Giacinto Sica

Racconti


Linda

Esisteva una volta una città; la chiamavano Linda perché era sempre pulita e splendente. Nelle sue vie, dove ogni mattina s’incamminavano i suoi abitanti si potevano essi anche specchiare, specie se non avevano avuto tempo di guardarsi allo specchio.
Nell’angolo più nascosto di ogni strada, non vi era mai un segno di polvere accumulata; i marciapiedi non erano mai sporchi dei residui organici di cani, i parchi avevano sempre un tappeto verde, lucido e stirato, dove mai rimanevano annidati oggetti di rifiuto.
Questo non tanto perché Linda era abitata da persone praticanti il culto del pulito, o perché non scodinzolavano per le sue strade cani sciolti, o perché i suoi abitanti non si concedessero la spensieratezza di una giornata all’aria aperta o non avessero ancora conosciuta la iattura dei residui delle droga.
Nitida, invece, era limpida perché le scope, alle quali si era affidata per le pulizie, credevano intensamente nel delicato compito ricevuto e, con premura, svolgevano il loro mestiere.
Un giorno però, in verità, le scope incominciarono a dare segni di impazienza; infatti, anche se continuavano ad adoperarsi con la solita solerzia e perizia, presero tra loro a borbottare.
Infatti di buon mattino, una scopa che la sera precedente aveva fatto lo shampoo alle sue setole ed ora le vedeva già sporche dei rifiuti del solito cane che, dal suo padrone da un po’ di tempo veniva abbandonato ai propri istinti, iniziò a dire:
“Sono proprio stufa”.
“Anche io, non ne posso più” intervenne un altra che aveva udito le lamentele della propria compagna di lavoro, mentre si portava a buttare fuori dal prato di un giardino pubblico, i soliti barattoli di bevande lasciati abbandonati.
“Non ne parliamo”, brontolò ancora un’altra e mentre nauseata se ne stava ferma nel carrello di raccolta delle immondizie, guardando con disprezzo quanto in poco tempo aveva ramazzato tra barattoli distorti, carte unte, polvere sudicia, residui di droghe, aggiunse:
“Qualche giorno” si fermò un momento come per mostrarsi offesa nella sua dignità e poi continuò: “qualche giorno mi rifiuterò di prestare la mia opera; infatti non mi spiego perché tutti questi abitanti continuino a comportarsi con tanta insolenza, senza alcuna forma di rispetto per quelli che lavorano e per se stessi, fino a rifiutare il profumo e la freschezza che noi disseminiamo per le strade della loro città.”
“Sono i segni della civiltà” interloquì ancora un’altra scopa che, aiutandosi con una paletta, si accingeva a raccogliere due topi morti.
Li portò nel cassonetto e quasi presa da rabbia aggiunse:
“A questo punto, care amiche, bisogna fare qualche cosa; bisogna far capire a tutte queste persone che non è questo il modo di vivere in comunità”.
Qualche cittadino passando nei pressi, aveva ascoltato parte del dialogo, ma non aveva fatto molto caso su quanto le scope stavano dicendo, pensando che si trattasse di un normale sfogo a seguito di qualche disagio che ogni tipo di lavoro può provocare, tra l’altro cosa molto comune in tutti gli essere umani.
Per le scope, invece, non si trattava di un momentaneo attimo di depressione; esse erano seriamente intenzionate a protestare e così, un giorno le une, quelle meno moderne che pulivano i quartieri di periferia, un altro giorno le altre, quelle addette alla pulizia dei quartieri più centrali della città, cominciarono con il portarsi sul lavoro, non più con le setole belle pulite.
Poi iniziarono a presentarsi in ritardo, quindi non fecero più il giro due volte al giorno per le strade della città di Linda. Alla fine non si presentarono a svolgere il loro dovere per un intero giorno ed un altro giorno ancora.
I cittadini di Linda pensarono si trattasse di una pausa, oramai divenuta consueta nel mondo del lavoro, per rivendicare una migliore condizione economica.
“Si neanche oggi sono passate le scope”.
Così rispose il portinaio di un palazzo di una via centrale di Linda, nel terzo giorno di assenza di queste, ad un inquilino che gli chiedeva il perché le scope stavano accumulando tanti rifiuti lungo le strade, mentre con altri due inquilini con sciocca saccenteria commentava:
“Evidentemente reclamano setole più efficienti, ai fini di alleviare la fatica”.
“Forse vogliono un migliore trattamento economico” si dicevano tra di loro, sui tranvai, sui metrò o su altri mezzi pubblici di trasporto, i cittadini che ogni mattina si recavano al lavoro, anche se nessuno, fino a quel momento, si era mai chiesto se anche le scope avessero avuto una situazione economica da tutelare.
Invece niente di tutto questo; da una indagine svolta dai soliti baldanzosi agenti dell’informazione e da alcuni esperti tra tutti i tipi di saggina, di setole varie o di altri nuovi elementi della tecnica adattati a scope, le lamentele non erano rivolte affatto ad ottenere aumenti salariali, bensì dirette contro i modi con i quali i cittadini di Linda, andavano per le strade e per i parchi, offendendo il senso della pulizia e quindi del loro lavoro.
E una delle scope, la delegata a parlare perché forse la più anziana dato il suo manico molto rugoso, aveva così risposto ad un giornalista di una importante rete televisiva:
“Non reclamiamo niente per noi, vogliamo solo che le persone non si comportino in maniera indecorosa, quando si trovano per le piazze o per le vie delle loro città”.
Ed in modo molto serio continuò:
“Noi vogliamo essere solo fiere del lavoro che svolgiamo ogni giorno, non vogliamo che tanta fatica venga ignorata ed anche se possiamo sembrare vanitose, ci teniamo solo a mettere continuamente in risalto, che, per nostro merito, questa città poteva vantarsi di portare, almeno fino a qualche tempo fa, il nome di Linda”.
Queste sensazioni non si erano mai insinuate negli abitanti di Linda né prima, né dopo questi avvenimenti, nonostante le continue interviste che, da quel momento, erano diventate motivo di corsa al primato tra le varie radio e reti televisive e giornali quotidiani e settimanali che non trascuravano neanche un momento della evoluzione della vicenda, ai fini di aumentare l’”audience”.
E così le scope, giorno dopo giorno, persistendo l’indifferenza intorno alle loro richieste, non si fecero più vedere per le vie della città di Linda.
Dopo molto tempo, l’avvenimento assunse l’aspetto di vera e propria catastrofe.
L’immondizia, formata da ogni tipo di rifiuto, si era accatastata in maniera impressionante e gli abitanti di Linda si ritrovavano sempre più, ogni giorno, a svolgere le proprie azioni, anche quelle più delicate, in ambienti sporchi e nauseabondi.
Essi, però non si impegnavano adeguatamente per evitate tutto questo, anzi presi da rabbia commentavano:
“Tra i tanti affanni giornalieri, ci mancavano, a completare il dramma, anche questi esseri insignificanti come le ”scope” e buttavano a terra, quasi per dispetto, ovunque si trovavano, ogni cosa inutile che si trovavano tra le mani.
La freschezza ed il profumo di un tempo erano, oramai, solo un lontano ricordo ed i borbottamenti o le imprecazioni che ogni cittadino, si sentiva in diritto di pronunciare, non di certo riuscivano a far tornare alla loro opera le scope, affinchè venisse riportata la pulizia in città.
Gli abitanti di Linda non riuscivano più a sostenere questa situazione; contestazioni, escandescenze, concitazioni, rabbia, urla erano divenute padrone delle ore.
Finalmente una sera senti l’obbligo di riunirsi il Gran Consiglio dei “Sapienti” che, fino a quel momento, nell’intreccio delle loro elucubrate programmazioni o della loro contorte forme di enunciazione dei vari argomenti socio/politici, non si erano avveduti della gravità di quanto stava accadendo, nella loro città.
Avevano perduto da tempo il senso pratico delle loro adunate consiliari e si dimenavano in dibattiti puramente convenzionali tesi a difendere solo interessi di parte, senza mai riuscire a trovare adeguate soluzioni ai problemi della gestione del bene comune che, di volta in volta, si presentavano per denunciare le precarie condizioni in cui si trovava la maggior parte della popolazione, tendendo sempre ad adeguarsi alla pretese dei furbi.
La loro mente viaggiava in una tale confusione fino a far loro trascurare l’elementare concetto che lo sporco, specie se interiore, appena si presenta, avendo insita in se stesso la possibilità di espandersi pericolosamente, deve essere subito diluito.
Così pretesti, inganni, imposture, false promesse, ruberie, malavita, la perdita del modo di essere in una comunità, avevano presso il sopravvento nella città di Linda e, coloro che mettevano in essere tutto questo, terrorizzavano tutta la città, proprio perchè fin dall’inizio, nessuno era stato capace, ”sapienti compresi”, di fare pulizia, così come ogni giorno, fino al momento della protesta, avevano fatto le scope per la vie della città.
Intanto, che le scope avessero incrociate le setole perché stanche di lavorare contro i comportamenti dei cittadini che, senza badare al loro esempio, avevano reso lo sporco sempre più invadente, era un evento veramente eccezionale e poteva anche indurre le menti del Gran Consiglio ad azioni concrete per porvi urgenti rimedi.
Ed infatti uno del consiglieri, in quella riunione, azzardò a dire:
”E’ questo comportamento delle scope, un vero esempio che ci deve portare a fare delle appropriate e serie considerazioni”, e alzatosi dal suo scranno, tra un brusio quasi irrisorio, avviandosi verso il centro dell’aula continuò:
“E’ chiaro signori, come da una macchia non lavata, da un barattolo o da una carta non raccolta più di una volta, si possa arrivare dal lordume più squallido ai più vari misfatti”
Il brusio a questo punto cessò come d’incanto ed il consigliere, continuando su questi toni riprese a dire:
“Lo squallore che giornalmente sentiamo annidarsi subdolamente nella nostra città, annienta il senso civico della presenza dell’uomo nell’universo e lo annulla in ogni sua manifestazione, in ogni sua azione ed allora la dignità di cittadino viene ad essere sopraffatta e mortificata senza scampo di poter essere successivamente recuperata”.
Si interruppe un momento perché ancora un brusio si fece sentire nell’aula, ma il consigliere vedendo che vi erano molti cenni di consenso alla sue parole, pur volendo ancora procedere a fustigare, cessò definitivamente di parlare e si avviò verso il suo scranno.
“Chi sa” pensò tra se, “che questa sera non si addivenga per una volta ad utili decisioni” e si sedette al suo posto.
Il fatto che si era dovuta verificata una rivolta delle scope, perché un Gran Consiglio di “Sapienti”, avesse potuto addivenire a valide riflessioni, era davvero un avvenimento burlesco per personaggi e tempi che si proclamavano civili.
Questi, sia essi personaggi, sia essi tempi, infatti non si potevano proprio aspettare che delle scope, elementi della vita quotidiana sempre a contatto con lo sporco, avessero un tale desiderio di pulizia da sollecitare a pensare in questo senso, anche le menti di persone umane, capaci, saccenti e presuntuose come erano, di vivere, a tutti i livelli, nella sola boria di ritenersi possessori dello scibile di ogni conoscenza, ma lontani dalla pratica del vivere civile giornaliero, dove tutte le genti si confrontano, per concretizzare tutte insieme la conduzione di una comune vita dignitosa
Il richiamo fatto dalla rivolta delle scope ai modi di agire e pensare dei responsabili del Gran Consiglio e via, via dei cittadini di Linda, fu in quel momento veramente di grande portata storica, ma pare che un tale esempio di vita non avesse poi avuto tanto seguito, nonostante tutte le buone riflessioni fatte al momento.
Infatti di Linda, oggi, non si sente neanche parlare, non si trova neppure un rudere e si dice che sia rimasta sommersa dallo sporco.
Di quante città che abbiano subito la stessa sorte o che nei tempi attuali la stia subendo, nulla si conosce, ma per il senso comune dei continui avvenimenti, pare che sporco e relativi olezzi, ristagnino un poco ovunque oggi nella varie parti dell’universo ed il tragico è che le setole delle scope non hanno più manici diritti a cui appoggiarsi per fare le dovute spazzature.

Pubblicata nel mio Testo “Munificenze” insieme ad altre 12 mie novelle nel 2004 da Gabrieli Editore ROMA

 


 

Il dito di padre Cristoforo

Riduzione in testo teatrale del contenuto del Cap. V dei “Promessi Sposi”di Alessandro Manzoni
a cura di Giacinto Sica: Anno 2014

Agnese e Lucia, stavano sedute su due sgabelli di legno, presso un tavolo posto al centro della stanza che faceva da cucina, nella loro piccola casupola, al piano terreno di una viuzza del borgo lombardo dove vivevano, nei pressi di Lecco.

Nella parete a sinistra dell’uscio, era stato ricavato un camino che, in quel momento covava dei carboni accesi, sotto un paiolo pronto per la polenta, mentre sopra il camino stesso, appesi alla parete vi erano dei tegami di rame di varia specie; al lato del camino a destra un paio di scope.

Sulla parete di fronte all’uscio, vi erano appesi zappe, rastrelli, cappelli di paglia intervallati, mentre sulla parete a destra e quella di fianco all’uscio dove si apriva anche una finestra che dava sulla viuzza, vi erano ancora alla rinfusa appesi, fiaschetti impolverati, reticelle ed un paio di schioppi, proprio vicino alla finestra.

Sul tavolo presso il quale le due donne stavano sedute, vi erano poggiate delle scodelle di legno e poco lontano dalle scodelle, le due donne tenevano appoggiati i gomiti, con la mani all’insù, tenute a mo’ di coppe, nella quali avevano depositata pensierose, la testa.

Si notava che erano in attesa di qualcuno e sull’uscio semichiuso, spingendo la porta, ecco apparire la figura di padre Cristoforo che fatto chiamare, si era fermato ritto sull’uscio stesso, prima di essere invitato ad entrare.

Padre Cristoforo, ad un cenno della mano di Agnese incominciò ad avvicinarsi alle donne e vedendole molto tristi, disse:
CRISTOFORO
“Ebbene?”

Lucia scoppiò a piangere, mentre la madre incominciava a tessere scuse per averlo fatto incomodare, ma il padre cappuccino si avanzò ancora di più e sedendosi vicino al loro, su di un sgabello a tre piedi:

CRISTOFORO

“Calmatevi povera figliuola” disse a Lucia.

Poi rivolgendosi alla madre aggiunse:

“Voi raccontatemi cosa vi è accaduto”

AGNESE
Agnese prese a dire:

“La mia figliuola è stata promessa sposa ad un giovine del posto di nome Renzo. Le nozze erano già pronte, ma don Abbondio, il curato, ha detto a Renzo, che gli chiedeva tutta le modalità del matrimonio, che quelle nozze, non si dovevano celebrare. Non poteva e non doveva parlare il prevosto, ma Renzo, con voce grossa, lo aveva obbligato ed il curato gli aveva riferito che due sgherri di don Rodrigo, il signorotto del villaggio, gli avevano detto che il suo matrimonio con Lucia non si doveva fare” e singhiozzando concluse:

“Non abbandonateci padre!”.

CRISTOFORO
Padre Cristoforo rimase esterrefatto, poi appoggiando il gomito del braccio sinistro, sul ginocchio sinistro, calandovi dentro il viso, mentre con la mano destra si carezzava la barba commentò:

“Certo che Dio vi ha visitate; egli non vi abbandonerà, come io non vi abbandono”.

Rimase un momento in silenzio, poi aggiunse:

“Vediamo, pensiamo cosa si può fare!”

