A veglia
Entrando in paese,
durante le sere d’estate,
nel piazzale, da platani orlato,
alcune donne scorgevi
sulle panchine sedute
a vigilar intente sui bambini
vocianti, mentre tra lor
parlottavan di questo e quello.
Davanti ai portoni vicini
altre donne beatamente stavano
a veglia su sedie, disposte
in ordine, sul largo marciapiede.
Non guardavi una scena silenziosa!
Gruppetti sparsi costeggiavano,
bisbigliando, la strada.
Forse il gruppo più folto
sostava proprio a casa mia vicino;
tutte persone molto ben conosciute,
un lieto crocchio crepitante.
Era Luisa a diriger l’orchestra:
quattro chiacchiere in libertà,
senza mariti, spesso fuggiti al bar.
Qualche sano pettegolezzo
che i propri affanni fa dimenticare,
alcune barzellette con grasse risate
o liberi sfoghi su fatti personali.
Io, sovente, con le amiche giocavo,
magari a nascondino al piazzale;
poi, tornando a casa, questi gruppi
scrutavo di donne a veglia.
Della via alla luce fioca di
una sbiadita lampadina,
da un piatto sormontata, che
ondeggiava al vento,
quelle donne comparir vedevo
a poco a poco, come nere statue.
Ombre più o meno scure,
anche perché così vestivano le anziane,
che si facevan sempre più visibili,
riconoscibili, ma sempre nere.
Eppur, per me, quello era colore.
“Pesce d’Arno vivo!”
“Pesce d’Arno vivo” urlava;
slogan da lui sempre usato
per chiamare a raccolta le massaie.
Vivo? Moribondo! Morto e sepolto!
Il convento questo propinava:
in un paese da dove non si passa:
lassù ci si va e… basta!
Tutti i venerdì a Montopoli
arrivava il pescivendolo.
Era secco allampanato,
ma la sua voce dalla valle
alla pineta rimbombava.
Appariva in salita,
moribondo pure lui,
il folkloristico furgoncino;
ormai senza più fiato,
arrancava e lì si fermava.
Dietro, una scia di gatti,
smunti, baffi dritti,
acquolina in bocca
e codine a periscopio;
un po’ d’acqua al sapore di pesce
si poteva leccare, per terra….
E che profumo soave!
Ecco una moltitudine vociante
circondare quel furgone,
adocchiare, allungar le mani
e rimestar nelle cassette,
frugare nel ghiaccio sgocciolante
tra le felci, che render dovean
più freschi i malcapitati pesci,
a finire in padella destinati.
Quell’omino macilento,
dai baffetti svegli e neri,
si dava un gran daffare
per soddisfar le pretese delle donne.
Poi, soddisfatto, il suo percorso
proseguiva, con gli occhi
a forma di monete luccicanti.
Eppure, per i bimbi d’allora,
quel che oggi una noia sarebbe,
avea, allettante, d’una festa il sapore.
Diversi tempi, trastulli diversi.
A cavallo
Gioco davanti alla mia porta;
sommesso un echeggiar di zoccoli:
quattro sono i cavalli, o cinque,
che in salita vanno al passo
montati da fieri fantini.
C’è da restar di sasso,
a bocca spalancata.
Mi passano vicino, in fila,
i cavalli con eleganza bardati,
alati, divini, solcano leggeri il cielo.
Le creature che li cavalcano
non son di questa terra,
inguainati in giacche impeccabili,
fasciati da pantaloni aderenti,
stivali a specchio, indietro i capelli,
belli, alteri, la testa dritta,
in avanti lo sguardo fisso,
neanche ci vedono, noi,
semplici popolani indegni.
Forse, quella che sembra superbia
non è che timidezza, mascherata
per celar le loro emozioni di ragazzi.
Sono i benestanti del paese
che vanno in campagna a galoppar.
A noi non resta che sentir
la scia del lor profumo soave
e quello men soave dei cavalli,
che proprio lì davanti
del loro passar
l’orma han lasciato!
Personaggi e gesti dei tempi andati
Per rivederli, vorrei
tornare indietro nel tempo,
a un pomeriggio qualunque.
In lontananza odo la sua voce,
la voce di Ovidio, il lattaio.
E’ un uomo di mezza età
dai morbidi lineamenti,
buoni e rassicuranti.
Arriva sempre, lui,
dalla parte alta:
scende verso di me;
giù dalla bici trae
di latte una bombola,
di freschezza profumata.
Quant’è buono l’odor del latte
appena munto! Lo bevo
con gli occhi e gli altri sensi.
Qualche battuta scherzosa,
simpatica e poi se ne va,
lasciando nelle mie narici
un odor di buono e genuino,
di fresco latte una gran voglia.
Poco dopo, o poco prima, dipende,
passa Virgilio, lo spazzino.
Con la scopa enorme di robusta saggina
pulisce la strada ben bene,
come fosse il suo salotto.
Lo sporco getta nel carretto
trainato da Beppa, la cavalla,
che mangia, avida, la paglia
da un sacco di iuta, perennemente
agganciato alla sua bocca.
Virgilio ha i lineamenti tesi,
piuttosto magro e scuro in volto.
Mi chiedo come faccia
a sopportar quel profumo
che con zelo raccoglie.
Senza disappunto, con
qualche scanzonata battuta
esegue il suo lavoro con maestria,
magari litigando con Beppa,
quasi fosse sua moglie!
L’incontro quotidiano con tali personaggi
scandisce il tempo della mia giornata
e, in casa, rientro contenta.
M’ attende la panna del latte.
Mia figlia
Figlia desiderata, sognata,
voluta con forza, attesa con entusiasmo:
stato di grazia, felicità sublime,
l’universo nel mio grembo!
