Giorgio Argenta - Poesie

Primavera

Schiacciato
Sotto un lembo di infinito
Ospiti inattesi ma graditi
Attendono le mie cure:
Due gerani e due violette.
Bimbi curiosi e colorati
Guardano in alto
E salutano, birichini
Ondeggiando nella brezza
Stormi di rondini
Armonie di voli
Nel chiaro orizzonte
Disegni già noti
Sui tetti e sui camini
Un’ombra ratto s’allontana
Ma sorrido con voi
C’è promessa di pioggia
Corre sulla pelle
La fresca tramontana

 

 

 

I ragazzi

E se avessero ragione loro?
Ragazzini si tuffano,
Urla e risate
Scroscio di sottofondo
Riflessi d’argento
Sulle onde frastagliate
Scricchiolio di sassi
Sulle rive del torrente
Ora grosso e orgoglioso
Di pioggia recente
E se avessero ragione loro?
Cosa vado cercando, io
Ma quale tesoro nascosto
Se un cielo puoi guardare,
Se un’acqua puoi ascoltare,
Se dalla natura
Puoi farti cullare?
Ma avranno ragione loro?

Siedi qui, accanto a me
Fa passare il vento d’estate
Non fa male, è caldo
Guarda gli alberi dire di sì
La terra millenaria
Qui si sfoga e ti racconta
Di sua gioventù
Della vecchiaia dell’uomo
Di avventure intrecciate
Nella ricerca
Sempre utile sempre vana
Di cose ritrovate
E di nuovo perdute
In un attimo di giornata storta
Ma guardali ridere e sguazzare
E ti accorgi, che ancora
Abbiamo da imparare.
Hanno ragione loro!

 

 

 

Catene

Catene di mani, Catene d’amore
Che stringono forte
Ma senza dolore
Grattano uno sforzo
Le catene dei monelli
Biciclette in curva
Sole d’estate
Libertà
E vecchi ritornelli

Catena umana
Catena che s’offre
Una parola, un aiuto
Per deporre
Un re cocciuto
Catene sì
Ma non ai polsi
Catene per unire
Per vedersi per capire

Catene già qui
Catene per sempre
Han le facce di noi
Che sia maggio o novembre
Facciamo catena?
Catene sì
Non pesano sul cuore
Mille mani a sventolare
Eterna voglia di cambiare

Catene d’amici, Catene d’amore
Ecco le catene
Cui bisogna voler bene
Che importa,
Se ti trovi su una vetta
O ramingo in mezzo al mare
Queste catene
Sono da amare, e tu mai,
Mai non le spezzare

 

 

Risveglio

Forme di sogno, brutte creature
mi stringono d’improvviso,
mi sento circondato, mi sento deriso
Demoni vogliono mettermi alla prova
e mi dicono: sei povero e fallito,
conta di più un nostro dito!
Dov’è il tuo oro?
Dove sono le tue ricchezze?
Volti senza faccia ridono,
una risposta a tono attendono.
Non vi deluderò. Ecco ciò che vi dirò.

Ho aperto la finestra, e ho salutato
l’aria fresca e serena
del primo giorno di primavera
Ho assaggiato una piccola gioia
in un pezzo di torta fatta da me
Basta davvero poco, talvolta
per sentirsi Re. Nonostante tutto,
ho trovato un briciolo di fortuna
Per poter uscire
E ho camminato in mezzo al verde
Natura che parla, Natura che consola
Ogni Anima non deve sentirsi sola
Ho visto le nuove gialle infiorescenze
Ho visto le allegre, accese viole
discutere nella rinnovata erba
tra tanti fiori rossi
di cui proprio non so il nome
Le prime rondini ritrovano il nido
In una segreta speranza io confido
Vedo la vita continuare
Magia dei giorni
Sacra la voglia di respirare
Rendo Grazie per questo Omaggio
Oh maledetta qualunque minaccia
voglia tutto ciò tenere in ostaggio!

Eccovi, o stolti, il mio oro.
Ecco, o sperduti cani, le mie ricchezze.
E se pensate, o demoni putridi,
che tutto questo sia nulla o poco,
tornatevene pure a ridere,
vuoti nel vostro fuoco
Macinatevi quelli del senno di poi!
Io, mi sento mille volte
molto più ricco di ciascuno di voi.

 

 

 

Pausa

Ore nove, macchinetta del caffè
Enigma di plastica bollente
Noi parliamo, lui si beve
I discorsi zoppicanti del presente
Io sono qui, la testa non lo so
Quanto manca alla pensione,
Chi ci capisce, che ne so
Un giorno bene ci guarderò

Con me, due colleghi un po’ svasati
Ridere, scherzare
I tempi andati da rivangare
Quello là già mezzo fulminato
Chissà poi dove l’han mandato
E ci si poteva pur toccare
Ora tutto proibito, saremo conciati
– Siamo conciati! –

Così si brucia un quarto d’ora,
L’unica cosa che al passato
Somiglia ancora. Bisogna tornar su,
Finire ciò che resta.
Del nostro piccolo mondo,
Stanchi eroi. A dopo…
Attende tacita il domani
Una piccola parentesi

 

 

 

Monte Sperone (*)

Volteggia placida la nera poiana
Dice “Vieni, vola assieme a me”
Ma già lo sto facendo
Passa una farfalla
Alle sue ali m’appendo
Basta non guardare troppo giù

Quel lago!
Così lungo di strada
Ora una goccia
Appena tinta di blu
Silenzio e Pace come solo quassù
Tra le vette rugose e grigie
Una nube sgomita
Si allontana e svanisce

Croce da alzare la testa
E un quaderno senza una penna
Non posso scrivere “io c’ero”
Il sereno ha firmato per me
Mi sdraio sull’erba
La testa su un cuscino di roccia
Due amici in parapendio
Quanto azzurro sopra di me