Pensò a lungo il padre Cristofero alle varie possibilità e diceva quasi tra sè:
CRISTOFORO
“Mettere vergogna a don Abbondio, è inutile, la paura non può fugare vergogne; fargli paura da parte mia non è possibile, perchè non io i mezzi; fare intervenire il cardinale arcivescovo è troppo lontano; fare venire dalla mia parte tutti i frati cappuccini del posto e quelli di Milano; ma questo scellerato signorotto, si spaccia amico del convento, partigiano dei cappuccini, i suoi bravi sono venuti più di una volta, al convento, per rifugiarsi, mi farebbe passare per un imbroglione ma………. ho trovato, l’ho affronterò di persona” e soddisfatto, alzando il viso dal braccio dove l’aveva poggiato, a voce alta disse:

“Lo affronterò di persona!”.

Così dicendo vide Renzo che intanto venuto si era fermato sull’uscio della porta per non disturbarlo e mentre il padre Cristoforo lo guardava, gli domandò:
RENZO
“Vi hanno raccontato padre?”
CRISTOFORO
“Si conosco il fatto, per questo sono qui” rispose il cappuccino.
RENZO
“E……e……..cosa dice di quel birbone” gli domandò ancora Renzo.
CRISTOFORO
“Cosa vuoi che ti dica; tu abbi fiducia in Dio, non vi abbandonerò”, rispose il frate.
RENZO
“Certo che lei non è di quelli che danno sempre torto ai poveri, come quel signor curato e quell’imbroglione dell’azzeccagarbugli, l’avvocato che avrebbe dovuto aiutarmi, il quale sentito il nome della persona che mi stava offendendo, non volle neanche i polli che, preparati dalla signora Agnese, gli avevo portato per pagare il suo disturbo”.

Poi Renzo si fermò un attimo nel parlare, fece mezzo giro della sua persona su se stesso e rivolgendosi al frate, infuriato continuò:

“E lei non è neanche come quelli che si dicono amici, i quali son tutti pronti a chiederti favori e tutti pronti ad aiutarti, si a parole, perchè in caso di bisogna……..tutti insieme avremmo fatto finire di mangiare pane a quell’arrogante; ma essi ora tutti si tirano……..”.

Padre Cristoforo, lo interruppe bruscamente e con voce forte e riprovevole disse:
CRISTOFORO
“Quali amici….. e che tipo di amici! Come avrebbero potuto aiutarti……..! Trovati gli amici avresti perduto il solo vero amico Dio. E pur volendo,……..pur volendo……non sai tu che a mettere fuori le unghie, il debole non ci guadagna?”.

Poi lo afferrò per un braccio, divenne solenne e con voce pacata e serena continuò:

“Quando pure avresti potuto………..terribile sarebbe stato il guadagno ed allora stai bravo e promettimi che non affronterai e non provocherai nessuno.
RENZO
“Lo prometto, confido nell’unico amico che è Dio” rispose Renzo.
CRISTOFORO
Padre Cristoforo si acquietò e rivolgendosi a tutti disse:

“Sentite figliuoli, io andrò oggi stesso a parlare a quell’uomo. Che Dio gli tocchi il cuore attraverso la mia voce; voi chiudetevi in casa, non fate voce con nessuno di questo incontro” ed uscì.

Padre Cristoforo, uscito dalla casa di Agnese, si avviò per tornare in convento; vi arrivò in tempo per cantare in coro il canto della sesta ora e subito dopo uscì e si mise in cammino verso il covile della fiera che voleva provare ad ammansire.

Padre Cristoforo, si incuneò per un viottolo a chiocciola, dopo avere attraversato il villaggio e si trovò su di una spianata innanzi al palazzotto di don Rodrigo. Il portone era chiuso, significava che il padrone non voleva avere disturbi perchè stava desinando. Rade e piccole finestre davano sulla strada, chiuse da imposte sconnesse e consunte, difese da grosse inferriate e quelle del piano terreno erano talmente alte, che due persone l’una sull’altra, vi sarebbero appena arrivate.
Regnava una grande quiete, sembrava un luogo abbandonato; vi erano però due sgherri ognuno sdraiato su di una panca, una posta a destra, l’altra a sinistra del portone, i quali lo videro ed uno alzandosi disse:
UNO SGERRO
“Padre, padre, venga avanti. Qui non si fanno aspettare i cappuccini, noi siamo amici del convento e in certi momenti io ci sono stato dentro, mentre fuori non circolava buona aria per me e se la porta fosse rimasta chiusa, non sarebbe andata bene per me”

Mentre così diceva diede due colpi di martello al portone ed dall’interno tra guaiti e latrati di mastini e cagnolini, un vecchio servitore giunse ad aprire il portone, ma visto il cappuccino gli fece un inchino, calmò le bestie ed lo introdusse in un angusto cortile; chiuse il portone ed esclamò:
VECCHIO SERVITORE
“Ma……..lei non è il padre Cristoforo da Pescarenico?”
CRISTOFORO
“Certo, sono io” rispose il frate.
VECCHIO SERVITORE
“Lei qui?”, continuò il servitore.
CRISTOFORO
“Come vedete buon uomo! Commentò il frate
VECCHIO SERVITORE
“Sarà, per far del bene”, digrignò l’uomo e lo accompagno innanzi all’uscio dove il padrone di casa stava a dare un convito.

Padre Cristoforo voleva ritirarsi, per aspettare la fine del pranzo, ma l’uscio s’aprì ed uno dei commensali vedendo una testa e una tonaca gridò:
UN COMMENSALE
“Ehi, ehi, padre riverito, non ci scappi, avanti, avanti”.

Don Rodrigo stava a capo tavola e di certo, pure per un presentimento confuso ne avrebbe fatto a meno, ma vista l’insistenza dell’ospite che era sua cugino, non intendeva farsi indietro e disse:
RODRIGO
“Venga padre, venga”.

L’uomo onesto in faccia al malvagio, piace generalmente immaginarselo con la fronte alta, con lo sguardo sicuro, con il petto rilevato, con lo scilinguagnolo bene sciolto. Nel fatto però, per fargli prendere quelle attitudini, si richiedono molte circostanze, le quali ben di rado si riscontrano insieme. Perciò non vi meravigliate se padre Cristoforo, col buon testimonio della sua coscienza, con il sentimento fermissimo della causa che veniva a sostenere, con un sentimento misto di orrore e compassione per don Rodrigo, stesse con una certa aria di soggezione e di rispetto, alla presenza di quello stesso don Rodrigo, che lì in capo tavola, stava in casa sua, nel suo regno circondato da amici, da omaggi, di tanti segni della sua potenza, con il viso da fare morire in bocca a chiunque una preghiera, non che un consiglio, non che una correzione, non che un rimprovero.

Alla sua destra sedeva quel conte Attilio, il detto suo cugino e se fa bisogno di dirlo, suo collega di libertinaggio e di soverchieria, il quale era venuto da Milano a villeggiare, per alcuni giorni, con lui. Alla sua sinistra e ad un altro lato della tavola, stava, con gran rispetto, temperato però d’una certa sicurezza e di una certa saccenteria, il signor podestà, quel medesimo di cui, in teoria, sarebbe toccato a far giustizia a Renzo Tramaglino ed a fare stare a dovere don Rodrigo. In faccia al podestà, in atto d’un rispetto più puro, più sviscerato, sedeva il nostro dottor azzeccagarbugli.

E tutti i commensali si disputavano su licenze di potere ingaggiare impunemente, senza remore, duelli o aggressioni con la spade ed altre cose del genere, cercando di coinvolgere, nella discussione anche Padre Cristoforo invitato a sedersi al loro tavolo, senza che comunque partecipasse con interesse alla varie discussioni. Don Rodrigo vedendolo poco partecipativo con le sue risposte, si alzò senza interrompere il chiasso, chiese licenza agli ospiti che intanto si erano alzati con lui e si avvicinò con contegno al frate anche lui alzatosi e lo accompagnò in una sala vicina dove subito prese a dire:

RODRIGO
“In che posso ubbidirla?” e si piantò in piedi innanzi al frate, con tono da far capire, bada bene di fronte a chi ti trovi, pesa le parole e sbrigati.
Padre Cristoforo, trovava coraggio di fronte alle maniere arroganti ed insolenti ed quindi senza più pensare con quale modo garbato avrebbe dovuto introdurre il discorso, trovò subito le parole sulle labbra e con guardinga umiltà disse:

CRISTOFORO
“Vengo a proporle una questione di giustizia, a pregarla di una carità. Certi uomini di male affare hanno messo innanzi il nome di vossignoria illustrissima, per fare paura ad un povero curato ed impedirgli di compiere un suo dovere e soverchiare due innocenti. Lei può con una parola, confondere coloro, restituire al diritto la sua forza e sollevare quelli a cui è fatta una così crudele violenza. Lo può e potendo……. la coscienza, l’onore…….”.

RODRIGO
“Lei mi parlerà della mia coscienza, quando verrò a confessarmi da lei. In quanto al mio onore, ha da sapere che il custode ne sono io ed io solo; e che chiunque ardisce entrare a parte con me di questa cura, lo riguardo come il temerario che l”offende”, lo interruppe don Rodrigo.

Padre Cristoforo, per non alterare il sentire del discorso, con tono sommesso rispose:

CRISTOFORO
“Se ho detto cosa che le dispiaccia, è stato certamente contro la mia intenzione. Mi corregga pure, mi riprenda, se non so parlare come si conviene; ma si degni di ascoltarmi. Per amore del Cielo, per quel Dio, al cui cospetto dobbiamo tutti comparire………mostrava intanto il teschietto di legno legato alla sua corona……non si ostini a negare una giustizia così facile e così dovuta ai poverelli. Pensi che Dio ha sempre gli occhi sopra di
loro e che le loro grida, i loro gemiti sono ascoltati lassù. L’innocenza è potente al suo……..”

RODRIGO
“Eh, padre!” – lo interruppe bruscamente don Rodrigo che con arroganza continuò:

“Il rispetto che io porto al suo abito è grande: ma se qualche cosa potesse farmelo dimenticare, sarebbe il vederlo indosso ad uno che ardisse venire a farmi la spia in casa”

Questo dire fece infiammare il viso del frate, il quale come non avesse sentito, al pari di chi inghiottisce un‘amara medicina riprese:

CRISTOFORO
“Lei non crede che un tal titolo mi si convenga. Lei sente in cuor suo che il passo che io ora faccio qui, non è nè vile e nè spregevole. Mi ascolti signor Don Rodrigo; (ora grida) e non voglia il cielo che venga un giorno in cui si penta di non avermi ascoltato. Non voglia mettere la sua gloria…….qual gloria signor don Ridrigo! Qual gloria innanzi agli uomini! E dinanzi a Dio! Lei può molto qua giù, ma……..”

RODRIGO
“Sa lei”, lo interruppe con stizza, ma senza raccapriccio, don Rodrigo e ripetè:
“Sa lei che quando ho voglia di sentire una predica, so benissimo andare in chiesa, come fanno gli altri? Ma in casa mia!”

si fermo e con scherno aggiunse:

“Oh!…….in casa mia, lei mi tratta di più di quel che sono. Il predicatore in casa! Non l’anno che i principi”

CRISTOFORO
“E quel Dio che chiede conto ai principi della parola che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora un tratto di misericordia, mandando un suo ministro, indegno, miserabile, ma un suo ministro, a pregare per una innocente…..”.

RODRIGO
“Insomma padre……” lo interruppe don Rodrigo facendo come per andarsene e continuò:
“Io non so quello che lei voglia dire; non capisco altro se non che ci deve essere qualche fanciulla che le preme molto. Vada a fare le confidenze a chi le piace; e non si prenda la libertà di infastidire più a lungo un gentiluomo”.

Al muoversi di don Rodrigo, padre Cristoforo gli si fece davanti, ma con rispetto e alzate le mani per supplicare e trattenerlo disse:
CRISTOFO
“La mi preme, è vero, ma non più di lei; son due anime che l’una e l’altra, mi premono più del mio sangue”.

Si fermo un attimo e poi gridò:
“Don Rodrigo! Io non posso fare altro per lei che pregare Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una povera innocente. Una parola sua può fare tutto”.
RODRIGO
“Ebbene” – disse don Rodrigo -, “ebbene, giacchè lei crede che io possa fare molto per questa persona, poichè questa persona le sta tanto a cuore…..
CRISTOFORO
“Ebbene………..?”, lo interruppe ansiosamente padre Cristoforo.
RODRIGO
“Ebbene la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà più nulla, nessuno la infastidirà” chiuse seccamente don Rodrigo”
CRISTOFORO
“La vostra protezione!” gridò padre Cristoforo con indignazione fino ad allora contenuta, fece due passi indietro, posò la mano destra sull’anca destra, alzò la sinistra con l’indice puntato verso don Rodrigo e con due occhi infiammati gridò ancora:

“La vostra protezione! Meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale proposta. Avete colmata la misura e non vi temo più”.

RODRIGO
“Come parli frate?” gridò a sua volta don Rodrigo.

“Parlo come si parla a chi è abbandonato da Dio e non può più fare paura”,
riprese a dire padre Cristoforo e con lo stesso tono di prima continuò:
CRISTOFORO
“La vostra protezione! Sapevo bene che quella innocente è sotto la protezione di Dio; ma voi, voi me lo fate sentire ora, con tanta certezza che non ho più bisogno di riguardi a parlarvene. Lucia dico: vedete come io pronunzio questo nome con fronte alta e con gli occhi immobili”.

RODRIGO
“Come in questa casa…….! gridò don Rodrigo.

CRISTOFORO
“Ho compassione di questa casa” riprese a parlare padre Cristoforo,
“la maledizione le sta sopra sospesa. State a vedere che la giustizia di Dio avrà riguardo a quattro pietre e soggezione dei vostri sgherri. Voi avete creduto che Dio abbia fatta una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato. Il cuore di faraone era indurito quanto il vostro e Dio ha saputo spezzarlo. Lucia è sicura da voi, ve lo dico io un povero frate e in quanto a voi, sentite bene quello che vi prometto. Verrà un giorno………..” gridò sempre con il dito puntato contro Don Rodrigo.

Don Rodrigo era rimasto fino a quel momento tra la rabbia e la meraviglia, attonito, non trovando parole; ma quando si sentì intonare una predizione, si aggiunse alla rabbia un lontano e misterioso spavento. Afferrò con furia quella mano per aria minacciosa e alzando la voce per troncare quell’infausto profeta gridò:
RODRIGO
“Escimi di tra i piedi villano temerario, poltrone incappucciato”.

Questa parole così chiare, acquietarono subito padre Cristoforo, gli cadde ogni sentimento d’ira e di entusiasmo e decise di restare ad ascoltare quello che don Rodrigo avrebbe detto.

Ritrasse placidamente la mano dagli artigli del gentiluomo, abbassò il capo, rimase immobile, come un albero nella burrasca che raccoglie le foglie e attende di riceve la grandine che il cielo gli manda e così don Rodrigo continuò:
RODRIGO
“Villano rincivilito, tu tratti me da par tuo. Ma ringrazia il saio che ti copre codeste spalle da mascalzone e ti salva dalla carezze che si fanno ai tuoi pari. Esci questa volta con i tuoi piedi e la vedremo”.

Così dicendo additò sprezzante l’uscio e padre Cristoforo, con il capo chino se ne andò lasciando don Rodrigo a camminare per la sala a passi infuriati con le sue gambe.

Padre Cristoforo, uscendo incontrò il vecchio servitore che gli aveva aperto il portone all’entrata nel palazzo; il servitore, con fare discreto, gli si avvicino e gli disse:

VECCHIO SERVITORE
“Padre devo confidarle; quì c’è qualche disegno; ma qui non posso, il padrone se ne accorgerebbe; domani verrò in convento”.
CRISTOFORO
“Dio te ne renda merito” disse padre Cristoforo e si portò all’uscio per andare via da quel luogo di perdizione.

