russo, fino ad abbracciare forme di lotta che appartengono a tutta la gioventù russa che non ha più bisogno dei vecchi ideologi, essa sa da sé quel che deve fare.
Fuggita per sempre dalla Russia, K., nell’autunno 1877, K. è segretaria e collaboratrice del filosofo anarchico Pietro Kropotkine, per il quale lavora e raccoglie studi e documenti nel British Museum di Londra.
Febbraio 1878. “Alcuni compagni di Parigi mi chiedono informazioni intorno a due agitatori presenti in mezzo ai nostri circoli parigini, e precisamente un conte Kropotkin e una certa signora Kuliscioff, amica intima di Costa. Sapete qualcosa sulle relazioni politiche di questi personaggi? Vostro devotissimo, Karl Mark”,
22 marzo 1878. Ambasciatore russo a Parigi, principe Orlov, scrive al capo della gendarmeria Mezentsev: “Nel numero dei socialisti arrestati dalla polizia locale il 22 del corrente mese, nella casa dell’italiano Costa, ex segretario del famoso Bakunin, si trovava una persona sedicente Anna Ivanovna Kuliscioff, la cui carta di identità è acclusa alla presente. Nell’interrogatorio alla prefettura di polizia afferma di essere cittadina russa, implicata in un processo nichilista a Mosca, che suo marito Kuliscioff è confinato in Russia e che essa giudicata da un tribunale era riuscita a passare il confine con passaporto trovato su di sé. Tale passaporto è stato rilasciato dal governatore generale di Kiev il 14 aprile sotto il noma della signorina Alessandra Kosac”.
Polizia russa, 2 aprile 1880. “Anna Makarevic sotto lo pseudonimo Kuliscioff è nota tra i iuù eminenti emigrati quali Lavrov, Tkacev, Kropothin e altri, come anche tra i rivoluzionari stranieri. Nel marzo 1878, all’epoca dell’arresto a Parigi degli italiani Zanardelli e Costa, ella pure fu arrestata, nella prequisizione su di lei furono trovate lettere russe e un revolver carico. L’”Avant-Garde”, 8 aprile 1878, scrive che la polizia trovò presso la K., secondo le informazioni, una grande quantità di corrispondenza, circolari diverse e altro documenti relativi all’Internazionale e le ramificazioni di questa associazione in Francia.
Processata a Parigi, essendole state dal Giudice Istruttore contestate alcune lettere in carta velina, sequestrate dalla polizia, che potevano compromettere alcuni suoi compagni, K. le prese come per esaminarle, poi le ingoiò rapidamente, senza che all’inquirente riuscisse di impedirglielo. Costa viene condannata a due anni di reclusione. A K. viene decretata l’espulsione dal territorio francese, e viene avviata alla frontiera svizzera. Il principe Orlov comunica alla polizia russa che, liberata dal carcere parigino “Anna Makarevic (Kuliscioff) è allontanata dai confini della Francia con ordine amministrativo ed è avviata a Ginevra il 6 maggio c.m.”. A Ginevra, K, non vuole fermarsi per molto tempo. E’ fermamente decisa di continuare la lotta rivoluzionaria per la patria di Costa, l’Italia.
9 ottobre 1878, K. compare detenuta nel carcere di Santa Verdiana a Firenze. 16 ottobre 1878, il principe Orlov, in un rapporto d Parigi, comunica: “La Kuliscioff è stata arrestata in Italia per propaganda socialista”. Così la polizia russa, attraverso le informazioni delle polizie europee, continuava a seguire i movimenti della Primula Rossa.
Il processo a K. e gli altri si apre il 9 novembre 1879, dopo tredici mesi di carcere preventivo.