Chi ha voglia di venir via?…
Forse più tardi
Ma ora no
Guardo una nube passare
M’immagino lassù
Mi lascio trasportare
(*) Piccola, suggestiva vetta nel cuore delle Dolomiti Bellunesi

 

 

 

La stagione

Fotogrammi vecchi e già passati,
mai del tutto dimenticati
Nella memoria, gli stessi giorni

Come corre questo tempo,
come cambia in fretta la stagione!
L’aria già più fresca della sera
che presto giungerà
Sulle vette, le rocce
a reclamare un po’ di rosa
Sulla collina
Un’erba stanca s’inchina
assetata di pioggia
E’ settembre
E’ silenzio
Cammino nel sentiero
che mi riporterà
nel mondo delle persone

Arcaiche parole sbuffano,
alte sopra di me
il bosco già sa, e attende
i giorni calmi
e i colori d’autunno
Un piccolo tonfo:
cade acerbo qualche riccio
nel sottobosco
tappezzato di fragoline.
Sopra un balcone, pigro gattone
gira lento la testa
A Ponente
tra strisce di giallo vapore
il tramonto

 

 

 

Il lago di Alserio (*)

“Quanto sai attirare!
Che voglia acerba, che tentazione!
Per un giorno tutto abbandonare
E sereni sulle tue rive, senza pensare…”

Come vorrei condividere con voi
Questo sentiero!
Sembra una tela
Non ancora impregnata
Dei colori di fine stagione
E sasso dopo sasso
Mi porta giù al paese
Dove un vecchio amico attende.

È lui il lago della mia infanzia!
Magia lontana, magia da vicino
Vedere,
Con gli occhi di bambino
I riflessi scintillanti
Delle onde nel mattino
Così lontane da sembrare ferme
Mai lontane nel tempo, però.

Eccomi. Nel cielo in bianco e nero
Si rincorrono le nubi
Scherzano a passarsi i raggi
Rubati al sole
Ma non si cura di loro
L’austero viale di ghiaia,
Re di quiete già spezzata
Dal canto di allegre amiche in coro

Su queste rive, talvolta
Echi di battaglia
Opposte fazioni oggi ridono dietro
A un pezzo di Storia, ma lei
Pettina seriosa la sua memoria
Questione di principio
Tra un imperatore dalla Barba Rossa
E italici Comuni alla riscossa

Ma ora è pace! Placido,
La tua calma m’irradia.
Guizza una trota in profondità
S’imbosca nel canneto il cigno
Un cane lento si ferma, e osserva
Il rosso tramonto colora l’acqua
La brezza tiepida e silente
Fa tremolare le foglie
(*) Una piccola perla di blu, nei pressi di Erba (CO)

 

 

 

Una penna dal cielo

Sarà stato un periodo di stanchezza
o la mancanza d’una vicina tenerezza
Ma a lui, non riusciva più di sentire
Quei momenti
Quelli non fatti per capire
Forse gli sarebbero bastate una riva
e un riflesso d’acqua,
a ricordare una poesia
a riscaldare un grigio cuore
E se lui fossi io
vecchia scimmia spelacchiata
dagli anni un po’ avvelenata
Paletta rossa, ah! Magari
si potesse far accostare un minuto
questa mia vita
Aspirina di buon’ora
cavalcare il mostro
che non si è svegliato ancora
Signore,
se per favore puoi Tu
prestarmi una penna che scriva
per catturare quel che resta
salvare ciò che conta veramente
prima che venga soffocato
dalla fretta
e dai nervi a fior di pelle del presente
forse non te la consumerò del tutto
So che Lei è lì
da qualche parte
voglio solo farle un fischio
e nulla più,
o che so, buttare giù una riga
di nostalgia
ma che sia cosa mia e solo mia,
prima che Lei apra le ali
e ancora mi sfugga via

 

 

 

“Lo strano dono di Angus”

Premessa: tutti i personaggi di questo racconto sono frutto della mia stramba fantasia… tranne uno. Il quale ha la brutta abitudine di palesarsi dappertutto, e la cui presenza è alquanto controversa. C’è chi l’invoca, chi ne ha paura… Io ne ho approfittato per buttar giù una fiaba moderna che ho pensato di ambientare in una grande città americana. Bella sfida. Non sarà tanto facile, ho idea. Ma ci vogliamo comunque provare? Che diamine, certo che sì.

 

Per tutto il mondo conosciuto, lui era Angus Kilkenny.
In apparenza, un tranquillo signore, pensionato, ottantacinque primavere appena compiute il 6 marzo, giusto qualche giorno prima. Solo, inscatolato in un anonimo monolocale all’ultimo piano di un condominio, 1312 Morningside Drive, Detroit, non molto lontano dal Lago StClair. Ex dipendente di un negozio di panetteria. Quarant’anni infarinati tra baguettes e biscottini alla cannella, per poi rischiare una pensione da fame se un puro colpo di fortuna non lo avesse aiutato. Un lontano parente di Vancouver, che aveva fatto carriera come agente di borsa, era trapassato lasciandogli una cospicua fetta di eredità, indiretta conseguenza di una controversia familiare. Angus avrebbe dovuto ritenersi un uomo fortunato, se la morte prematura dell’amata moglie non gli avesse inflitto una ferita profonda dalla quale a tutt’ora non si era mai completamente ripigliato. Danielle aveva cominciato ad avvertire fitte sospette al basso ventre qualcosa come venti anni prima. Da lì, la discesa agli inferi nelle terapie antitumorali; che avevano avuto come unico effetto quello di trasformare lei in qualcosa di irriconoscibile, e lui in vedovo nel breve ma intenso volgere di sei mesi. Perlomeno, non aveva sofferto più di tanto. Lei. Quanto ci rimuginava sopra, certe sere! Angus era credente. Pregava. Ciò non gli impediva di ritenersi vittima di una specie di torto. Si sentiva in credito verso Dio. Sempre arrivava alla conclusione che sopravvivere a volte non è la prospettiva migliore. Assolutamente no.
Dopo avere lavato l’unico piatto di una parca cena e passato un’ora noiosa davanti al solito quiz con quegli idioti della TV, (domande alle quali anche un bambino di otto anni avrebbe saputo rispondere) apriva il frigo per l’ultima lattina di birra della giornata. E poi a letto. Solo. Muto. Triste. Il sonno arrivava comunque, magari dopo due ore di rigiri e ricordi dei bei tempi andati.
Vent’anni di consolidata routine a parte qualche diversivo di poco conto.
Ma non quella sera. Quella sera sarebbe stato diverso.
Angus infilò le scarpe, indossò il cappotto, mise in testa lo stetson e si apprestò ad uscire. Aveva fretta. Sapeva dove recarsi.
Erano circa le dieci di sera, c’era ancora un buon margine di tempo. Si sarebbe incontrato con una strana signora, alla quale avrebbe proposto uno scambio. Altrettanto strano.