Era sodisfatto perchè la compiuta difesa dei miseri di fronte all’arroganza, aveva messo in difficoltà un mascalzone, ma nello stesso tempo era contrariato perchè non era riuscito a distoglierlo dal su perverso disegno; nel contempo però aveva anche capito che la sua visita al palazzo, non era stata comunque inutile; nella parole del vecchio servo di don Rodrigo, aveva intuito che la Provvidenza era intervenuta. Era quello che il frate voleva intensamente.

 


 

Il bidello

Riduzione teatrale in Atto Unico dell’omonimo racconto dello stesso autore.

Prologo

Una tediosa regola burocratica, circa alla metà degli anni ’60 del secolo ventesimo. aveva costretto Franco Contino ex studente del Sud, ma lavoratore ora del Nord d’Italia, ad un lungo ed estenuante viaggio; s’era dovuto recare infatti dalla metropoli dove abitava, presso un “Liceo” della provincia meridionale dove era nato, per ritirare al più presto, altrimenti sarebbero scaduti i termini, il diploma di maturità classica ivi depositato, per completare una documentazione necessaria per una promozione all’interno dell’impresa metalmeccanica, dove appunto prestava la propria opera.
Era stanco all’arrivo avvenuto di buon ora, dopo il viaggio di notte fatto in treno, in uno scompartimento di 2 classe, ma l’aria tersa autunnale di sempre, dei luoghi che avevano animato lo scenario degli anni ruggenti, lo avevano subito completamente rilassato.
Non era cambiato quasi niente nei pressi dell’Istituto “il Liceo-ginnasio statale “Enrico Perito”, annesso, per carenza di locali dopo la seconda Guerra Mondiale, nell’edificio della Scuola Media “Matteo Ripa” dove appunto Franco aveva frequentato i suoi studi, dalle scuole medie, alla maturità classica, ivi conseguita nel 1957.
Guardandosi intorno, Franco osservava che dai suoi tempi non era cambiato quasi niente; la villa comunale prospiciente gli ingressi principali dell’Istituto piena di alberi e di aiuole verdi; il solito verde meridionale dell’autunno inoltrato; i soliti negozi che sulla villa, in cerchio, aprivano ancora le loro vetrine ed il solito bar/ caffè, punto d’incontro di sempre, che, come di consueto, diffondeva l’aria della canzonetta più in voga, ora a mezzo di un Juke-box a tutto volume, avendo depositato, tra le cose del passato, il vecchio giradischi collegato all’esterno con un piccolo altoparlante.
Comunque il tempo nuovo per i giovani scolari dell’istituto vicino, era giunto in provincia non solo con la selezione automatica di un piacevole ritornello, ma, era stata realizzata l’isola pedonale tutta intorno all’Istituto; era giunto lo “spray” ad imbrattare i muri con tutte le scritte del nuovo linguaggio studentesco, fonte poi della riforma scolastica del 1968: le finestre della scuola avevano in vari punti i vetri rotti non certamente dovuto agli eventi bellici e, proprio quel giorno, un nutrito gruppo di studenti schiamazzava e non mostrava proprio l’intenzione di voler entrare nelle aule.
A quella vista, Franco Contino, cambiò bruscamente l’espressione del suo viso: dai dolci ricordi dei suoi tempi impegnati ad apprendere, passò subito alle amare considerazioni della realtà; si sentì di nuovo stanco ed ebbe un attimo di esitazione.
Ma non poteva indugiare, né aspettare la fine della confusione; il certificato di studio doveva ritirarlo subito per poter ripartire il pomeriggio; i termini di presentazione del certificato infatti scadevano inesorabilmente il giorno dopo: non poteva perdere la promozione per la quale, anche quel “Liceo”, ben frequentato, aveva certamente dato valido apporto per fargliela meritare.
Deciso, aggirò il gruppo dei dimostranti, non fu neanche notato; “meno male” sussurrò tra sé non tanto per paura, quanto per premura, -chi può fare paura ad un uomo che ha lottato serenamente per affermarsi con le proprie forze nella vita- e si portò presso la porta di servizio dell’Istituto da dove entrò, perché ancora aperta, dopo aver esposto le sue necessità al capo di un drappello di carabinieri in assetto di guerra, i quali proteggevano l’entrata della sala dei professori e del personale non docente.

Scena I

Si trovò così nell’atrio dell’Istituto e… quale fredda sensazione provò Franco, notando la porta principale, da dove tante volte era entrato per apprendere, sprangata; ma ecco che gira l’angolo in fondo al corridoio di sinistra dell’Istituto un personaggio di quella scuola: il bidello Peppino.
Franco non si aspettava d’incontrarlo; lo credeva già in pensione; ma il signor Peppino era ancora lì, non molto alto, con i capelli sempre tirati indietro anche se alquanto imbiancati, come i baffetti alla francese, ancora tenuti ben curati. Il suo portamento era, come di consueto, elegante nella divisa grigio-chiara, dal colletto rosso con incise le orgogliose lettere V ed A intrecciate, la sigla del Liceo-ginnasio Statale “Vittorio Alfieri”, dove Peppino prestava servizio da tempo indefinito.
Stava intento, come ai vecchi tempi, a compiere il suo rito mattutino delle ore 8: apertura delle aule, ricambio dei gessetti, pulizia della lavagna per renderla pronta alla spiegazione che tra poco gli insegnanti avrebbero dovuto effettuare ai loro allievi ed avvicinandosi sempre di più disse:
“Ciao”.
Franco non pensava di essere stato subito riconosciuto, ma appena sentì pronunciare quel saluto, come richiamato dalla voce di tanti ricordi, andò incontro a Peppino lo abbracciò e rispose:
“Buon giorno; che piacere rivedervi Peppino e per giunta sempre così in forma”
“E… si, ma gli anni si vedono” riprese Peppino indicando i suoi baffetti; “tu dimmi, perchè sei qui? Trovo finalmente l’occasione per ringraziarti anche di persona di tutti i saluti che tante volte mi hai inviato”.
Franco stava per rispondere, ma Peppino, indicando verso la direzione della porta di servizio
disse:
“Guarda chi sta arrivando; il professore d’italiano che anche oggi, è mercoledì, come ai tempi tuoi, deve tenere la sua lezione di due ore nell’aula della Prima Liceo “A” e con la mano destra indicò la il corridoio dove ora si trovava l’aula.

FRANCO

“Non è ancora in pensione”? domando Tonino
PEPPINO

“No” rispose Peppino ed aggiunse: “sono veramente fortunati gli allievi che lo possono ancora ascoltare, ma……………..oggi a chi parlerà!

TONINO
“E già…….” sussurrò un po’ imbambolato, mentre il professore avvicinatosi, rivolgendosi proprio a lui, senza alcuna esclamazione di sorpresa disse:

PROFESSORE

“Come mai sei qui così di buon’ora; sei venuto a lezione?” aggiunse in tono molto serio e poi, amareggiato continuò: “come hai fatto a sapere che oggi in aula non ci sarebbe stato nessuno e quindi qualcuno doveva pur premurarsi di ascoltarmi?”

FRANCO (in tono molto serio, cosciente del dramma che travagliava il suo maestro)

“No professore…magari!” si fermo un attimo ed aggiunse:
“Sono venuto presto perché devo subito ritirare il diploma di maturità ed alle ore 14 devo riprendere il treno per tornare in Lombardia, dove lavoro, in tempo per completare una documentazione ai fini di un avanzamento di carriera”.

PROFESSORE

“Bene complimenti” poi (tirato nel volto e deluso nell’animo, rivolgendosi, a Peppino, aggiunse :

“Signor Peppino, voi siete sempre al vostro posto, puntuale a compiere il proprio dovere, certo che voi, quello che la società vi dà, lo meritate ampiamente”.

PEPPINO (amareggiato)

“E…si! Ma a che scopo! Mi premuro ogni giorno vanamente a portare gessetti che non servono a segnare nulla di ciò che possa rimanere nel tempo e spugne che non riescono più a cancellare quello che di cattivo non va insegnato. Infatti, oggi, saremo noi due professore, anzi noi tre a lezione,”.
Guardò con un mezzo sorriso Franco, mentre avvicinatosi ad una finestra sempre più amareggiato, guardando verso la piazza dalla quale provenivano delle urla, aggiunse:
“che tristezza……………..”.

PROFESSORE (ironico)

“Ma cosa vanno oggi richiedendo i nostri amici” disse mentre si avvicinava, prendendo a braccetto Franco, verso la finestra da dove li guardava sulla piazza.

PEPPINO

“Non lo so bene, non si riesce a capire”, si fermò un attimo e continuò;
“mi pare che i nostri amici, come voi dite, pretendano oggi che gli astronauti, prima che si incontrino nello spazio, facciano una sosta qui nel cortile della scuola per dimostrare che sono degli uomini, e poi riprendere liberamente la loro orbita; questi giovani studenti sono troppo intelligenti e non devono essere presi in giro da nessuno”.

PROFESSORE (pensieroso)

“Ah si! Ma come è poss…”, come è possibile stava dicendo il professore tutto preso dai suoi classici, ma poi conoscendo Peppino come buon mattacchione, sempre pronto con la sua arguzia aggiunse:
“Siete sempre il solito…Peppino; il vostro arguto umorismo è sempre molto pericoloso per coloro che vi stanno intorno.

PEPPINO

“Si professore: questi ragazzi, pretendono proprio quanto le ho detto”.

PROFESSORE

“Ma Peppino!: Mi volete prendere in giro! Come si potrà realizzare quanto essi richiedono?”.

PEPPINO

“Lo so professore che è impossibile, ma quando questi allievi dicono, anzi pretendono di venire qui in aula e, pur non conoscendo ancora nulla perché non hanno aperto alcun libro, vogliono sostituirsi a voi professori per insegnarsi l’un l’altro quelle cose che non sanno, non è secondo voi pure questo un fatto impossibile?”.

PROFESSORE (frastornato)

“Certamente” disse e riprendendosi aggiunse:
“Ma…! Cosa mi fate dire!” s’interruppe e serio gesticolando con la mano destra verso il bidello continuò:
“non è vero; oggi questi ragazzi sono tutti veramente intelligenti, bene istruiti fin da piccoli in quanto apprendono subito quasi tutto sul corso dei tempi, attraverso i giornali, la televisione e altri mezzi di comunicazione e riescono a distinguere quello che è buono e quello che è cattivo; di conseguenza si sentono in dovere di sostituirsi al professore per darsi un indirizzo logico, da soli, nella vita”.

PEPPINO (con convinzione)

“E…professore, finalmente vi trovo pronto a burlarmi e da voi l’accetto, ma le cose stanno proprio come vi ho detto e mi sento di affermare davanti a tutti che i bambini, i ragazzi, i giovani possono solo dalla scuola, s’intende ben organizzata, ricevere e ad essa devono dare solo attenzione; non può essere diversamente e lo dimostrano i tempi in cui i rapporti tra scuola e studenti stavano così” e concluse guardando Franco, come per indicare il risultato di quella scuola che lui apprezzava.

PEPPINO (si fermò un istante, poi si appoggiò al braccio di Franco e continuò:

“Quanti bravi ragazzi, oggi onesti lavoratori, abbiamo preparato in questa scuola abituandoli al senso della responsabilità. Tutti essi, oggi uomini, hanno avuto molto dalla scuola, dalle vostre spiegazioni, professore, e da quelle dei vostri colleghi e, pur se non tutti professionalmente indirizzati secondo le loro naturali aspettative, si dimostrano parimenti capaci di vivere potendo, con umana dignità, affrontare tutti gli intrecci della vita”.

PROFESSORE (con l’espressione di chi aveva profuso tanto nel suo insegnamento)

“Ma Peppino”, esclamò!

Poi poggiando il suo braccio sinistro sulla spalla destra del bidello ripetè:
“Peppino, ascoltate” e invitando col cenno dell’altra mano, pur stringendo i suoi libri sotto il braccio, ad incamminarsi verso l’aula dove avrebbe dovuto tenere lezione, concluse:
“Ascoltate Peppino, è vero che la scuola deve dare, ma è anche vero che deve saper pur dare a tutti”.

PEPPINO (veramente convinto)

“Concordo con voi” ribattè il bidello, “la scuola deve dare a tutti e pare che questi siano gli sforzi che da più parti si vanno compiendo: ma intanto è necessario che tutti prendano qualche cosa da questa benedetta scuola. Se ogni giorno, o quasi, voi siete costretto a non poter distribuire quello che la scuola, per il vostro tramite, può dare, o perché gli allievi non si presentano, o perché non badano a quello che voi in aula dite, perché essi, come ho detto poco fa, sono già formati prima di entrare in queste aule per apprendere per cui la vostra asserzione sembra alquanto astratta”.
Poi fermandosi sulla soglia della porta dell’aula continuò:
“Sono pienamente convinto che la scuola deve essere per tutti e non indirizzata a schiere di privilegiati, ma questo concetto legalmente umanistico ed umanitario, non vuole dire che, pur se gli allievi non diano ascolto alla scuola, tutti piattamente, debbano godere il privilegio di un determinato titolo di studio che poi ai fini pratici non ha alcun valore. Io credo che come tutti hanno il diritto di andare a scuola, così ogni allievo ha il dovere di seguire la scuola nei suoi insegnamenti, in modo da poter dimostrare alla fine, di sapere e quindi ricevere il premio che gli spetta, senza che, colui il quale di detto premio non si sia reso meritevole…………..”

PROFESSORE (interrompe Peppino)

“si senta menomato nei confronti dell’altro che lo ha ricevuto, perché se qualcuno è stato premiato, vuol dire che ha seguito gli insegnamenti più di un altro, ha lavorato con più impegno nella scuola”.

PEPPINO (contento di essere stato capito)

“Si, proprio così”.

PROFESSORE (con amara esclamazione)

“Ma come siete rimasto lontano nel tempo Peppino mio caro!” rispose il professore.

Scena II

Il professore, il bidello e Franco entrano nell’aula

Il professore si avviò a sedersi sulla cattedra, mentre con gli occhi luccicanti girava lentamente lo sguardo in tutto l’ambiente, in cui tanto si era prodigato per i suoi allievi e che ora rimbombava freddamente alle sue parole. Il Bidello e Franco si fermarono a breve distanza dalla cattedra.

PORFESSORE

“Come siete rimasto indietro Peppino” ripetè e appoggiandosi più stufo, annoiato, che stanco alla spalliera della sedia, deciso aggiunse:
“i tempi attuali non accettano discorsi di impegni e conseguenti valutazioni della scuola per premiare”.

PEPPINO (incredulo)

“Ma…professore!……..!” intervenne subito Peppino con il tono della voce accorato ed aggiunse:
“In tal modo mi pare che non si faccia scuola e quindi formazione culturale per tutti, ma solo ammaestramento di tanti impreparati; io sono convinto” continuò, “che compito essenziale della scuola, è abituare gli allievi all’impegno, tenere cioè intenti gli alunni al dovere di preparare la lezione per il giorno dopo; la scuola significa educare gli animi ad attendersi di ottenere qualche cosa, un premio di riconoscimento valutativo, un voto, un giudizio insomma, perché seriamente si sono impegnati per ottenerlo. E’ il primo modo di dire soprattutto ai bambini, agli adolescenti che nella vita si deve pretendere di ottenere solo quello che con serena preparazione si va ricercando. Se la scuola riesce a fare ciò, educa, alla reciproca coesistenza, gli uomini, esalta i loro sentimenti, fa cultura e li prepara alla vita, diversamente, non si può pretendere di trovare uomini, per la vita stessa, preparati”.
Peppino si interruppe perchè quelli fuori, come egli diceva, avevano ripreso ad urlare ed allora ancora più accorato continuò a parlare rivolgendosi a Franco ed al professore:
“Ascoltate come gridano e sono tutti d’accordo; non uno che alzi la voce e li inviti a venire ad apprendere qualcosa per la vita, qui in queste aule; è certo che in questi posti i comportamenti di vita si possono apprendere, lì fuori certamente no”.