Un figlio è per sempre,
me lo svela il primo sguardo,
quando, incredula, la poso sul mio seno.
Battono all’unisono il suo cuore e il mio.
L’universo nel mio cuore!
Emozione unica, indescrivibile.
Ma quanta trepidazione
per quel fagottino inerme.
L’universo nei miei pensieri,
una vita nelle mie mani.
L’universo nella mia vita!
Mia figlia m’invade cuore e mente;
la guardo come un miracolo, mia figlia.
Come non sentirmi insicura?
Come posso prendermi cura di lei?
Come attingere energia e fermezza?
Io madre non son nata,
lei, debolezza e forza,
lei già mi guida a far la mamma,
lei, dolcezza infinita, è ormai il mio faro.
Mia figlia, il mio universo!
A mio figlio
Non riesco a pensarti lassù
con la vita appesa a un filo.
Amo però immaginarti abbracciato
a una ripida parete:
baratro e rifugio insieme,
insieme sfida ardua e magica ebrezza.
E’ la magia della montagna,
è l’incanto della brama di volare,
è il sogno di sfiorare il cielo,
è la voglia di ascoltare il silenzio,
scrutando lo spazio infinito.
E’ l’emozione, che regala adrenalina
ad ogni piè sospinto, ad ogni metro,
ogni volta che il percorso accidentato
mette le briglie alla libertà di volare.
E’ il bisogno di restare solo con se stesso
e con se stesso dialogare
per stanare paure, fragilità, difetti,
soppesarli e tirar fuori la stima.
Tu la montagna la conosci a fondo
e mai ne dimentichi le insidie
né abbandoni il tuo senno;
per questo sempre la rispetti:
segui i suoi tempi e i ritmi tuoi.
E quant’è grande il piacere di esclamare:
finalmente ce l’ho fatta!
Ebbene a salir io t’incoraggio
con allegria e prudenza.
Che ti spronino le sagge decisioni,
gli stimoli vincenti, l’incoscienza sana.
Così è la vita, fatta di tanti ostacoli
e anche di sogni, di progetti audaci:
immaginali, pensali, concretizzali,
ma soprattutto, fortemente, credici.
Montagna.
Stupenda, sublime metafora della vita.
A Laura
Di non averti persa lo sapevo,
ma più non osavo cercarti:
a lungo mi ha bloccata,
insieme agl’implacabili impegni
dell’esistenza, di non ritrovarti
la paura vigliacca.
Nei miei pensieri eri sempre presente,
quando mi cullavo nei frequenti ricordi
di scuola; nei miei sogni t’ho custodita
e nelle mie speranze.
La vita è lunga, mi dicevo.
Un giorno, chissà!
La vita è spesso avara, ma un generoso
galantuomo è il tempo: con pazienza
riavvolger sa i fili di chi sogna.
Ci ho creduto tanto in te, dolce creatura.
Un giorno, forse!
La vita sa come sorprenderci,
sa trovare il giusto momento:
no, non ti ho persa, lo sento, te
ed i compagni a noi cari.
Un giorno, di sicuro!
Un giorno i tuoi occhi amorevoli
mi hanno afferrata stretta,
di una discesa alla fine,
nel cuore del mio paese,
riportandomi di colpo nel cuore del tuo,
in un’aula, la nostra.
Quel giorno lontano è di colpo tornato.
I tuoi giovani occhi, dal sapore infantile,
che narran meraviglie, m’abbracciarono
subito con grande vigore: questa sei tu.
Quei tuoi stessi occhi, maturi, ma freschi,
d’amore pieni e di semplicità, coinvolgenti,
penetranti, ancora adesso m’abbracciano!
Solo un giorno è passato o un quarantennio?
Potere del tempo che si dilata e si contrae.
Lo sapevo, lo sentivo intensamente:
in cielo c’è qualcuno che ordisce la trama
delle nostre invisibili, leggere, misteriose tele.
Basta crederci. E dare una mano
a chi, da lassù, sa intrecciare i fili della vita.
L’abbiamo fatto entrambe.
Dualità
Delle sorti umane la fragilità,
di ogni cosa la caducità,
nel mesto ineluttabile trapasso
dal giorno alla notte
trovano forma e concretezza,
alla morte richiamando la mente nostra.
Dal buio notturno, dalle fredde tenebre,
l’inarrestabile, gaia esplosione del giorno
vitalità e autenticità elargisce all’umano destino
e alle vicende del mondo,
alla vita richiamando il nostro spirito.
E al senso di eternità si eleva la nostra anima,
bramosa sempre d’infinito.
La forza di un sussurro
Non son due mondi diversi vittima e carnefice.
La prima stima di sé non possiede,
sottomissione e offese accetta, di meritarle certa,
un aiuto non chiede, una voce si nega,
se stessa annienta.
Compassione non conosce il carnefice,
ma insicurezza e paure dietro possenza fisica
ben nasconde; troppo alta ha la voce
e senza melodia.
Due facce di un’unica medaglia,
due frutti della stessa pianta,
che radici ha malate.
Di dignità l’han privati le radici,
retaggio d’una buia infanzia,
da prevaricazione educata.
Ché alla ragione, per aver ragione,
basta un sussurro.
Bruma
Fitte, nell’aria, goccioline danzanti,
fanno morbida barriera dal piacevole aspetto
inoffensivo, lì, in mezzo alla muta campagna.
Campagna muta, da pochi diafani suoni
ovattati, quasi turbata.
Muta e incolore,
nei toni del grigio sfumata,
scenario di guizzanti fugaci ombre,
pavide creature di quelle selve,
che quel grigio protegge, provvidenziale.
Dalla sferzata di brividi roridi
si lascia travolgere anche l’intrepido
amante dei riarsi fremiti,
che i raggi penetranti del sole stampano
sulla sua pelle con pigre carezze.