In quello stesso momento, un piano più sotto e nell’appartamento dall’altra parte del mezzanino, Marjorie Watts si trovava nella disperazione più nera. Suo marito se ne era andato dieci anni prima. Nel senso che era proprio scappato via. Dopo l’ennesima lite ad alto volume (che come al solito aveva offerto un boccone succulento per quella piaga sociale che sono le pettegole di condominio) quel mezzo bue di Jonas aveva pensato bene di filarsela. Così. Abbandonando casa e famiglia per andarsene chissà dove, ignorando bellamente una Marjorie che aveva appena messo incinta. O forse appunto per questo.
Lei aveva dovuto arrangiarsi alla bell’e meglio. Il lavoro come caposala alla clinica privata, per quanto ben retribuito, bastava a malapena a coprire le spese. Ogni tanto sua madre veniva a trovarla portando con sè una ricca sporta di alimenti che condivideva con figlia e nipote. Si pranzava, si parlava, del più e del meno; e tutte le volte che Yolanda Simms stava per congedarsi riservava sempre alla figlia il solito salmo responsoriale: ma io te l’avevo detto che mi sembrava un poco di buono, o no? Ti avevo messo in guardia, o no? Oh, figlia mia, un fancazzista che gli mancava solo di drogarsi! E adesso guarda qui che roba, vabbè pazienza è andata così, allora vado, abbraccio? Stammi bene tesoro, ciao Matt!, ci rivediamo, ma certo che sì, ciao ciao cara… Ad libitum, ad infinitum, in saecula saeculorum, amen. Suo figlio Matthew, Matt per tutti, nella sua cameretta, giocava con il Nintendo. Sentiva i discorsi di mamma e di nonna, correva a salutare quest’ultima che andava via, e anche se non provava nessuna emozione nei confronti di un padre che non aveva mai conosciuto gli restava quella leggera curiosità di sapere almeno che faccia avesse (sua madre in un impeto di rabbia furiosa aveva distrutto tutte le fotografie).

Ora, la salute di Matt aveva cominciato misteriosamente a vacillare. Due medici, prontamente consultati, non erano stati capaci di venirne a capo. Sembrava che già alla sua età il ragazzino fosse preda di una forte depressione. Erano ormai due settimane da che aveva praticamente smesso di mangiare. Non si alzava più dal letto. Non giocava più. I compagni di scuola erano venuti a trovarlo, ma quelle visite si erano diradate quando il ragazzino aveva fatto loro capire che non gradiva la loro presenza; non era del resto facile stargli vicino senza avvertire un profumino che di certo non era Chanel n.5. Qualsiasi piatto Marjorie gli preparasse, a lui non andava. Un frutto alla mattina. Due wafer verso mezzogiorno. A volte, nemmeno quello. Gesù mio. Che fare? E, a rendere la cosa ancora più triste, di lì a poco, il 26 giugno, Matt avrebbe tagliato il nastro del suo decimo compleanno. Ciò che avrebbe dovuto essere una festa si andava trasformando in un ulteriore motivo di desolazione. Marjorie s’era sorpresa a versare lacrime silenziose in momenti non molto opportuni.
E, Iddio la perdonasse, più d’una volta aveva accarezzato l’idea del suicidio.
Ma sapeva che non lo poteva fare.

Occorre sapere che ad Angus, madre natura aveva fornito un dono particolare. Forse unico. Angus sentiva cose che sfuggivano alla quasi totalità delle altre persone. Avvertiva, a un dato livello, la loro aura. Era in grado di prevedere, con un piccolo margine di circa cinque minuti, gli eventi immediati. Intuiva cose che puntualmente si avveravano. Gli era già successo, ad esempio, di indovinare quale brano avrebbe trasmesso la radio dopo quello in onda sul momento. Oppure gli riusciva di azzeccare in toto la personalità di chi aveva di fronte, semplicemente sentendo la presenza dell’altro, e prima ancora che l’interlocutore, chiunque fosse, cominciasse a parlare dicendo di sé. Quando sua moglie aveva cominciato a stare poco bene, lui, o qualcosa dentro di lui, già sapeva come sarebbe andata a finire. Quella volta, un’onda lunga e spiacevole lo aveva condotto alla certezza assoluta. Come una serie di lame taglienti che si agitassero nel buio, alimentando angoscia e un costante nodo alla gola, non provocato dal freddo, che lo perseguitava senza sosta. Piano piano, nel corso degli anni successivi al lutto, la consapevolezza di essere lui stesso qualcosa di strano, di non convenzionale, di ergersi mezzo metro sopra tutti gli altri si era pienamente radicata.
Ma mezzo metro di che cosa? Era per caso il KA? C’entrava il paranormale?
Bah… Vallo a sapere. Era così, e basta.
Lui, Angus Kilkenny, immigrato originario dell’omonima contea d’Irlanda, possedeva l’abilità di vedere oltre, anche se non sempre era in grado di interpretare le onde emotive di coloro cui era vicino.