PROFESSORE
“Non vi arrabbiate Peppino”, intervenne il professore, “i mancati comportamenti che voi lamentate, sono la conseguenza logica di questi avvenimenti; infatti se qualche volta qualcuno invita gli altri, di lasciare perdere gli schiamazzi e di venire ad apprendere, viene subito beffeggiato e tacciato di poco spirito di classe perché non sente i problemi della categoria e se tutto gli va bene, può tornare a casa con un occhio pesto. Certo però che sono contraddittori questi nostri amici, dicono di essere una classe sociale, ma di essa non mettono mai in pratica la prerogativa essenziale: il lavoro”.

PEPPINO ( mentre si mette a sedere insieme a Franco in uno dei banchi vuoto in prima fila)
“E’ vero” disse e dopo un’istante continuò:
“e la cosa più assurda è quando questi allievi moderni, parlano di idee; ma quali se non studiano? Così si sente dire, per camuffare tutta la loro impreparazione, che essi, in tal modo comportandosi, seguono un indirizzo politico, ma quale, se non vengono qui tra i banchi ad apprendere le varie idee politiche. I loro comportamenti politici non appresi attraverso la scuola, in generale, oggi, portano solo a malmenarsi reciprocamente perchè ognuno vuole imporre il suo principio”
Poi alzando il braccio sinistro con l’indice puntato verso il professore sereno disse:
“Però, permettetemi, professore, di dire, io Peppino Scamoglia, bidello di questa scuola, sono convinto che tutto ciò che si verifica oggi tra gli studenti, non si tratta di seguire o meno determinate tesi politiche, proprio per quello che ho detto prima, ma sostengo” agitava sempre di più il suo indice, “che nei ragazzi, negli studenti, c’è stato e ci sarà sempre il senso spiccato di “marinare” la scuola, solo che oggi questa voglia è più pretestuosamente sfrenata e più che singola è divenuta collettiva.
La scuola più preparata anche negli insegnanti e la cellula familiare più unita, anni addietro contrastavano questa forza e l’annullavano, facendo prevalere nell’ allievo la dedizione allo studio come senso del dovere e come compito affidato ai giovani quale primo impegno delle loro prime azioni di vita”
A questo punto Peppino si alzo dal banco ed andando verso la cattedra e fermo nella voce, continuò a dire:
“Mi ritornano alla mente, professore, le terribili parole che voi, in tono solenne e misterioso scandivate qualche anno addietro ed ancora scandite, con la solita passione agli allievi della prima liceo”
il professore, a questo punto si mise a fissare il bidello che intanto continuava a parlare,
“Papè Satan, Papè Satan Aleppe” poi, dopo la lettura di tutto il periodo, vi fermavate un attimo e sereno e solenne, spiegavate che di quelle parole così oscure, pronunciate con voce “chioccia” da Pluto, guardiano del quarto cerchio dell’Inferno di Dante, mai nessuno, in tanti secoli, era riuscito ad esplicitarne il significato.
Ebbene, io, oscuro bidello, giorno per giorno, in questi tempi, ne traggo il senso tragico in esse contenuto, riscontrando il terribile mistero in esse nascosto, nello sconvolgimento pauroso che avvinghia il corso dei nostri giorni, non solo nella scuola.
Lo riscontro, e qui Peppino divenne veramente serio,
“nei continui, diversi veleni propinatici licenziosamente negli elementi più necessari alla continuazione della nostra esistenza, nel sangue di ogni colore che ogni giorno macchia questa nostra civiltà, nell’indifferenza di tutti i responsabili politici, economici e culturali che nulla si premurano di fare per arrestare la folle corsa verso l’ammiseramento e l’eccidio generale dell’intero genere umano, anzi in questa folle corsa, vergognosamente, si arricchiscono, violando le leggi, senza porsi alcun scrupolo di moralità.
Il massimo della tragicità è proprio in questo; c’è tutto intorno, il senso della nostra intera distruzione, lo si percepisce in ogni singola manifestazione che viene compiuta eppure non si riesce ad attuare una sola azione chiara per far cessare, o meglio per non fare realizzare, l’ultima scena della tragedia che ogni giorno andiamo recitando” si fermò e serenamente concluse,
“sembra proprio che l’inevitabile non conosca fine”.
Il professore e Franco, l’ex studente, non avevano avuto proprio il coraggio di fermare Peppino nella sua dissertazione ed il piccolo bidello s’era tanto infervorato; non si sa quando avrebbe finito, ma le due ore della lezione d’Italiano del mercoledì nell’aula della prima liceo, erano trascorse ed il professore non aveva più nulla da fare tra quei banchi vuoti.
Infatti si alzò mentre scendeva dalla cattedra,

PEPPINO (con educazione)
“Chiedo scusa” disse “se ho esagerato nel mio fervore”

PROFESSORE (chiaramente commosso)
“Scuse di cosa Peppino?” ed aggiunse:
Vi devo ringraziare, “oggi come lezione d’Italiano, per quelli che stanno lì fuori, come dite voi, sarebbe bastato anche il vostro monologo nel corso del quale siete stato un vero insegnate per tutti”.
il professore abbracciò caldamente il bidello, strinse forte la mano a Franco che durante la lezione di Peppino era rimasto sempre seduto nel banco, ed uscì dall’aula senza girarsi.
FRANCO ancora intensamente in tensione perchè, incredulo, si rivede rinnovato studente (non l’avrebbe mai potuto pensare partendo dal Nord d’Italia), si alzò dal banco ed avvicinandosi al bidello ancora fermo alla cattedra disse:

“Signor Peppino, mi accompagnate in segreteria? Ho bisogno del vostro aiuto, non conosco nessuno e devo fare in fretta per il treno, come già sapete”.
PEPPINO
“Si” rispose e ancora frastornato dopo le parole del professore e dopo questa richiesta dell’ex studente -non era più abituato- stava proprio rivivendo in pieno la sua funzione; prese Franco per un braccio e uscirono dall’aula.

Fine

Scritto e pubblicato come racconto nel 1987
In “Folate di Generosità” Lalli Editore Poggibonsi”
Trasformato in Testo Teatrale autunno 2019

 


 

A prova di carta contraria

“In Nome di Sua maestà il Re d’Italia, La Corte d’Assise del Circolo di Nenfi,………dichiara Ortese Dante, colpevole del reato di omicidio di Lucia Stazzani e lo condanna alla pena di morte a mezzo fucilazione.
Questa la sentenza emessa in data 12.3.1934 ed inutile fu l’ultima implorazione del condannato perché non venisse così giustiziato.
“Non sono stato io” gridò infatti Dante alla fine della lettura della sentenza, alzandosi dallo scranno dove era stato seduto fino a quel momento e, a voce alta, mentre la corte si stava ritirando, aggiunse:
“Presidente fermatevi un momento guardatemi; non sono stato io ad uccidere Lucia Stazzani, ma non ho altro modo per dimostrarlo, se non la mia parola ed il mio passato di bravo cittadino.
Poi con voce implorante aveva continuato:
“Non ammazzatemi per pietà; è vero, la sera precedente al giorno del delitto, ho litigato con Lucia Stazzani, la mia fidanzata, ma non l’ho ammazzata io e scoppiò a piangere.
I carabinieri che erano al suo fianco, lo presero per le braccia, era accasciato; lo sostennero e con forza, mentre egli si girava a salutare i parenti seduti sulle scalee dell’aula giudiziaria, lo portarono fuori dal Tribunale nel cortile, dove lo fecero salire sul cellulare, per trasportarlo definitivamente in carcere.
Il difensore gli aveva creduto allorchè Dante gli aveva raccontato che la sera del delitto, non arrivando Lucia al solito appuntamento nel parco, aveva percorso il tragitto che di solito la ragazza faceva e l’aveva trovata uccisa, ma le prove addotte dal Pubblico Ministero erano state schiaccianti e non emergevano neanche possibilità per il ricorso in appello.
Così Dante Ortese, fu tradotto in carcere, in attesa del giorno dell’esecuzione.
Intanto, il giorno dopo, presso il Comando Carabinieri di Nenfi.
“Buon giorno, brigadiere” disse Angela Stenasi, sposata Rocchia, mentre il carabiniere di piantone apriva lo sportello di controllo del portone d’ingresso alla caserma, sul quale la donna, agitata, aveva ripetutamente bussato.
“Dite signora; avete bisogno?” rispose il carabiniere.
“Si, vorrei parlare con il maresciallo; è una cosa molto urgente” implorò sconvolta.
“Non potete dire a me?” la interruppe il carabiniere, “il maresciallo è molto impegnato.”
“No……no!”, rispose Angelina, “si tratta della sentenza di ieri; ne parla tutta la città”.
“Allora aspettate un momento”, chiuse lo sportello aprì il portone e la fece accomodare in una piccola e spoglia sala d’attesa, posta alla sinistra dell’entrata.
Poi andò presso gli uffici del maresciallo, poco distanti al piano terreno della caserma.
Bussò, aprì con discrezione la porta e disse:
“Scusate maresciallo, è urgentissimo” ed entrò.
Chiedendo scusa alla persona che era in colloquio con il maresciallo, si avvicinò all’orecchio di questo e gli disse della signora Rocchia.
Il maresciallo maggiore Ignazio Marello, che aveva arrestato Dante la sera stessa del delitto, dopo che Dante stesso, andato in caserma, lo aveva fatto correre sul posto, disse:
“Dove è la signora”
“E’ in sala d’attesa comandante”, rispose il carabiniere”
Il maresciallo chiese scusa all’uomo con cui stava parlando, avevano quasi finito, gli consigliò di consegnare tutto al suo vice, si precipitò verso la saletta d’attesa, dove era la signora Rocchia, e disse:
“Accomodatevi, signora” e la fece entrare nel suo ufficio, dicendo al piantone:
“vai a chiamare il brigadiere di turno, digli di venire subito”.
“Agli ordini capo” disse il piantone ed andò a chiamare il brigadiere.
Il maresciallo si accomodò sulla sua sedia dietro la scrivania, fece sedere il brigadiere, sopraggiunto, sulla sedia davanti alla scrivania stessa, di fronte alla signora Rocchia già seduta e rivolgendosi a questa disse:
“Allora signora, cosa c’è di tanto urgente, cosa mi dovete dire?”
La donna, mentre il brigadiere con carta e penna, non vi erano ancora nella caserma macchine da scrivere, era pronto a verbalizzare, sconvolta, incominciò a raccontare:
“Dante Ortese non ha ucciso Lucia; presumo l’abbia uccisa mio figlio”.
“Cosa dite signora?” la interruppe sconcertato il maresciallo, “come potete affermare questo?” aggiunse incredulo; conosceva bene la famiglia di Angelina.
“Si, penso sia stato proprio lui, mio figlio” affermò decisa la signora; tirò dalla borsetta una carta ed aggiunse:
“Ho qui la prova. Mio figlio, il giorno precedente l’omicidio, verso le due di pomeriggio, rientrò in casa più agitato del solito; dopo la morte del padre è incontrollabile. Gridava che a quella Lucia Stazzani, gliela avrebbe fatta pagare, l’avrebbe ammazzata; non poteva rifiutarlo e glielo avrebbe anche scritto, dove e come l’avrebbe uccisa”.
“Continuate signora, continuate” intervenne il maresciallo, molto interessato.
“Si maresciallo”, ed ancora più sconvolta la signora aggiunse:
“Ma abbiate pazienza; si tratta di mio figlio”.
Poi bevve un sorso d’ acqua offertagli dal brigadiere che stava verbalizzando e decisa continuò:
“Non è giusto fare giustiziare un innocente!”
Si appoggio alla spalliera della sedia e riprese a dire:
”Si Aldo, mio figlio; egli il giorno precedente l’omicidio della povera Lucia, come ho detto, verso le due, rientrò in casa molto……molto esasperato, imprecando contro la poveratta”;
Angelina si fermo e poi, incominciando a lacrimare, continuò:
“Si imprecava contro la povera Lu…Lu…Lucia e dopo essere rimasto rinchiuso nella sua stanza per alcuni minuti, sbattendo la porta, ne uscì con una lettera in mano, andando via di casa”.
“E dopo cosa ha fatto?” intervenne il maresciallo.
“Mio figlio non lo so; io entrai nella sua stanza, non trovai segni di violenze; però guardai sulla sua scrivania, notai la penna stilografica fuori dal calamaio sullo scrittoio ed a fianco, un tampone di carta assorbente rovesciato.
Misi la penna nel calamaio, stavo per girare il tampone della carta assorbente, quando vidi che la carta era fresca d’inchiostro; evidentemente mio figlio aveva asciugato, con questa carta, quanto aveva scritto nella lettera con cui, come detto, era uscito di casa.
Girai il tampone della carta assorbente più di una volta tra le mani e decifrando al contrario le lettere impresse, come sapete io insegno calligrafia alle scuole elementari, nel vicino paese di Riverso, (il maresciallo annuì), intuìi quanto mio figlio avrebbe potuto fare, pur se non lo ritenevo capace di tanta efferatezza”.
Poi singhiozzando, disse:
“La carta è questa maresciallo; decifratela” e gliela consegnò.
Quella carta descriveva il delitto che Aldo avrebbe commesso quella sera ai danni di Lucia Stazzani, la data, l’ora, il luogo, là nel parco che Lucia attraversava per andare all’appuntamento con Dante.
Al maresciallo sembrava impossibile; tuttavia gli appariva che la carta al contrario, poteva salvare la vita ad un innocente.
Deciso disse al brigadiere:
“Stilate il verbale in bella copia, dopo la lettura fatelo firmare dalla signora e inviatelo alla Procura della Repubblica, nonché al difensore di Dante Ortese.
L’esecuzione della condanna a morte di Dante era da sospendere ed, in conseguenza, doveva instaurarsi processo per presunto omicidio volontario, a carico di Aldo Rocchia.

 


 

Laura e Caterina

Da un po’ di tempo a questa parte, le teorie pedagogiche moderne ci presentano i fanciulli tutti vispi, allegri, intelligenti e si aggiunge: “guardateli come si comportano con i computer, con i giochi elettronici, come usano con disinvoltura i tasti delle comunicazioni via internet, non significa nulla classificarli in buoni e cattivi”.
Di conseguenza si afferma che l’intelligenza per questi fatti li pianifica tutti per cui non v’è alcun bisogno di andare a stabilire chi di essi ubbidisce ai genitori, chi di essi ascolta i maestri o le persone anziane, anzi è proprio la capacità di rendersi liberi di fronte a certe, definite direttive che li dimostra tutti capaci di viva intelligenza; quindi non vanno assolutamente imbrigliati ed ogni loro manifestazione va tenuta nella massima considerazione.
Ma il buon senso dell’umanità, camuffato da vecchio insegnante, un giorno arrivò proprio in uno di quei centri abitati dove le congetture intorno alla vivacità dei fanciulli moderni, erano al massimo della evoluzione.
E gia dal primo giorno il canuto insegnante al quale era stata assegnata una quarta elementare, li aveva notati questi nuovi bambini; erano abulici, poco attenti alle lezioni, evidentemente pensavano ai giochi elettronici, presentavano poco interesse e capacità di apprendere quanto di tradizionale loro si insegnava, mentre erano molto furbi a farsi dispetti tra loro, nonché a farsi anche burla dell’anziano insegnante.
Questo non riusciva a trovare nulla di valido per cercare di far loro capire che tutte le nuove forme di attrazione rivolte alla loro intelligenza sarebbero state utili per la loro vita, solo se essi avessero praticato il rispetto tra di loro , verso i genitori e verso la gente che si prende cura di loro e verso la tradizione.
Ed intanto il tempo passava e l’anziano non si faceva ragioni del perché non doveva introdurre nell’animo della maggior parte di quei fanciulli, alcun senso dei pratici avvenimenti della vita che non fosse l’interesse per i computer ed i giochi elettronici di certo non indispensabili conoscenze di primo piano nella vita scolastica.
L’articolo, l’aggettivo, il nome, i pronome, l’avverbio, la preposizione, il verbo, la proposizione, le tabelline, l’area, la superficie, la circonferenza, la diagonale, l’ipotenusa, il cateto, l’angolo isoscele o rettangolo, non riuscivano facilmente a competere in quelle giovani menti con termini quali password, file, visualizza, finestra, excell, e-mail, internet, mause, cliccare, chiocciolina che ovviamente per loro non era affatto il simpatico insetto che circola nelle verdure.
L’anno successivo, nonostante tutto, con sufficienza, tutti quei fanciulli passarono alla classe quinta ed il medesimo insegnate se li ritrovò in classe, sempre con la mente rivolta all’esterno della scuola.
Arrivarono però i giorni precedenti le festività natalizie e, in classe, capitò di parlare oltre che dei doni che Gesù Bambino o Babbo Natale stavano preparando soprattutto per fanciulli buoni, anche di quelli che la notte tra il cinque ed il sei gennaio, avrebbe portato la Befana.
Nel sentire questo nome, proprio il giorno antecedente l’inizio delle festività, una ironica risata riempì tutta l’aula ed allora all’anziano maestro gli venne in mente di raccontare una favola dei suoi tempi riguardante la presenza, nell’universo, di fanciulli buoni e di fanciulli cattivi e così, nella solita aula non di certo degna di fanciulli della massima intelligenza, né per capienza, né per le condizioni igieniche, tra un brusio che non faceva prevedere nulla di buono incominciò a dire:
“C’era una volta” e per un attimo si fermò per pensare che mai come in quel momento queste parole erano appropriate ad iniziare una favola.
Poi, scacciata quella realistica, amara considerazione, ricominciò:
“C’era una volta un centro abitato, quasi simile al nostro, un poco più piccolo situato in collina; vi erano nel centro varie casette di un solo piano disposte in fila poco distanti l’una dall’altra, poi da una parte e dall’altra del centro vi erano alcuni agglomerati di case tali da far pensare ad un moderno condominio e alte non più di tre piani; strade strette nel centro, più larghe in periferia, quasi tutte ben levigate nella parte piana del paese, altre sterrate che si arrampicavano per diverse lievi salite dove c’era anche la scuola elementare e d’inverno spesso tutto era coperto da tanto neve, più o meno come capita qui da noi.
Alle parole “c’era una volta”, i fanciulli, come per la parola befana, avevano emesso una lunga risata cui il maestro non aveva dato peso, ma afferrando essi il paragone tra il loro centro abitato e quello di tanti anni fa descritto dall’insegnante, si mostrarono incuriositi e si fecero attenti.
L’anziano insegnante, molto arguto, notò questo cambiamento di umore e più rincuorato incalzò con il racconto dicendo:
“Correva allora, proprio come oggi, la vigilia della feste natalizie ed il freddo quell’anno era molto più intenso, tanto che tutti i comignoli fumavano ogni momento intensamente per la legna che, crepitando, ardeva continuamente nei camini”.
L’insegnate si andava facendo sempre più intraprendete ed alzatosi dalla cattedra si avvicinò ad uno dei primi banchi continuando a dire:
“In una di quelle casette vicine tra loro, circondate da tanta neve quell’anno, vivevano con le loro famiglie due fanciulle della stessa età.”
Gli alunni a questo punto si sentirono ancora più coinvolti e con i loro occhioni attenti, veramente ora occhioni intelligenti, seguivano tutti i movimenti dell’insegnate.
Questi infatti non era rimasto più fermo presso i primi banchi, andava muovendosi in lungo ed in largo per l’aula; camminando dava dinamismo al racconto e nessuno si azzardava a fare domande per cui indisturbato, anche se sorpreso, senza indugi continuava a raccontare:
“Quelle due fanciulle, quel giorno della vigilia delle vacanze natalizie, erano state insieme nelle ore pomeridiane e si dicevano un fatto che involontariamente avevano ascoltato dai loro genitori i quali avevano detto che la notte del sei gennaio una donna molto anziana dal nome Befana……..”.
A questo punto, nonostante l’attenzione, ancora una risata interruppe il racconto perché uno dei fanciulli, nei giorni precedenti, aveva detto di aver attribuito questo nome alla propria nonna e se ne era fatto vanto con i compagni, ma l’anziano maestro non diede peso a quanto accaduto e continuò:
“Una anziana signora, la Befana appunto, sarebbe passata di notte per le vie del villaggio e volando sopra una scopa, sarebbe entrata attraverso i comignoli nelle case, per dare doni a quei fanciulli che durante l’anno si erano mostrati buoni, avevano ubbidito ai genitori, avevano ascoltato gli insegnati, non avevano fatto inutili dispetti ai loro amici”.
Pertanto una delle due fanciulle, di nome Laura, diceva che non avendo commesso per quell’anno nessuno atto di disubbidienza, era sicura che la Befana l’avrebbe premiata.
Infatti sarebbe andata a casa e prima di andare a letto avrebbe preso un pezzo di polenta avanzato alla colazione di mezzogiorno e l’avrebbe posta al lato del cammino insieme ad un poco di vino in un bicchiere, così che la vecchietta che ivi sarebbe giunta di notte, avrebbe potuto trovare un poco di ristoro per poi continuare il suo viaggio.
L’altra bambina di nome Caterina, aveva ascoltato con stupore quanto Laura aveva raccontato, ma rispose che non se ne curava tanto dell’anziana vecchietta dispensatrice di doni ai fanciulli buoni; tuttavia essendo anche essa una fanciulla e visto che la Befana entrava in paese, era obbligata a passare da casa sua e portarle un dono, anche se, in quell’anno, non si era comportata proprio bene.
Laura però la interruppe facendole notare che la signora Befana andava solo a trovare i fanciulli buoni e non pensava proprio che potesse andare da lei che in quell’anno di dispetti ne aveva, appunto, fatti abbastanza compresi quelli alla sua amica del cuore.
Caterina non voleva crederci ed insisteva che era una bambina, una fanciulla anche lei e come per le altre, anche per lei, non potevano mancar dei doni; la natura l’aveva fatta esuberante e contro di essa non poteva affatto recriminare.
Ma la sua amica Laura concluse: “Sei proprio una sciocca” ed aggiunse “vedrai che domani non ti troverai in casa nessun dono”.
Così disse e si lasciarono; ormai era sera e Laura e Caterina tornarono ognuna alla proprie abitazioni.
Caterina andò subito a letto a dormire sicura che all’indomani sarebbe stata comunque premiata.
Laura invece, tornata a casa, parlò con i genitori poi, prese il pezzo di polenta avanzata al pranzo di mezzogiorno, lo scaldò in una padella sopra la brace del camino ancora viva, lo pose in un piatto, versò un poco di vino in un bicchiere ed insieme al piatto con la polenta lo lasciò al lato del camino; alla fine, serena andò a dormire lasciando che il fuoco si spegnesse da solo lentamente; fino a mezzanotte c’era ancora tempo.
Il racconto si faceva sempre più interessante, stante l’attenzione viva degli scolari che, senza distrarsi neanche per un attimo, guardavano intensamente l’insegnate che raccontava.
L’anziano maestro che già aveva visto i suoi allievi abbastanza interessati al racconto, notò questa inconsuete attenzione e stupefatto, ma tranquillo riprese a raccontare riportandosi in piedi davanti alla cattedra così dicendo:
“Vedo che avete molto freddo” disse mentre si stropicciava le mani per riscaldarle e commento “tutti dicono che i bambini oggi sono super intelligenti, ma poi li si butta a ghiacciare in massa in aule come queste; comunque non vi annoierò ancora per molto”.
Così dicendo andò a sedersi dietro la cattedra mentre uno dei bambini, il capo di tutti i dispetti diceva:
“No! No! Signor maestro non ci sta annoiando; continua perché a noi interessa sapere cosa si deve fare per avere dei doni e cosa significa fare buone azioni. I nostri genitori li vediamo poco, essi sono sempre occupati nel lavoro fino a tardi la sera e tutti i vari educatori ci parlano di cose da imparare però mai di cose da fare bene in mezzo agli altri”
L’insegnate si sentì in obbligo a questo punto di fare una precisazione e disse:
“Ragazzi quello che ora vi sto raccontando è una favola e le favole sapete, se non spiegate, lasciano il tempo che trovano, ma se a voi interessa vi devo ancora dire che quella volta, tanto tempo fa, si fece giorno nel villaggio e la Befana era davvero passata”.
Infervorato perché era riuscito ad attirare l’interesse di tutti si alzò ancora, si mise a passeggiare tra i banchi e continuò:
“Infatti le due fanciulle si svegliarono e Laura, che per un anno non aveva fatto niente di eccezionale, aveva solo ubbidito ai genitori, agli insegnati, non era stata dispettosa, balzò dal letto e corse verso il camino; il fuoco era solo cenere tiepida, nel bicchiere il vino era sceso di livello e nel piatto non c’era più la polenta, ma al suo posto era stata depositata una lunga calza di lana.
Laura emozionata la aprì ed all’interno trovò un’altra calza ed un biglietto sul quale c’era scritto:
“questo dono è per te perché sei stata buona con tutti anche con me; ti ringrazio; vorrei vederti, ma non posso aspettarti perché devo andare ancora a continuare il mio giro presso altri bambini come te che, per fortuna, sono ancora molti ed anche se devo lavorare di più per me è una immensa letizia andare a trovarli”.
Laura lesse tutto il biglietto poi freneticamente slacciò la calza che era legata con uno spago e vi trovò la bambola che aveva sempre sognato, una bellissima piccola bambola dal viso di porcellana, alcuni vestitini per cambiarla e tanti piccoli mobiletti, piccoli piatti, tegami e padelle che potevano costituire l’arredo della casa della bambola, casa che però Debora non aveva ancora; quindi di corsa andò al telefono per chiamare la sua amica Caterina.
Felice arrivò lo squillo nella casa di Caterina, ma all’altro capo del telefono, si udì una voce singhiozzante diceva:
“La Befana non è passata da me e non ho trovato nulla di nuovo per poter giocare oggi; sono molto disperata perché avendo fatto tanti dispetti alle altre fanciulle, ora non posso neanche richiedere di giocare con loro”.
Laura rispose:
”Stai tranquilla non disperarti, io ho ricevuto un ricco dono e qualche cosa ti darò in modo che potrai presentarti per giocare con tutte le nostre amiche.
“Ti ringrazio Laura” riprese a dire Caterina.
Si fermò un momento per riflettere e poi aggiunse:
“Tu sei veramente buona Laura ed io oggi ti prometto che non farò mai più la furbetta e tutti, i miei genitori, gli insegnati, gli amici da oggi dovranno essere contenti delle mie azioni”.
Il maestro a questo punto del racconto si ritrasse in un angolo dell’aula come per riprendersi anche egli da una forte emozione e con solennità disse:
”E poiché le promesse tra fanciulli sono sacre, perché fatte da innocenti, da quel giorno in quel villaggio, Caterina, la bambina birbante di un tempo, si trova sempre in prima fila a compiere le buone azioni.”
Poi evidentemente commosso aggiunse:
“Io ho finito, ora potete andare perché davvero qui fa molto freddo; oggi anche se è presto, la lezione può finire qui; correte alle vostre calde case e ricordatevi che questo anno, non si sa mai, la Befana potrà passare anche presso tutti voi”.
Tutti i fanciulli, raccolsero in fretta negli zaini o nelle borse di ogni tipo i libri, le matite, le penne, si infilarono le giacche a vento ed il maestro non fece in tempo ad aprire la porta dell’aula che tutti insieme, in un grido assordante, si riservarono per i corridoi per tornare a casa con un nuovo entusiasmo.
Vi erano in quella classe alunni appartenenti a famiglie poco agiate, ma il maestro, visto la diversa allegria di quei fanciulli, aveva in cuor suo deciso che per i meno fortunati, avrebbe invitato la Befana ad aiutarli in ogni modo.

 


 

Il marciapiede ed il viandante

Nella rumorosa e frenetica città di Milano, un giorno dell’ultimo decennio dei secondi anni mille dopo la nascita di Cristo, un viandante se ne andava premuroso per una delle vie della sua città.
Il nostro viandante, era un uomo di circa quarantacinque anni, alto non più di un metro e settantacinque, carnagione scura, capigliatura mora e folta, soffusa su fronte alta e viso quadrato, che presentava due occhi chiari, un naso normale e un sorriso smagliante.
Era sempre molto elegante nel portamento ed quasi sempre indossava abito grigio e cravatta dello stesso colore su camicia bianca, propri dei moderni uomini d’affari.
Egli, pur possedendo una elegante Lancia Ypsilon, molto snella per circolare nel traffico metropolitano e per posteggiare, da tempo, per muoversi nell’ambito della cerchia del centro città o nelle immediate vicinanze non la usava più, come, parimenti non si serviva dei mezzi pubblici di trasporto.
Infatti, abitualmente, il nostro viandante parcheggiava la sua autovettura a ridosso del centro città, dove nella prima mattinata vi era ancora qualche spazio tracciato dalla linea bianca, altri posti di parcheggio sia pubblici che privati erano molto costosi e raggiungeva a piedi i luoghi dei suoi affari; si faceva molto più in fretta.
Così si era comportato anche quel giorno di fine secolo ventesimo anche se era un pò di tempo che veniva sempre costretto a rallentare i suoi passi, oppure a fermarsi anche sulle strisce pedonali, per lasciar passare autoveicoli, ancora più premurosi di lui con i loro motori a bassa o alta cilindrata.
E quel giorno erano circa le ore undici del mattino, era già da circa un mese primavera e le prime infiorescenze dei rami degli alberi e di varie aiuole pur esistenti in città, facevano intuire che i primi loro profumi, potevano anche sovrapporsi alle puzze emanate dai tubi di scappamento, pur raffinati, dei vari motori.
In quella mattina molto calda in verità, l’effetto serra oramai permeava tutte le stagioni ed il nostro viandante, indossando solo l’abito scuro senza soprabito, era ancora più di fretta, ma si mostrava sempre più infastidito.
Era stato costretto a fermarsi più di una volta nel passare da un marciapiede all’altro, su vari passaggi pedonali, dove molti autoveicoli e ciclisti non gli avevano dato la precedenza dovuta.
Per evitare altri disturbi, pensò di continuare il suo cammino, su di un lungo marciapiede, per metà pavimentato e per metà sterrato, posto al centro di un viale che lo avrebbe avvicinato a ridosso del centro cittadino, dove era atteso per svolgere i suoi affari.
Ad un certo momento sentì intorno a sè una voce che, sbuffando, diceva:
“Uffaaa…..aa!!”.
Il viandante era quasi all’inizio del marciapiede, dove non vi era neanche tanto spazio invaso da macchine e motocicli in sosta, mentre altri veicoli ora veloci, ora a rilento si muovevano sempre a stento sulla carreggiata.
In quel momento, il viandante, molto attento a non inciampare nei dissesti della pavimentazione stradale, non fece tanto caso a quella voce che forse veniva da uno dei conducenti dei veicoli in movimento sulla via.
Non fece neanche in tempo a fare un altro tentativo per cercare di districarsi e salire definitivamente sul marciapiede, che ancora quella voce ripetè:
“Uffaaa…..aa!!”.
Fece per girarsi e guardarsi intorno per cercare di intuire da dove provenisse quella voce, ma non vide nessuno, anche perché stante l’ora, non erano molte le persone vicino a lui in quel momento.
“Allora non mi vedi? Sono qua” disse quella voce e mentre il viandante ancora perplesso si girava a guardare intorno aggiunse:

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“Sono qua, sotto di te” e con voce molto netta finalmente si presentò:
“Sono io, il marciapiede dove tu stai tentando di salire”.
Il viandante veramente stupefatto lo guardò e disse:
“Perché ti lamenti?”.
“Per lo stesso motivo cha da qualche momento ti sta facendo arrabbiare” rispose il marciapiede.
“Ah si e quale è questo motivo!” chiese il viandante.
“Come, non lo sai?” riprese a dire il marciapiede meravigliato e subito, come per fugare ogni perplessità nel viandante, con decisione continuò:
“E’ da qualche ora, me lo hanno riferito anche i miei compagni, che sei costretto a rallentare i tuoi passi o a fermarti perché tutti i pubblici spazi pedonali o sono occupati da autoveicoli fermi che come in questo caso ti impediscono di salire sul marciapiedi, come tuo diritto, o sono pieni di veicoli in movimento che sfrecciano sulla via e ti impediscono di andare dall’altra parte.”
“Ehhh……. si” rispose il viandante e sempre più rabbuiato nel volto aggiunse: “Sono proprio arrabbiato e non ne posso più, anzi credo a quarto punto di dovere disdire l’appuntamento che avevo con un mio socio”.
Prese subito il telefonino che portava in una delle tasche del pantalone e disse all’interlocutore che non sarebbe arrivato nel tempo previsto e che gli avrebbe telefonato per fissare l’appuntamento per un altro giorno.
Mentre il viandante rimetteva il telefonino in tasca:
“A chi lo dici di essere arrabbiato” riprese a dire abbastanza iroso il marciapiedi e senza che il viandante potesse intervenire continuò:
“Ero stato costruito netto e preciso e, spesso, anche bene levigato per sostenere, in libertà, i passi di tanta gente, ma mi vedo invaso ed oppresso, ogni giorno sempre di più, da queste ruote spesso molto sporche, che non mi permettono di adocchiare mai un poco di cielo”.
Si fermò un attimo e vedendo il viandante intento ad ascoltarlo con voce piena di tanto rammarico riprese a dire:
“E poi tanti motori perdono liquidi e mi sporcano continuamente, senza dire del fetore lasciato dai cani che non controllati dai padroni, facendosi spesso scudo delle ruote di tutte queste macchine, scaricano indisturbati i loro bisogni, mentre ogni specie di sporcizia, si accumula ai miei bordi perché spesso gli operatori ecologici, come si dice oggi, non trovano tutto lo spazio ed il tempo per pulirli”.
Così disse con evidente amarezza, poi accantonando un poco la rabbia per la perduta libertà di essere marciapiede, in conclusione considerò:
“Comunque, per la perdita di questa libertà, spesso mi consolo quando vedo che uomini, oppressori tolgono la libertà ad altri uomini loro simili, i quali spesso non trovano neanche la forza di ribellarsi, per cui cosa posso fare io che sono costretto a stare disteso per terra!”
Il viandante lo senti veramente tanto triste e disse:
“Hai proprio ragione; spesso siamo costretti a subire e non riusciamo a farci valere nei nostri diritti, ad esempio tu nel diritto di farci camminare ed io nel diritto di andare libero con i normali miei passi; purtroppo qualunque cosa che anche noi normali esseri viventi cerchiamo di realizzare, ci troviamo sempre coinvolti dalla invadenza di altri esseri viventi più potenti, o che almeno si credono tali”.
“Sei troppo buono a chiamare tutto questo invadenza” riprese a dire il marciapiede che seguendo la sua filosofia con convinzione aggiunse:

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“Sei troppo buono, ripeto, a dire questo; l’invadenza in verità può anche presentarsi come esuberanza che in genere è una buona spinta a scacciare l’umana apatia, ma se chi è invadente, poi porta a sporcare un marciapiede o porta ad uccidere un essere umano, allora l’invadenza si trasforma in prepotenza ed arroganza e tutto questo e’ l’annientamento del vivere civile”.
Concluse il marciapiede e quasi si ritrasse.
Il viandante era rimasto un momento incantato per come si era svolto quel colloquio e pensieroso per come avrebbe potuto raccontare l’avvenimento, si allontanò proprio mentre un altro veicolo lo sollecitava ad andarsene in fretta perché, proprio la dove si era fermato, c’era un limitato spazio per poter parcheggiare.

 


 

L’onomastico del Signor Cappone

Era stata afosa quella breve notte di mezza estate e nonna gallina aveva potuto riposare poco accanto ai nuovi pulcini, perché era stata in giro per l’aia a prendere quella poca frescura che si poteva godere all’aperto, fuori dal pollaio.
Ma c’era un altro motivo perché il sonno non si era impadronito della palpebre dell’anziana gallina.
All’indomani sarebbe stato l’onomastico di nonno gallo, l’anziano cappone dalla cresta pomposa, dal petto, le ali e le cosce rigonfi di piume, dai passi ad andatura solenne, padre, tutore e guardiano del piccolo pollaio.
Questa evenienza non ricorreva la prima volta, ma nonna gallina era sempre presa da emozione che, non a caso, la teneva sempre nel timore di sbagliare nel fare la torta che tanto piaceva al possente, ma buono cantore delle sveglie.
Così anche questa volta non aveva dormito e vedendo che, oramai, l’alba era vicina, piano, piano movendo silenziosamente le zampe, con fare molto prudente si portò di fianco al pollaio dove c’era un forno, con vari tegami e necessari ingredienti ed incominciò ad adoperarsi, per mettere insieme quanto necessario a preparare la sua torta, divenuta di anno in anno famosa per saziare la gola di nonno cappone che, stante gli anni accumulati, poteva considerarsi anche bisnonno.
Prese la farina avuta in prestito dalla vicina comare formica che già ne aveva accumulata tanta nel suo granaio in vista dell’inverno e la pose in un tegame cosparso col burro avuto in dono dalla vicina comare mucca.
Poi fatto un buco, con la punta della ali, nella farina, al centro, vi versò sbattute dieci uova fatte la mattina precedente dalle sorelle e nipote galline ed al posto dello zucchero vi aggiunse il miele portato l’anno precedente dalle cugine api, mentre il latte gliele avrebbe portato, come ogni mattina, la comare capra che non abitava molto lontano.
In attesa che avesse a disposizione quest’ultimo ingrediente, sempre in silenzio, usando la punta di un’ala, continuò a sbattere bene le uova insieme al miele.
Ma aveva appena incominciato che il più piccolo dei pulcini, chiamato affettuosamente Puffetto perché così presentatosi alla nascita all’apertura dell’uovo che lo conteneva, alzatosi in silenzio, tutto premuroso si accostò a nonna gallina e sottovoce disse:
“Ciao nonnina, sono venuto ad aiutarti”
Nonna gallina lo guadò con tenerissimo affetto e nello stesso tempo contenta per il bel gesto rispose:
“Si mio caro, vieni pure”.
Puffetto si avvicinò e con le piccole ali aiutò a sbattere le uova nella farina.
Intanto si era fatto più chiaro e dopo un rosea aurora, i primi raggi del sole si affacciavano sulle colline lontano.
Tutti i volatili incominciavano a stiracchiarsi le ali come pure le api e mamma regina, senza farsi chiede nulla, ricordandosi la importante data della festa che ricorreva nel vicino pollaio, delle cui pareti erano ospiti, avendo dato vita, in un buco delle stesse, ad un folto vespaio, con solerzia, prese una buona quantità di miele e si avvicinò al luogo dove mamma gallina era impegnata e dove intinte le altre galline più giovani e tutti i pulcini si erano portati.
“Buon giorno cugina gallina nonna” disse la regina ape in volo e si adagiò sulla farina.
Poi aggiunse:
“Come ogni anno, ti ho portato ancora un po’ di miele per la torta che stai preparando al cugino cappone che conosco molto goloso” e lo poggiò su di una grossa pietra poco distante da dove tutti i polli adulti ormai desti ed i pulcini già molto svegli anche loro, lo presero e lo infusero nelle uova già oramai, completamente amalgamate.
“Grazie cugina ape” rispose nonna gallina ed aggiunse:”Sei sempre molto generosa, ma tu in questo modo vizi troppo il mio cappone”.
“Non ci vuole nessun ringraziamento” rispose l’ape e continuò: “ Il nonno cappone si merita ogni tanto un po’ di dolce; intanto sono io a ringraziare voi che ci ospitate nel muro del pollaio, perché in questo vostro ambiente si sta veramente bene e meritate molto di più”.
Poi un po’ turbata concluse:
“Grazie veramente tantissimo; noi che sorvoliamo su ogni posto dell’universo, solo qui riusciamo a trovare tanta tranquillità”.
Così dicendo volò a cercare, insieme alle altre api, tutti quei fiori non ancora succhiati, per cercare altri nettari necessari alla formazione del miele, nell’intento di tornare in tempo per la festa di nonno cappone.
L’ora incominciava a farsi calda ed anche la comare capra dalla vicina sua stalla, arrivò a portare il latte appena munto e quindi prendere parte anche lei alla preparazione della torta dell’anziano brontolone cappone.
“Be…..eheh! Be…..eheh!” Buon giorno disse la capra, appena arrivò nei pressi del gruppo intento a fare la torta; erano tutti completamente svegli.
“Be…..eheh! Be…..eheh!” ripetè la capra ed aggiunse: “Ho portato il latte e questa mattina è più del solito perché deve servire per la torta”
“Bene comare capra ti ringrazio” fece una pausa ed aggiunse:
“naturalmente ti aspetto in pomeriggio per il taglio della torta e porta pure il compare caprone, naturalmente dopo avergli fatto un bel bagno” e scoppiò in una grande risata che coinvolse tutti gli altri abitanti del pollaio, mentre si era fatta rossa in viso”
Ma comare capra non ci fece caso e solerte si allontanò.
Opra tutti gli ingredienti erano pronti; in pochi istanti, tutte le galline, con le loro ali, insieme a Puffetto che non intendeva mai lasciare la nonna, mescolarono ora bene la farina, le uova, il miele con il latte e formarono una bella massa.
Poco distante, gli altri polli adulti, misero del latte ed altre uova in una padella dove erano soliti mangiare, la poggiarono su due pietre in mezzo alle quali ardevano alcuni ceppi lasciati accesi dai contadini che avevano riscaldato la prima colazione e girando il becco tra le uova ed il latte in continuità, in pochi minuti approntarono una sofficissima crema.
Allora nonna gallina in fretta fece spazio in un angola del pollaio dove c’era un spazio di pietra in rialzo, vi pose sopra la massa di farina impastata, chiamò le altre galline e con Puffetto e la bucarono in varie parti con i becchi, farcendola dappertutto con la crema ivi portata immediatamente dai polli.
Si era arrivati così quasi a mezzogiorno e nonno cappone si ritirava dopo il gito di sveglia mattutina e dopo che si era fermato a discutere degli eventi del giorno precedente, con gli amici galli degli altri pollai che, intanto, tutti premurosi, gli avevano fatti gli auguri per il suo onomastico.
Si avvicinava tutto orgoglioso verso il pollaio e la sua cresta era ancora più increspata e rossa, perché anche una sua anziana ammiratrice si era ricordata del suo onomastico.
Appena arrivò sull’aia tutti gli si fecero incontro, la cognata, i figli più grandi, i più piccoli i nipoti, Puffetto che gli saltò sulla schiena ed infine la sua anziana moglie che affettuosamente tubò con lui sussurrando:
“Auguri vecchio mio”
“Grazie mio tesoro” rispose il cappone ora meno altezzoso del solito ed evidentemente commosso, aprì le ali ed abbracciò tutti con tenerezza.
Poi in fretta, nonno cappone si riprese dallo stato di emozione, si rinfrancò e si precipitò ad apparecchiare la tavola.
Le galline più adulte pulirono col becco tutto il pavimento del pollaio dove in genere si mangiava, i polli adulti andarono a prendere il vino messo in fresco nell’acqua del vicino canale d’irrigazione, mentre Puffetto alla testa degli altri pulcini, dallo stesso canale portarono varie piccole ciotole di acqua.
Quel giorno a pranzo furono consumate vari cibi e precisamente antipasto di prosciutto e melone con qualche mozzarella, lasagne al forno imbottite di tuorlo di uova sode, polpettine di carne, mozzarelle e qualche fetta di melanzana; bistecca di carne di vitello con contorno di insalata di pomodoro; sorbetto di limone; pesce al forno e frittura mista di pesce con contorno di insalata verde; formaggio pecorino fresco e tanta frutta, percoche, prugne, fichi, uva, anguria.
Alla fine del pranzo, era già il pomeriggio inoltrato, fu portata al centro del pavimento del pollaio la grande torta, con tanta apprensione da parte di nonna gallina, mentre arrivavano tutti gli invitati.
Quel giorno la torta era più grande del solito; nonno cappone si mostrò felice e mentre Puffetto gli saltava sulle ali, con voce commossa disse:
“ Chicchirichì……i! Chicchirichì…..i! Cari amici e cari parenti, io sono molto lieto per tutta l’attenzione che mi state mostrando e non so se la merito.”
Si fermò un momento per riprendersi dall’emozione e con voce chiara continuò:
“Chicchirichì……..!Vi ringrazio molto e non trovo altre parole per esservi grato, ma vi prometto che fino a quando avrò piena forza, vi assicuro tutto il mio impegno per tutelarvi e proteggervi di giorno e di notte, anche a costo della vita”.
Così disse ed un lungo battiali accompagnò queste parole, mentre tra tanti coccodè e chicchirichì di evviva, una bottiglia di spumante fece frizzare tanto vino che andò a bagnare tutti i presenti.
Poi nonno cappone sempre più emozionato passò la torta alle galline vicine perché ne facessero pezzi per tutti gli invitati, mentre una musica soave intonata dall’alto degli alberi da tutte le cicali anche esse invitate alla festa con la loro orchestra, andava a diffondersi nell’aria solleticata dalla brezza marina.
Allora Puffetto saltò giù dalle ali di nonno cappone sollecitando tutte le zie e cugine galline, nonché tutti gli zii e cugini polli, iniziarono a danzare una fantasiosissima tarantella.
Le api svolazzavano intorno, le formiche incrociavano veloci i loro percorsi, la mucca, la capra, il caprone facevano il loro verso, le lucertole, ultime ad arrivare alla festa, facevano capolino tra le fessure delle pareti del pollaio.
La danza coinvolse tutti ed anche se qualche mosca, attirata dal dolce della torta, infastidiva il naso degli invitati, la festa durò fino a tardi diffondendo allegria e serenità in tutto l’ambiente e perfino la volpe che sempre ogni sera all’imbrunire si presentava e tentava di scavalcare il recinto spinato del pollaio, quella sera non si fermò, andò avanti.
L’armonia che aleggiava nell’aria aveva afferrato la sua mente, le aveva frenato l’istinto di aggressione e vedendo ad un angolo del recinto un pezzo di torta, non pensò che fosse suo, ma lo raccolse e dicendo fra se:
“forse ho continuamente sbagliato ad essere sempre aggressiva con questa gente”, si allontanò lasciando che l’allegria della festa continuasse.