E, vicino a lui, in effetti quella sera qualcosa di anomalo stava per arrivare…
Sì eccola, puntuale. Aveva appena girato l’angolo, provenendo sicuramente da Grosse Pointe, e si apprestava ad entrare nel Pub che si trovava a pianoterra del condominio dove lui abitava. Angus la seguì. Seguì la Mietitrice. Sapeva per chi era arrivata.
Lui, Angus, era più il tipo cui piaceva ascoltare, piuttosto che parlare. E del resto, quanti interlocutori gli erano rimasti ormai?
Gli erano sì giunte all’orecchio voci riguardo il ragazzino del piano di sotto, il quale sembrava oramai arrivato a capolinea per colpa forse di una grave depressione dalle origini misteriose. Voci che non avevano bisogno di conferma perché lui lo sentiva. La cosa gli sembrava terribilmente ingiusta. Potevi comprendere, anche se con dolore, la scomparsa della tua amata per un male come il tumore. Qualcosa di noto unito alla casualità… e a una massiccia dose di sfortuna. Ma che la morte si volesse divertire volgendo il suo macabro sguardo su un bambino, beh, no. Gli sembrava cosa assolutamente inaccettabile.

La Morte, già.
Nell’immaginario collettivo, un po’ giocando di tatuaggi e di fantasia (e anche un po’ ghignando, diciamocelo), la gente vede qualcosa ammantato di nero, cappuccio in testa a nascondere un nulla dentro cui brilla una coppia di puntini luminosi, e in una mano scheletrica l’immancabile falce. Niente di più falso. Ad annullare ogni stereotipo, una decina di passi davanti a lui camminava un’alta e normale signora di mezz’età, bella, elegante figura in un completo rosso giacca-gonna. Ma era lei.
Angus la sentiva, e a conferma, lei si fermò un istante, girò la testa e lo guardò. I loro sguardi si incrociarono, e dopo due secondi infiniti un volto normalissimo di donna gli abbozzò un sorriso. Angus si sentì gelare. Il volto di lei era l’esatto ritratto di sua moglie. Quella fece una mossa con la testa ad indicare il pub: forza, entriamo. Lui non se lo fece ripetere due volte.
Si impose di stare calmo.

Presero posto in una tavolino, l’uno di fronte all’altra. Un sospetto che attraversò la mente di Angus trovò subito conferma: lei parlò per prima, la voce alta, lenta, chiara e alquanto inquietante: “E’ vero ciò che pensa, Angus, è vero”. “In questo momento lei è invisibile a tutti… tranne che a me. Quanto alla sottoscritta, beh, si accorgono di me solamente quando è tardi. Quindi Lei ha una proposta, non è così?” E tacque, in attesa di risposta. La quale non si fece attendere: -Sì, signora, ho una proposta. Lei stasera è qui per il piccolo Matthew McNee, giusto? Lei questa sera esige una vita, da queste parti. Allora le chiedo umilmente: risparmi il ragazzino e si prenda me. Non ho più motivo per rimanere, vede. “E tu del resto ti sei già presa Danielle”. Questa l’aveva solo pensata, mettendoci più rabbia che paura. -Non apprezzo più nulla, ormai. Sono stanco. Tutto quello che chiedo è andarmene. Tutto qui. Si può fare?
Mentre parlava, l’espressione di lei si era modificata approdando a un mesto sorriso, che non cambiò di un millimetro mentre lentamente e con tono bonario gli ribatteva:
-Angus, ma io sono qui proprio per lei. All’inizio doveva essere Matt, in verità. Io rispondo alla casualità delle Correnti Universali, che pretendono le vostre vite qua e là, a macchia di leopardo. Mi è indifferente l’uno o l’altro. Vede, lei è diverso in un certo senso, Angus, ma questo già lo sa. Sarebbe complicato spiegarle perché in così poco tempo: entrano in gioco onde di energia oscura che interagiscono con l’ES, non so se mi spiego”. (In effetti non ci capiva un piffero, quella roba per lui era cinese, ma decise di lasciarla continuare). “E comunque, signor Kilkenny, è da quando ci siamo scambiati quello sguardo circa dieci minuti fa, ho fatto un rapido calcolo e sì, si può fare. E’ per questo che l’ho invitata ad entrare. Non si preoccupi che la prendano per matto, glielo ripeto, in questi istanti risultiamo invisibili, io e lei. Vede cameriere in avvicinamento?”
E no, in effetti nessuno badava a loro. Angus girò la testa a destra e a manca. Tutto normale, brusio di conversazioni intrecciate, due ragazze che passavano per le ordinazioni ne incrociarono una terza che arrivava con due boccali traboccanti di una quantità indecente di birra. Nessuno sembrava essersi accorto della loro presenza, né tanto meno di quel surreale dialogo in corso a quel tavolo, il quale, strano ma vero, veniva evitato da tut…
Ehi, un momento.
Realizzò all’improvviso le ultime tre parole di lei. Le fece sue.
Si-può-fare? Ma, allora…
Un guizzo, e la fiamma della speranza cominciò a crescere, inaspettata, inebriante. Provò gratitudine. Provò gioia. Angus ritrovò una cosa che per troppo tempo gli era stata negata. Ritrovò il sentimento del bello. Mentre fissava quello sguardo che era quello di sua moglie, ma sapeva non essere lei, con voce rotta domandò: -Rivedrò la mia Danielle? Nel momento in cui formulava quella domanda, avvertì la prima fitta al petto, come se una mano crudele gli avesse appena strizzato le coronarie. Sentì lei e la sua voce che, chiara ma sempre più evanescente gli rispondeva: “Certamente, e non solo…”
E Angus d’improvviso vide. Capì tutto. Capì l’universo, capì il Creatore e la Sua opera, la dinamica che lo spingeva. Entrò a far parte del mondo di là.
Ogni dolore svanì. Improvvisamente e nello stesso tempo fu consapevole, beato. Libero.

Marjorie Watts rimase a bocca aperta per un bel po’ (quanto?) nel vedere l’apparizione che gli stava di fronte. Ovvero, un normalissimo ragazzino di colore che, apparso sulla soglia della cucina, aveva fatto due occhioni così e come nulla fosse aveva chiesto:- Mamma, ma io HO FAME! Non c’è niente in dispensa?
Ho fame? HO FAMEEE? Dio Dio Dio. Che frase meravigliosa! Grazie! Grazie! Marjorie spalancò le braccia, e con le lacrime agli occhi corse ad abbracciare il suo bellissimo, puzzolente, ritrovato figliolo.

Era emerso dal dormiveglia, in effetti, bofonchiando un “Grazie, signore!” di cui non s’era neppure accorto. Pochi istanti prima di svegliarsi, aveva sognato un distinto signore attempato. Razza bianca, era alto circa uno e sessanta, indossava un pastrano decisamente fuori moda, grigio, come il cappello stetson e i pantaloni. Irradiava una energia strana dalla quale non si poteva non essere conquistati (avesse saputo usare le parole degli adulti, il piccolo Matt avrebbe usato l’aggettivo ‘carismatico’). L’uomo, le sopracciglia leggermente inarcate, lo aveva guardato con un sorriso smagliante, si era abbassato piegando le gambe alla sua altezza e gli aveva detto con una bella voce : – E Be’, Allora? Buon Compleanno, giovanotto! Dopodiché, sempre con un largo sorrisone, era sparito svanendo lentamente come avrebbe fatto un fantasma nei cartoons.
Che roba strana!
Matthew McNee non avrebbe mai saputo che il signor K. gli aveva appena stracciato il certificato di morte.

Dal Detroit Tribune del 27 giugno:
Misteriosa morte di un anziano (T.J.) – Ieri sera un anziano è deceduto in seguito ad un improvviso malore, al Pub the Kiss, piano terra dello stabile al 1312 di Morningside. A tradire l’uomo, Angus Kilkenny a quanto riportato sulla tessera della Previdenza, sembra essere stato un infarto fulminante, che non ha lasciato speranze ai paramedici, tempestivamente allertati. Ottantacinque anni da poco compiuti, l’uomo viveva solo. Già decise le onoranze funebri domani, alle 15.00 nella locale chiesetta di St.Patrick.

 

Certe mattine

Letto di solitudine
ora incerta di mattino
Sottofondo nervoso
di radiosveglia
Visioni sfocate
Amaro aroma
di echi di passato
ora presente di caffeina
Trappola facile
Noia di romanzo senza fine

Ma sta per finire
questo tempo diluito
tra pensiero e realtà
tra cosa dire
e cosa ti aspetterà
Solite canzoni
ma con parole
ogni giorno sempre nuove
Stanza d’aria fresca
Il giro ricomincia

 

 

 

Un nuovo giorno

Certe stanze
Proprio non ne vogliono sapere
O qualcuno qui ha perso la chiave
Che affanno, ricercare
Dentro il solito tiepido mare
Di promesse non mantenute
Di proposito
O per distrazione

Ma sembra non esserci mai tempo
Per domandare certe cose
O abbiamo paura delle risposte
Certe stanze
Maniglie bloccate
Senza un biglietto che spiega
Ma un giorno, di botto
Riveleranno sorprese.

Senti fuori? C’è già aria nuova!
Già bussa alle porte
E ricambia, Zefiro il saluto
Di queste bandiere
Che mai, mai,
E mai si sono arrese

Le ali superbe e protese
La Speranza, il suo volo
Ritrova e rinnova
C’è un mattino fresco di luce
Nel cinguettio e nelle voci
Promessa di libertà

 

Cronaca di una curiosa evasione

Ce l’avevano fatta, alla fine. Avevano scavalcato l’ultimo ostacolo: uno strano muretto, soffice come spugna e di colore grigiastro (a dire il vero, l’impressione era stata quella di passarci attraverso), ed ora si ritrovavano lì, seduti dall’altra parte, un poco stanchi ma con la momentanea soddisfazione di essersi  guadagnati uno scampolo di libertà.

Quale libertà?

In effetti, entrambi convenivano che il tutto aveva qualcosa di strano. Non si erano mai sentiti imprigionati; tutt’altro. Il posto, poi, non gli sembrava nemmeno una prigione (“Corteccia”, così la chiamavano). Eppure, in quel lasso di tempo che divide il buio profondo della notte e le prime luci dell’alba, in entrambi era nato un’irresistibile, estemporaneo impulso di fuga al quale non avevano saputo resistere. L’avevano fatto senza nemmeno consultarsi a vicenda, quasi avessero condiviso lo stesso pensiero e fossero pervenuti alla medesima conclusione.

Ed ora, eccoli qui, i due soci. Dopo un minuto di silenzio, uno dei due prese la parola:

– Bello qui, eh?

– Bello e strano… mi sembra di respirare un po’ meglio. Voglio dire, non che si stesse troppo male di là… Clima gradevole, alimentazione sana e corretta, per carità. Però…

– O senti, per favore!! Ci vuole ogni tanto, di evadere. E dai, su. Non ce lo lasciano mai fare. Talvolta fa bene. O no?

– Sì, beh, in effetti… A parte il fatto che in questi momenti il sistema forse “dorme” ancora.

– Alt! Non lasciarti ingannare, che non si può mai dire. E’ vero, in questo momento gran parte dell’ammasso è ancora inattivo, ma la centrale qui fuori è più attiva che mai. Non la senti ronzare? In questo momento della notte, poi, lo sai anche tu, l’attività elettrica già si trova a un certo livello…

– Intendi per quello? La riorganizzazione delle informazioni?