 


 

Un insolito congresso

Filtravano le lamentele fra i vari esseri che vivificavano l’universo e spesso si sentiva sibilare nell’aria:
“Questo nostro principe ora ci ha proprio stufati”.
Erano gli alberi, le piante, le acque, gli animali, l’aria, gli insetti, perfino le pietre.
Si ripetevano tra loro ogni giorno queste lagnanze, tutti i componenti dell’universo di un tempo ormai andato perduto nella memoria degli uomini; era evidente che essi erano indispettiti dagli atteggiamenti oltraggiosi che continuamente l’essere privilegiato a godere dei loro servigi, l’uomo, assumeva nei loro confronti.
Si era questo mostrato agli inizi, affabile, cortese, perfino pieno di premure tanto che le sue azioni, erano tutte improntate al rispetto di quanto gli stava intorno sotto qualsiasi forma.
Sceglieva, infatti, con diligenza i momenti per catturare quelle bestie che volentieri si sacrificavano per la sua alimentazione; curava ogni tipo di pianta per usufruire delle loro essenze medicamentose e dello loro ampie ombre refrigeranti; ci teneva alla limpidezza delle acque per potersi spensieratamente rinfrescare, accudiva alle svariate specie di terreni, per far fruttare, al massimo, la potenziale loro qualità produttiva.
Ma dopo un inizio di vita in comune così confortevole, durante il quale quest’essere privilegiato perché d’intelligenza fornito e gli altri elementi del cosmo si rendevano utili al continuo divenire in perfetta simbiosi, si era poi verificato un inasprimento sempre più deleterio dei loro rapporti di vita.
Difatti l’uomo aveva incominciato ad abusare della sua posizione di preminenza e della intelligenza donategli per organizzare il progresso della vita del cosmo stesso; quindi andava sempre più adoperandosi per distruggere senza ragione ogni specie di animali e di piante per sporcare l’acqua e l’aria tanto che perfino gli insetti più velenosi non resistevano a lungo e morivano.
Di tutto questo stato di cose in verità, ora, gli altri elementi dell’universo s’erano proprio stancati e spesso si domandavano:
“Come mai dobbiamo essere così considerati da un nostro simile! Eppure la posizione di privilegio conferitagli, non l’abbiano mai disconosciuta e sempre siamo stati fedeli sudditi”.
Il malumore così in ognuno di essi andava sempre più crescendo e sempre di più tra di loro se lo confidavano; avevano incominciato per prime l’acqua e l’aria, poi gli uccelli e le piante, quindi gli altri animali e la terra infine tutti insieme tra di loro.
Comunque pur se tra loro essi manifestavano questo scontento, non disdegnavano, tuttavia di offrire ancora al loro signore, la possibilità di ricredersi e di modificare il suo comportamento, nei loro confronti.
Infatti più di una volta s’erano accordati ed insieme avevano collaborato affinché la terra divenisse più feconda: si auguravano che il principe, l’uomo, avendo la possibilità di soddisfare meglio le sue esigenze di sopravvivenza, si saziasse e si distraesse dalla sua avventata condotta.
Ma anche questa insolita generosità, non portava il principe verso più savi comportamenti, anzi pare che si irritasse di più tanto che s’industriava perfino, a distruggere le quantità di beni in più che gli venivano offerti.
A questo punto, l’acqua, l’aria, gli uccelli e tutti gli altri avevano raggiunto il limite della sopportazione e così ogni giorno di più covavano contro di lui una profonda e sentita ribellione.
Questa, è da dire, era da prevedere catastrofica, perché non veniva concepita ed attuata in un solo momento, come reazione immediata ad un torto subito, ma meditata e sentita profondamente

da elementi non soliti a commettere soprusi, bensì abituati a sprecare azioni di bene per le quali non erano mai stati non solo ricompensati, ma neppure presi nella dovuta considerazione.
Comunque la loro rabbia non cresceva tanto perché colui che riceveva le loro gratifiche non era riconoscente, quanto perché questo si era dedicato a lottarli e quindi a distruggerli.
Di conseguenza se avessero deciso, alla fine, di ribellarsi, l’uomo, il principe, non avrebbe potuto aspettarsi che distruzione totale.
Di questo aveva avuto sentore, proprio per il suo fiuto famoso, uno dei tanti elementi del cosmo, il cane che comunque era molto vicino al principe tanto che Fido veniva di solito da tutti chiamato.
E spesso Fido nelle sue scorribande tenute insieme al principe, specie durante la caccia, tentava di far notare la grandiosità dell’universo e gli andava dicendo:
“Mio nobile signore, quanti bei momenti felici trascorriamo insieme, se riusciamo a sentire, serenamente, il profumo dei campi, a respirare tutta questa aria pulita, a dissetarci tranquillamente dopo la corsa”.
“E’ vero” rispondeva il principe svagatamente, “ma non badiamo a tutto questo” continuava, “altrimenti ci perdiamo in inutili considerazioni; continuiamo in fretta la nostra caccia, perché il nostro lavoro ci aspetta là in città dove dobbiamo continuare a costruire il nostro benessere, altrimenti si rimane tagliati fuori”.
“Ma caro padrone” riprendeva Fido “sì è vero che dobbiamo badare a continuare la nostra vita, ma se la compiamo nel modo che tu intendi, finiremo allora di avere questi attimi da trascorrere in questi limpidi spazi oramai già molto limitati; infatti tutti gli elementi dell’universo potranno ribellarsi e quindi sottrarti tutti i beni accumulati”.
“Non annoiarmi coi tuoi soliti futili discorsi” rispondeva il principe “non mi sono mai piaciute le prediche” poi aggiungeva, “sono solo io che decido e non ho alcuna intenzione di ascoltare te che sei un mio suddito; ritorna al tuo ruolo e non tediarmi”.
Dopo simili discussioni, Fido rimaneva imbronciato, ma d’altronde era un suddito, non poteva fare altro che ubbidire e sopportare: aveva qualche volta tentato di rintuzzare il suo signore, ma ne aveva sempre avuto brusche e volgari risposte.
In sostanza tra Fido e il suo signore esistevano rapporti di comportamento democratico, ma il potere decisionale era del signore ed i consigli, pure buoni, suggeriti da parte di chi il potere non ha o di chi non ne accetta gli effetti incondizionatamente, non possono essere affatto presi in considerazione.
In conseguenza di ciò, in quelle circostanze sempre più tese, venutesi a creare tra tutti gli elementi dell’universo ed il loro principe, Fido aveva deciso di fare solo il suo dovere, anche se con distaccata dignità; eseguiva ogni ordine del principe solo perché veniva da questo sfamato e quindi gli doveva una prestazione.
Pertanto quando tutti questi elementi, acqua, piante, aria, animali lo chiamarono per dargli l’incarico di portarsi ambasciatore presso il principe e tentare di convincerlo a migliorare i suoi rapporti con essi, Fido non fu affatto entusiasta, anzi voleva rinunciare all’incarico.
“Ma… Fido” ribatterono gli elementi della natura tutti insieme, “come mai ti rifiuti di aiutare il tuo signore? Eppure vivi sempre con lui, sei il solo a stargli sempre vicino ed il solo a ricevere in cambio qualche cosa, per i benefici che gli dai”.
“E’ ingrato il compito che dovrei svolgere” rispose Fido, “non perché non ne sia onorato, anzi la mediazione mi piace, ma proprio perché sono vicino al principe, lo conosco bene, so come la pensa e so già le risposte che mi darà”.
“Allora è proprio così cattivo questo essere dotato di sapienza” ripresero sconsolati gli interlocutori di Fido “eppure è un principe, il nostro principe; la nobiltà d’animo, data la sua preparazione, dovrebbe qualificare tutte le sue azioni”.

“E…! Amici miei”, riprese il cane, “la sua intelligenza, la sua preparazione, invece di portarlo a valorizzare tutto quello che noi facciamo per lui, lo rendono superbo fino a fargli pensare che tutto quanto da noi riceve, sia suo diritto; egli bada solo alla realizzazione della sua vita e fino a quando non l’ha ottenuta, è peggio per coloro che gli stanno intorno, per i quali è la fine, se non si adeguano alle sue decisioni…
“Lo dicevo io” interruppe un albero tutto rinsecchito in quanto per la costruzione di una delle case del principe, si era visto tagliare una parte delle radici, “vedete come sono stato ridotto per la realizzazione di una sua azione avventata”.
“Allora cosa dovrei dire io” soggiunse un corso d’acqua “ero così pulito e fresco, vedete ora invece il colore indefinito che il nostro principe mi ha dato per accrescere sempre più il suo benessere”.
“Lo sappiamo” s’inserì sottilmente l’aria “quello che ci sta facendo il nostro signore, ma tentiamo ancora una volta di fargli sentire quali sono i buoni comportamenti per condurre le azioni di vita, per cui prego Fido insieme a tutti gli altri elementi” e così dicendo mostrava tutti i suoi colori, tutte le specie di animali che si erano radunati, tutte le specie di acqua, tutti i colori ed i profumi delle piante e sempre convinta “va ti prego ancora” si rivolse al cane “va a dirgli che il gran consiglio di natura lo invita a cambiare i suoi atteggiamenti altrimenti deciderà la sua fine”.
Fido era perplesso perché già sapeva come il principe era predisposto verso di loro e certamente non sarebbe stato lui a cambiare idea.
Però visto che tutti gli altri elementi insistevano e poiché non voleva essere lui, con il suo comportamento refrattario, a permettere la decisione del gran consiglio di natura, non convinto, ma speranzoso si avviò verso la casa del principe.
Dove trovarlo, nella residenza di campagna, di montagna o di città… andava pensando strada facendo Fido, mentre rifletteva che il suo padrone, pur infingardo dei consigli datigli durante le varie partite di caccia perché evitasse, con il suo agire, la possibile fine degli elementi di natura, si era comunque sistemato al meglio nel grembo degli stessi, sfruttando tutta la loro incandescenza.
Ora, constatando che era inverno per il freddo che a stento sopportava e visto che il giorno si stava imbrunendo per la quinta volta dopo che il padrone era rientrato dall’ultimo week-end, si convinse che era venerdì pomeriggio per cui fece tutto di corsa il tragitto perché si trovasse a casa prima dell’arrivo del principe in modo che potesse parlargli prima che partisse di nuovo per un altro riposo di fine settimana da trascorrere nella casa di montagna.
Tutto ansimante il cane arrivò a casa e da come era tutto pronto per la partenza dedusse che il suo padrone non era ancora andato via quindi, si adagiò su di una poltrona ad aspettarlo.
Infatti di lì a poco sentì la porta aprirsi; era proprio il principe che tutto euforico: “Ciao, Fido” gli gridò “beato te” poi aggiunse “che te ne stai qui al caldo ed io invece devo andare sempre in giro per procurarci da mangiare nonostante tutto questo freddo; meno male che gli affari vanno bene” gli fece una carezza e fischiettando si avviò verso il bagno.
Fido balzò dalla poltrona e gli si mise davanti a lambirgli i pantaloni, a saltellare, a guaire per far capire al suo principe che gli doveva parlare.
Ma questi era troppo allegro, non badava a quello che il cane faceva e pensando che fossero solo moine gli disse:
“Via Fido… via, lo so che mi vuoi ringraziare per quello che faccio per te, ma non è il momento; ho premura e poi oggi sono troppo allegro perché ho fatto il migliore affare della mia vita”.
Fido non ascoltava queste parole e cercava invece di tirare il principe verso il salotto, dove spesso stavano insieme, ma non gli riuscì perché il principe non seguì i suoi movimenti ma nazi infastidito gli disse: “fido ho detto di no; non ho tempo, anzi vieni con me nel bagno così mi aiuti a pulirmi mentre potrò raccontarti”.

Il cane era imbronciato ma visto che il suo signore era irremovibile lo seguì pensando che, forse, mentre lo aiutava avrebbe potuto fargli l’ambasciata.
Entrarono nel bagno ed il padrone, come aveva detto, pur vedendo che Fido stava lì, come per supplicarlo, perché lo ascoltasse, cominciò:
“Aspetta un momento, ora mentre mi aiuti ti dirò prima quello che mi è successo e poi mi racconterai i tuoi problemi”.
Così mentre gli dava ordini:
“Fido il sapone… Fido l’accappatoio… Fido le pantofole” il principe incominciò a raccontare al suo cane che era riuscito ad avere un’altra delle sue licenze di costruzione e questa volta in un posto veramente meraviglioso.
In verità c’era da tribolare un poco perché questo luogo era su di un folto promontorio e quindi bisognava tagliare rocce, sradicare alberi ed erbe medicamentose, uccidere animali, ma il costo di tutto ciò sarebbe stato minimo di fronte a quello che avrebbe realizzato dopo la costruzione di numerosi appartamenti.
Infatti il padrone di Fido era un costruttore edile, uno dei più potenti e famosi perché era sempre riuscito a costruire dove altri non avevano potuto; so, era molto amico di persone arbitre delle decisioni della vita dell’universo ed era diventato un vero e proprio distruttore specializzato di tutti gli elementi del cosmo dove si portava a costruire.
Egli inoltre possedeva alcune fabbriche alla periferia della città e sempre per via di quelle conoscenze, era anche riuscito a sporcare acque, aria, campi perché mai si era imposto e nettampoco gli avevano fatto obbligo di rispettare le norme stabilite per rendere meno dannosa la sua attività, all’umanità.
”Vedrai Fido”, concluse mentre s’era dedicato a levigarsi il viso con sofisticati emollienti infiltratigli nella mente dalla più recente pubblicità, “sarà un affare che ci arrecherà immense… soddisfazioni e alla fine, qui, in questo stesso meraviglioso posto dove ci porteremo a costruire, io e te ci ritireremo, per tutto il resto dei nostri giorni, a goderci tutti i nostri averi”.
Fido era contrariato, avvilito e veramente stufo di stare alle dipendenze di un simile essere che intanto era uscito dal bagno e stava infilandosi i pantaloni in salotto, ma se rimaneva ancora lì era perché doveva compiere la missione affidatagli.
Di conseguenza continuò a servire il suo principe e mentre gli stava portando l’altra scarpa, per attirare la sua attenzione già in vacanza, decise di trattenersela in bocca, andando ad accovacciarsi sulla poltrona di fronte a quella dove era seduto il suo signore.
“Su Fido, dammi la scarpa” diceva questi, nel frattempo che si allacciava l’altra, “portala che ho premura” continuava e non sentendolo arrivare “…ma dove sei andato a finire” aggiunse alzando gli occhi e vedendolo in poltrona… “ah sei lì al caldo; hai ragione, fa freddo; ma dammi la scarpa perché ho veramente tanta premura”.
Il cane lo guardava con la bocca aperta e la lingua fuori, quasi per schernirlo e fissandolo negli occhi non si muoveva.
Allora il principe, pur arrabbiato, non fece alcun cenno di isterismo, anzi gli sovvenne che quando Fido usava certi atteggiamenti, doveva dire qualcosa e ricordandosi che appunto il cane doveva parlargli:
“Già” soggiunse, “tu devi confidarmi un tuo pensiero; non avrei tempo, ma visto che sei stato bravo, vieni, portami la scarpa e parlami”.
Fidò saltò sul divano e si avvicinò al principe, gli pose accanto la scarpa e si mise di fronte seduto.
“Allora dimmi” riprese il principe “che cosa posso fare per te?”.
Fido però non si muoveva e continuava a fissare il suo padrone.