– E per che cosa, se no? Chissà poi che cosa starà sognando, quello lì…

– E be’, se ci fossimo anche noi magari lo potremmo sapere!

– Ci conti così tanto? Ah, beh, tu torna pure dentro, se vuoi. Io, per il momento, me ne sto troppo bene qui. E che diamine. Ci vuole un po’ di stacco ogni tanto. Mica sempre si può…

– Ma sì, ma sì! Io sono con te. Perfettamente d’accordo. Ci siamo sempre dentro. Lavoriamo sempre. Sempre, SEMPRE!! Tutte le volte che “lui” vede, sente, cammina, respira, noi ci siamo sempre dentro, porcaccia la miseria. E’ sufficiente che  “lui” anche solo pensi, rifletta, decida qualcosa; che faccia partire un ragionamento, anche semplice, e noi eccoci lì a sgobbare come dei dannati, a darci dentro, senza orari. Senza un’ombra di ricompensa. Senza niente. Solo lavorare, punto e basta. Non mi sembra giusto, ecco!

L’altro rimase in silenzio, metabolizzando lo sfogo del collega. Osservava semi ipnotizzato una curiosa lucina azzurrognola e sfumata, la quale contornava tutto ciò che i due avevano in quel momento davanti a sé. Anzi era l’unica percezione visiva che in quel momento permeava entrambi, dal momento che in effetti non c’era quasi nulla da vedere.

Dopo mezzo minuto, numero due riprese la parola. Parlava lento e a bassa voce.

– E non è la cosa peggiore. Ciò che mi alza di più certi livelli energetici, e mi manda in bestia vedi, è il fatto che sia “lui” a prendersi sempre tutto il merito. Qualsiasi cosa abbia fatto, detto, pensato. Qualsiasi cosa abbia combinato, se gli è riuscita bene e gli altri suoi simili lo riconoscono… il merito è tutto suo. Sempre.

– Ehi, ascolta questa. Te lo immagini un bello sciopero generale, con tanto di rivendicazioni sindacali né più né meno come quello che si vede lì nel mondo esterno? Quella paralisi che ogni tanto i suoi simili mettono in atto quando vogliono più giustizia nel mondo del lavoro?

– Ma… sei matto? E chi dovrebbe mettere in atto questa bischerata? I nostri fratelli? Dovresti saperlo, che non è fattibile. Noi siamo le cellule neuronali! Se davvero noi, cellule grigie, mettessimo in pratica una cosa del genere sarebbe la fine. Di tutto. Non solo nostra… Guarda solo che cosa succede in certe centraline anche solo per un leggero guasto o un mancato afflusso di ossigeno. O di linfa vitale. “Loro” lo chiamano ictus. Lo chiamano aneurisma. Lo chiamano ‘lesione cerebrale’. Comunque lo chiamino, molti di noi muoiono, mio caro. Questo proprio no. E anche l’ammasso ospite non se la passa molto bene. Lo sai anche tu. Se sopravvive, conoscerà l’inizio di un incubo che sarà ben al di là da finire. Te lo dico io. No, no, tanto vale che continuiamo a fare quelli che remano nella stiva. Non è poi così sporco, il lavoro…

– … E la salute, se pure non ci guadagna perlomeno si mantiene. Giusto?

– Lo vedi che ci sei? A questo punto, che “lui” si prenda pure tutto il merito, a ben vedere. Meglio così. (Comincia a muoversi)

– Che ne diresti di rientrare? Sono stanco di fare pausa, e del resto non sono abituato a rilassarmi più di tanto…

– Ottima idea, fratello.

Non dovettero sforzarsi più di tanto, veramente, per tornare in sede. Il sistema, un processo dopo l’altro, si andava riaccendendo. Lento ma inesorabile. Volenti o nolenti, i nostri furono risucchiati senza tanti complimenti da una forza tanto inaudita quanto invisibile. Senza nemmeno accorgersene stavano già pedalando. Riconnessi in automatico. L’ammasso, ormai in piedi, stava pensando a come programmare la “sua”giornata.

Buon lavoro, tesori belli…

 

 

Come il primo giorno

E mi diceva: la amo ancora
come fosse il primo giorno
E pazienza se il tempo
invece di fuggire
ha aggredito con i suoi artigli
quel viso che era
di ragazzina

E pazienza se ora
più non puoi parlare
Io lo so che hai tanto da dire
Lo vedo brillare
in quello sguardo mai cambiato
dolce allora come adesso

Ma guardami.
Accendiamoci di sorriso,
teniamoci per mano
e andiamo
come una volta
sì come il primo giorno
in cui sbocciò l’amore.



LE MIE STELLE 

(versione n.2)

 

 Canta il vento,

Tiepido e leggero

Silenzio,

Fatto di istanti

Pensieri puntiformi

Senza pensiero.

 Guardale…

Piano piano si accendono,

Si sorridono,

Ci ammiccano.

Se ne stanno troppo bene,

Lassù.

Rimirate, vezzeggiate,

Declamate. Beate loro.

 Ma anche qui,

Stasera

Brilla una Stella

Ancora più vera

 

 Accanto a me, Tu.

Notte,

Non sei più sola

Altre due solitudini

Camminano con Te

 Passa lieve

Una piccola magia

Canta il vento

Leggero e fresco

Svapora il temporale

 Anche le foglie

Tremule e sperdute

Ora vogliono mirare

 Chissà se fanno sogni.

I nostri,

Naso all’insù

Come al solito persi

E ritrovati nel blu



D’ESTATE

 

  Ed è un continuo frinir di cicale

In questa via, stretta

Tra muri di sasso

L’edera verde, onnipresente

E il glicine,

Profumato e prepotente

A contendersi il passo

  Murales, firme,

Volti colorati e impossibili

Enigmi di grida mute

A invocare aiuto

Specchi di commedia umana

Così vuota,

A volte troppo piena

Nel silenzio caldo di luglio

  Vecchi ricordi, sempre sulla soglia

Scampanii lontani

Eterna danza senza più un tempo

In un cortile di nostalgia

Rivedo due bambini…

Fissi in una tela di memoria

A raccogliere frutti

A ripassare un po’ di storia

  Nell’estate che ritorna,

Per motivi che non so

In questo cuore

Ingenuo come no

S’accende ora una scintilla

Lieta di respiro

Piccola Gioia sorride, e brilla


TEMPUS FUGIT

 

   Luci, impossibili e maleducate

Ti vedo e subito scompari

Gambe sudate, nel cuore della notte

Credono in un facile sogno

 Sei lì, davanti, bianca figura

Di nebbia e di lampi

 

   Ma le parole vanno su

Oltre queste note di già sentito

Geroglifici di sguardi

Sì promessa di facile sogno

 Braccia intente a indicare

Qua e là senza riguardi

 

   Divanetto, e arrembaggio

Due dita di coraggio

Tanto per dire, ma ti senti libera

Di rivolgermi un sorriso

 E ti sembrerà poco

Per uno come me è già paradiso

 

   Pretesa leggera sentirti già mia

Scusa, mi verso un po’ di fantasia

In un bicchiere sempre mezzo vuoto

Due cubetti di malinconia

 Camicia sbottonata

Parvenza di notte fortunata

 

   S’è persa l’ora esatta,

Dentro questa musica di ovatta

Ad interrompere un bacio di Rum

La tua canzone preferita

 Insonnia voluta,

di giorno verrà risarcita

 

   Brilla un sole, ma è sotto di noi

E lasciamolo dormire, in fin dei conti

saranno affari suoi

 Stappiamo una bolla

di tenero, fragile infinito… 

Tempus fugit.

 

    Crollati. Ed è già domani


SOGNO E REALTÀ

 

Qui c’è gente che spinge

Ma io cammino a modo mio

C’è un mare di cose

Da chiudere in fretta

Oggi si dorme!

Qualcuno mi rimprovera

Ma poi scende

Per l’ennesima sigaretta

 

E tranquilli faccio io

Con il mio passo a modo mio

Fingere bene

Di credere ai giorni

Che spacciano per buone

La routine e la ragione

M’avessero per una volta

Omaggiato di un pallone…

 

Qui oggi c’è gente che spinge

Io rispondo

Con il sorriso della Sfinge

Non ho voglia di parlare

C’è voglia di caffè

Un altro film vuole girare

Ma tace la mia stanca parte

Vola un tempo di sole



L’ORA PIU’ BUIA

 

 Lattine accatastate!

Vetri frantumati!

Che cosa mi ha trascinato

fino a qui,

Notte, o notte!

 Quale sciagurato ti ha seguito

in un infido tranello!

Non ho voglia di cadere qui

 Un vento soffia forte

Qui si sente troppo bene 

Ma quanta forza hai!

Riuscirò a ritrovare casa mia

in un guizzo di ritrovata,

superstite energia?

 Ma non posso cadere qui

Soffia forte questo vento

entra ed esce da queste mura

Notte o notte! 

 E mi sembravi chissà cosa,

Ma ti ho visto bene cadere

ora proprio tu

sei finita a testa in giù 

 Alba chiara che ammonisce

e un regno che finisce…



IL NUOVO GIORNO

 

  Certe stanze

Proprio non ne vogliono sapere

O qualcuno qui ha perso la chiave

Che affanno, ricercare

Dentro il solito tiepido mare

Di promesse non mantenute

Di proposito

O per distrazione

 

  Ma sembra non esserci mai tempo

Per domandare certe cose

O abbiamo paura delle risposte

Certe stanze

Maniglie bloccate

Senza un biglietto che spiega

Ma un giorno, di botto

Riveleranno sorprese.

 

  Senti fuori? C’è già aria nuova! 

E già accarezza le nostre porte

E alza la voce il fruscio

Delle nostre bandiere

Che mai, mai,

Mai si sono arrese

 

  Le ali superbe e protese,

La Speranza il suo volto 

Ritrova e rinnova

C’è un mattino fresco di luce

Nel cinguettio e nei rumori

Fragranze di libertà



UNIVERSI

 

  Guarda quegli uomini

Levitare senza peso:

Sembrano grosse note impazzite

Che danzano qua e là

Su uno strano pentagramma

Musica tutta da immaginare

Nello spazio siderale

 Al di là del finestrino

Puntini luccicanti

Sullo sfondo e tutto intorno

Ad ispirare fantasie

Di mondi abitati

Di progetti azzardati

E viaggi di anni luce

Pronto Terra mi sentite?

 

  Non voglio andar così lontano

Un sogno di conquista vola già

Alchimia senza età, atterra piano

Sulla pelle della tua mano

Inespresso, da queste parti

Un sogno si rigira

 Se vuole, per ora

Lasciamolo riposare

Conto alla rovescia

Il coraggio di osare

E m’incammino fuori dal nero

Verso un colore

Che conosco di più 

Ora desto,

Un pianeta risplende: Tu



L’ULTIMO RAGGIO DI SOLE

 

  Fuggono ora le nubi,

Guardale scavalcare

Quel monte,

E andarsene

L’ultimo raggio di sole del tramonto

Rosso, s’insinua

In un poco di finestra

 Nasce sui vetri

Inattesa, strana policromia

Ravviva un istante

Che credevo da buttare via

 

  Attendo il domani

E pazienza,

Se arrechera’ con sé

Un altro temporale

Mi basta che si ricordi

Di portarmi un dono,

Lo farà?

 Profuma lieve il rosmarino fuori

Desiderio forte

E senza parole:

Lo rivoglio, quel raggio di sole

TRIESTE 

 

                                                           “-Dove porteranno quelle salite?”

                                                               “-Che traffico impossibile!”

                                                                     Un tram abbandonato, da sognare

                                                                         E Tu…

                                                                              Tu,

                                                                                  Che forse non hai bisogno di poesia:

                                                                                       Lo sei.”