Questo insisteva per farlo parlare, ma avvicinandosi per invogliarlo con una carezza, notò negli occhi del cane, uno sguardo di rimprovero come già altre volte in precedenza ed allora intuì subito cosa Fido dovesse raccontargli: si trattava proprio di quei discorsi che facevano durante la caccia, e certamente quella non era la sera adatta per ascoltarli.
Infatti più annoiato che arrabbiato si alzò di scatto e con voce lagnosa esclamò:
“O…h no…! Questa sera ti prego lascia da parte i tuoi discorsi, ne parleremo un altro giorno” e si avviò verso il guardaroba.
A questo punto Fido balzò dalla poltrona e incominciò a girargli intorno in qualsiasi posto il principe si portava, tirandogli con i denti i lembi dei pantalone, per cercare di fargli capire l’importanza di quanto quella sera doveva dirgli.
Ma non fu possibile fermare in alcun modo il padrone che, sempre più esaltato, si infilò la pelliccia, prese Fido tra le braccia e si portò sulla strada verso la sua lussuosa autovettura, per andare a trascorrere più allegramente del solito, il fine settimana.
A questo punto, mentre stava per aprire lo sportello della macchina, il cane che aveva già preso la sua decisione, si divincolò e scappò via.
“Fido! Fido!” gridò il principe, infuriato soprattutto perché gli venivano a mancare preziosi minuti per i suoi divertimenti, “vieni! Torna subito indietro! Non ti posso aspettare” e, non vedendolo tornare, aggiunse “fai come vuoi, io me ne vado: sei stato fuori casa tante volte per conto tuo, ci starai anche questi giorni” si mise in macchina e con il solito rombante rumore di marmitta, andò via.
Fido dall’angolo del marciapiede lo vide volare lontano e lo seguì con lo sguardo fin quando gli fu possibile, poi deciso e sicuro per la scelta fatta, ancora più triste di come era venuto in città, tornò nel luogo dove erano insieme riuniti gli altri elementi di natura per decidere, in base alla risposta del cane, se dovevano continuare la collaborazione con il principe oppure ribellarsi e quindi condannarlo.
Lo intravidero arrivare e subito si accorsero che era triste con la coda abbassata, le orecchie molli e lo sguardo per terra, mentre lentamente si avvicinava all’incantevole luogo della riunione.
Questo, infatti, si trovava alle pendici del piccolo colle che dominava la città in un giardino immenso dove ancora l’aria pulita inebriava le piante e gli animali, dove l’acqua profumava per la sua limpidezza ed il sole ed il cielo si facevano ancora vanto del loro splendore.
Faceva un po’ freddo, perché si era appunto d’inverno ed erano ormai dodici ore che essi stavano in consiglio, ma il sole appena tramontato, quel giorno, aveva lasciato nell’aria un tenue tepore, trattenuto ora all’ombra della sera dal Fuoco che si levava al centro del giardino in un lungo falò, ravvivato continuamente dal leggero alito di Zeffiro.
E fu proprio quest’ultimo che per primo sottovoce chiese a Fido: “Quali notizie ci porti? Come si è comportato il principe? Cosa ha risposto al nostro messaggio? Lo hai consigliato di non usare più prepotenze e di venire ad un accordo con noi se vuole ancora la nostra collaborazione?”
Fido non rispose e sempre più turbato si portò al centro del consiglio ed esausto, non per il viaggio ma per la missione non riuscita, si accasciò al suolo e non gli venne di dire neanche una parola.
Tutti i convocati in congresso capirono; ma prima di decidere volevano almeno sentire cosa aveva detto il principe, o meglio come aveva reagito al loro invito.
Intanto però in loro, era sopraggiunta una certa stanchezza e, visto che ormai era notte inoltrata, convennero tutti di andare a riposare, anche perché il riposo, per tener fede a quanto si dice, li avrebbe tutti rasserenati: cosa molto importante dal momento che bisognava decidere della vita di uno di loro.

Così fu, gli animali si ritirarono, il vento si fermò, le piante si dedicarono completamente alla fotosintesi, il cielo si velò di umidità la quale più tardi provvide anche a spegnere la fiamma del fuoco.
Al mattino, di buon’ora, svegliati dal primo canto del gallo, si ritrovarono di nuovo in consiglio allo stesso posto, rimasto ancora caldo perché, come suo solito, il consigliere Fuoco, all’umidità non si era spento, ma era rimasto assopito sotto la cenere.
Infatti subito il vento lo svegliò ed alla sua luce ed a quella delle stelle e della luna vennero ripresi i lavori.
Fido fu subito chiamato al centro del consiglio e gli vennero rivolte alcune domande.
Il cane non rispose, ma latrando, latrando se ne tornò al suo posto. A questo punto tutto fu chiaro alla mente degli altri congressisti: il principe non aveva dato ascolto al messaggio portatogli dal cane per cui, ad essi, non rimaneva che ribadire la loro decisione e formalizzarla in verdetto di condanna.
Intanto l’alba era spuntata ed aveva assistito alla scena recitata dal cane e ne aveva tratto dopo le varie angherie subite, le sue conclusioni, per cui avendo premura, si doveva infatti allontanare, quando si aprirono le votazioni, fu la prima a pronunciarsi:
“Morte al principe” disse “ed a tutti i suoi simili” e si allontanò.
Si era espressa anche a nome della luna e delle stelle, le quali avendo dovuto lasciare il congresso, s’erano già consultate con l’alba e l’avevano incaricata di pronunciare il loro verdetto di morte.
Negli stessi termini si pronunciò il Fuoco che intanto andava a cedere il posto al Sole già affacciatosi in cima al monte.
Quindi pronunciarono la stessa sentenza l’Aria, il Vento ed il Profumo delle piante e dei raccolti, delle erbe medicamentose che, pur se andavano riscaldandosi al Sole che sempre più luccicava, furono ancora più freddi nella loro determinazione: da un po’ di tempo avevano dovuto subire l’umiliazione della distruzione che il principe, nonostante fosse affamato, aveva loro inflitto.
Allo stesso modo, a mezzogiorno, sentenziò il Sole dal centro della volta e successivamente la Brezza pomeridiana, le intiepidite Acque del mare, le fruscianti Acque dei fiumi e delle sorgenti.
All’imbrunire, infine diedero la stessa sentenza Zeffiro e gli animali che parlarono tutti tramite il loro re che era anche presidente dell’assemblea.
S’alzò infatti questo al centro del consiglio e, solenne negli atteggiamenti, disse:
“Fratelli tutti, ho ascoltato molto pensieroso tutte le vostre espressioni di voto. Le ho valutate con molta attenzione ed in tutti voi ho notato sempre, mentre parlavate, un profondo senso di acredine misto anche a compassione ed io non posso che convenire.
Il gradito incarico di presidente che mi avete conferito in questo congresso, mi ha permesso di constatare che in questi ultimi tempi molto è cambiato in colui che pur volemmo nostro principe.
Era parecchio tempo che non mi interessavo delle sue gesta perché, in seguito a precisi accordi presi all’origine del mondo, ci eravamo divisi un po’ i compiti.
Infatti era logico che per la dote avuta in più, l’intelligenza, l’uomo organizzasse anche la nostra vita conciliandola con i suoi interessi però chiesi ed ottenni, come sapete, di organizzare tutta la fauna, senza alcuna ingerenza altrimenti con la mia forza lo avrei annientato.
Dapprima recalcitrò un poco, poi visto che comunque, se faceva il prepotente, poteva soccombere, mi diede il permesso, mi rilegò nella giungla e pur facendosi ogni tanto vedere per scontri che, sostenuti lealmente, lo vedevano quasi sempre perdente nonostante i diabolici mezzi a disposizione fionde, armi, reti, se ne è stato per suo conto.
Ora però ritenta d’infastidirmi, distrugge giungle, foreste ed il suo modo d’agire è davvero molto cambiato perché la sua intelligenza non lo spinge più a lottare faccia a faccia, bensì si è raffinata e lo porta a colpire sempre con maggiore viltà.

Non scorgo più un principe un essere pur d’intelligenza dotato, disposto a leali competizioni, ma sempre vilmente, spesso senza alcuna spiegazione, pronto lo trovi a tenderti gli agguati ed a toglierti la vita. Così non solo con noi ma anche con i suoi simili: poi noi siamo le belve!
Vogliatemi scusare, ma queste sono considerazioni che ero in dovere di fare sia come responsabile della fauna sia come presidente di questa assemblea e di conseguenza il mio verdetto è: morte al principe, all’uomo perché non intende vivere in armonia, perché a ridotto tutti noi esseri essenziali all’equilibrio della vita del cosmo, nella nullità, perché ha approfittato della sua posizione sfruttandoci senza pudore, senza mai considerare che, se le nostre risorse venivano usate, dovevano poi anche essere rinvigorite.
Queste ora sono alla fine e con esse deve finire chi non le ha sapute valorizzare nel tempo.
A questo punto all’umanità sentenzio che oggi, uno dei giorni alla fine del XX secolo, il primo congresso di tutti gli elementi del cosmo ha stabilito morte al principe di essi per sfruttamento sconsiderato e continuo,
Vi invito pertanto a raccogliere tutte le vostre forze maligne onde poter dare precisa esecuzione alle decisioni di questo congresso.
Prego il segretario del congresso, la signora Giraffa, a stendere minuziosamente l’intero verbale della seduta ed a conservarne gli atti in modo che possano essere tramandati, per modello, nel tempo e poi si dia corso all’esecuzione,
La seduta è sciolta.
Si chiuse così un congresso insolito e per la varietà dei partecipanti e per la precisa conclusione avutasi: da tempo infatti non si registravano congressi che alla fine presentassero delle decisioni da poter poi tradurre in concrete azioni.

 


 

La conchiglia arenata

Una volta era d’inverno e da solo passeggiavo sulla sabbia lungo il mare. Faceva freddo ed io ero ben coperto con giaccone a vento, il cappuccio in testa e calzavo scarpe alte con pianta di gomma per non bagnarmi.
Infatti soffiava un vento di maestrale ed il mare era molto mosso tanto che si inoltrava quasi su tutta la spiaggia e bisognava stare attenti per non bagnarsi, ma io portavo appunto scarpe molto protettive, i pantaloni erano all’interno delle stesse e con il naso e gli occhi appena fuori dal cappuccio della giacca a vento, camminavo tranquillamente abbandonando i pensieri al fruscio del vento ed all’ondulante rumore delle mare.
Vari diversi e piccoli detriti venivano depositati sulla sabbia dalle onde e tra questi un gran numero di conchiglie, di varia grandezza.
Ad un certo punto mi trovai su di un ansa della spiaggia un poco più sollevata verso l’interno della spiaggia, vicino alle cabine chiuse data la stagione.
La’le onde avevano depositato un buon numero di conchiglie e notai che una di queste alquanto grande, ma leggermente rotta nella parte inferiore, ancora molto bagnata, cercava di portarsi verso la sabbia più asciutta, vicino alle cabine.
La notai, ma non feci tanto caso al suo movimento tanto che indifferente continuai la mia passeggiata.
Mentre la superavo, vidi che la conchiglia con un grande balzo si avvicinò verso una della cabine e nello stesso tempo sentii come un sospiro di sollievo intorno a me.
Sollevai con le mani il cappuccio della giacca a vento che mi copriva gli occhi lo allargai un poco per liberare le orecchie, mi fermai, mi misi ad ascoltare con attenzione, ma intorno solo il rumore della onde e del vento che tagliava sicuro l’aria.
Mi strinsi di nuovo il cappuccio della giacca intorno alla testa e ripresi a camminare, ma non feci un passo che ancora un sospiro che proveniva proprio dal posto dove la conchiglia si era posata, la quale con un altro balzo si era portata sul cemento del corridoio di accesso alle cabine.
Allora mi avvicinai, mi accorsi che la conchiglia con un sospiro più leggero quasi voleva addormentarsi.
Ero molto meravigliato e così, spontaneamente, mi venne la voglia di parlare e non rivolgendomi direttamente a lei, come per parlare nel vuoto per accertarmi che qualcuno potesse ascoltarmi, dissi:
“Oh tu che vien….”
Non finii questa parola che proprio la conchiglia mi interruppe:
“Siiii….dimmi navigante”
A questo punto non ebbi più alcun dubbio, la conchiglia parlava ed allora mia curiosità di sapere, di marosi e di fondali, straripò dalla mia mente.
Così cercai di sedermi su di uno spigolo di cemento vicino a lei, la sulla passatoia delle cabine ed incominciai:
“Ohh conchiglietta venuta qui dal mare, ancora qui tutta bagnata, io sono molto voglioso di sapere, proprio da uno dei suoi abitanti del mondo in cui tu vivi”
“Sì parla pure, chiedimi, posso ancora parlare anche se mi noti un pò rotta nella mia rotondità”
Ed io incominciai a chiedere:
“Oh conchiglia venuta dal mare sospinta qui dalle onde che continue si ripetono, dimmi del mondo discreto e nascosto tra i flutti impetuosi tra alghe e licheni, dimmi dei palpiti dei piccoli pesci a stento sfuggiti ai grossi bocconi, dimmi della grate dentate e lucenti delle balene”
Mi guarda incuriosita la conchiglia, era molto interessata e non mi interrompeva e così
sempre più invogliato continuai:
“Dimmi dei guizzi improvvisi dei goliardi delfini e raccontami dei trasparenti colori filtrati dal sole tra il plancton vitale, misti alla luce sprizzante di vita della vanitose meduse, o riflessi nel rosa di corollate costiere o nel bianco prezioso di perle sbucate dai gusci predati dalle acide intenzioni”.

Era molto perplessa la conchiglia; quasi volesse dirmi come facevo a conoscere tutto quel mondo così segreto avvolto nel verde o nel blu chiaro o nel blu scuro o nel grigio melmoso, ma non si fermò più di tanto in questo pensiero e scuotendosi l’acqua da dosso si donò più comodamente al sole che intanto era sbucato dalla nuvole, con espressione alquanto amareggiata incominciò:
Caro navigante, sono qui perché ero stanca, ma proprio stanca di stare in silenzio da secoli, ero stanca di rimanere tra i muti convivi ed allora profittando degli impetuosi”tornanti” delle onde, sono qui giunta” si fece seria per scovare i nuovi eventi della vita umana, i cui echi giungono sugli ombrosi fondali, impotenti a ricevere ogni tipo di oggetto rifiutato dall’altro”.
A questo punto la sua espressione di serietà si velò di amarezza e continuò:
Qui sull’orlo dell’onda spesso è allegro il vocio di umani, vitali segni, però nel riposo che prende
la stanchezza dei corpi e dei pensieri, evidente si mostra il tristo andare delle umane genie, i cui sordidi disegni poi calano in fondo al mare.
E sempre più seria ed amareggiata senza che la potessi interrompere in sostanza diceva il vero continuò:
“Ora ho capito la tristezza dell’umana vicenda; troppo sperduti sono gli sguardi umani, in pretenziosi pensieri incapaci di rendere alla vita momenti sereni e scialbo è il sorriso, segnato da violenze ed arroganze”.
Non si fermava un momento nel parlare, non c’era spazio di tempo per interromperla, era come un fiume in piena nel dire:
“Questo non è il modo di condurre rapporti tra intelletti che pensano perché alla fine, succede, come nel mare, il grosso animale, soffoca il piccolo. Non vedo qui intorno situazioni diverse da questi comportamenti, perfidie ed inganni travagliano la vostra vita senza che nulla si può fare, ed allora ho deciso” mi guardò con tristezza “ ho deciso, pur se qui il calore diretto del sole ogni tanto, può rendere tanto calore alla vita, tanto non viene capito; ritorno nel bagnato a passare il mio tempo, dove conosco i metodi per affrontare le mie avventure”.
Detto, senza che potessi dire o fare qualcosa per convincerla a restare, approfittando di un lungo ritorno del moto delle onde, nei flutti voraci si allontanò, lasciandomi solo a pensare quali fossero i migliori pensieri, per mettere insieme i passi, per andare tra le genti.