La Cattedrale, i resti romani

Genti e dialetti strani

Tra le pietre

Il verde coraggioso e silente

Dove mai sarà il mare

Desiderio mai sopito, sempre uguale

Di teli e doposole

 

Nubi variopinte all’orizzonte

Il tramonto sul Golfo, stasera

Offre doni

Gli alberi delle barche

Allegri sulle onde

Ritmano strani

C’ è odore di pesce fritto

 

Guardale. Si sbracciano e vociano,

Le figlie che non ho mai avuto

Capelli lunghi e smartphone

Colori e visi

E sogni da rincorrere

Per ragazzi troppo magri

Che non la smettono di sfottere

 

Sfuggenti e nervose luci

Fantasie sull’asfalto lucido

Musica e danze, sera d’estate

C’è gente che parla

Ombre, sempre quelle

Dentro una pensilina

Ad attendere un minuto di bus


 

È una mattina d’autunno, ora

E piove, e tira forte questo vento

Ma sei bella

Nell’orizzonte vasto e triste

Il tuo volto duro e teresiano

È specchio, è cobalto,

E resiste

Perplessità e silenzio

Fa freddo qui

C’è un richiamo di onde,

Spumeggianti alzano le mani

Ma è inutile

I minuti dell’alba

Si riprendono la luce

 

Un faro a ricordare la Storia

Reclama, lassù.

Una sagoma oltre il blu

Una nave va

Sogno, evasione

Illusione un poco triste

D’infinita libertà



COMO

 

  Anche qui calano le ombre. Mi leggo le ore,

In qualche modo sull’orologio sempre sbagliato

dell’antica Torre; lo so che si fa tardi.

Vivo la notte male, ma riesco lo stesso a sognare.

E parlo nel sonno…

Mi chiamo Como, e mi trovo sulla Via delle Genti

Queste mie mura han poca memoria, ma sanno 

In un rettangolo di Roma Antica

rinchiusi i segreti e la fatica dei secoli andati.

 

  Queste mie mura hanno assaporato il pane fresco

E la miseria, l’amicizia e le risa di allegria,

Le guerre e la speranza, 

la pigrizia e la voglia di fare,

I politici inconcludenti e un nascere di nuovi potenti.

Hanno visto i Goti e le monete nascoste,

Teste sotto le picche, la pancia piena

Delle famiglie ricche.

 

  Queste mie mura litigano con la memoria, ma

hanno visto camminare i secoli e la storia

Han visto i Natta e gli Odescalchi;

i Rusconi, i Vitani, i Terragni tenevan le fila.

E come dimenticare il Grande Genio della Pila?

Per lui, strane carrozze verdi 

come discoli bimbetti a scorrazzare

in un Grande Cuore di lavoro e di rumore

E calpestio di zoccoli equini su binari di pietra,

Urla e preghiere, e genti, genti di ogni età,

Di ogni epoca, di ogni nazione e di ogni colore.

 

**********          **********          **********

 

  Vi rivedo oggi, o Genti del mondo! Sereni e laboriosi,

Tra orologi da niente, polli fritti e blue jeans regalati,

smaniosi di conquista, tutt’ora conquistati. Guardate!

Non vi siete accorti? Tra le scarpe e gli occhiali, 

quella lunga parete, grigia di anni, verde di edera,

rossa di grida e di vostri affanni, vi osserva,

vi sorride, vi ascolta. 

 

  Queste mie mura ti hanno visto, scolaro, e camminavi

Monello sbarazzino sopra la mia spina dorsale, 

lo sguardo ammirato e ancora tutto da esplorare

Ti hanno visto, entrare nei Bar del centro in compagnia 

Cioccolata, un’ora di cazzate e poi subito via.

 

  Ogni tanto, vedi, anch’io butto lo sguardo

oltre quella Piazza, e pretendo un’elemosina di blu

Di quel Lago che tutto il mondo brama, non solo tu

E così perdo tempo, mi attardo, non voglio pensare

Come anziana signora che distratti han dimenticato

di pettinare. Son distratta io, dicono!

Da un po’ perdo sempre tutti i treni…

Manca forse la gente che davvero mi vuol bene?

 

  Oh, ma una come me non crede nella sciatteria.

Mi terrò stretto il fascino, e quella bellezza

tutta mia. Se la vita ti concederà tempo di tornare

Io da qui non mi muovo, ti aspetto, attento ad attraversare

Ancora entrerai nella mia Storia di mura antiche,

Ancora t’incanterai fantasticando sopra quelle Terme Romane

tutt’ora ben protette e inviolate

da sei piani di auto nuove sempre bene impilate

 

  E, ora che con altri occhi mi vedi,

Tu, che hai camminato il mio Grande Cuore…

Riuscirò ora Io, a entrare nel tuo?

Riuscirò a ritrovare lo stesso calore?


DIALOGO CON UN FIORE

 

 

 

  Non costringermi a comprarti

perché lo so che rovinerei tutto

è meglio, credi, lasciarti così

in mezzo ai tuoi fratelli

mostrare a tutti 

i colori vostri più belli

  No, non fare che ti compri

per poi portarti nella mia casa

farti soffrire la solitudine 

e ricordare nel silenzio

quando fuori, ballavi un lento

tra le braccia esperte del vento

tu stai molto meglio, qui

lo so che ti diverti

in questi spazi aperti

 

  E mi fai ciao mentre cammino

e quindi vuoi che parliamo un pochino

sì va bene, alla tua maniera

tempo ne abbiamo, è lontana la sera

  Che momento divertente

per due anime che sanno di verde 

respirare insieme l’aria,

di complice armonia sorridente 

  Sai, la gente non capisce

vi coglie, vi annusa, vi ferisce

colori belli come i tuoi

davvero non ne ho visti mai

imparate a diventare scaltri

e dai, non lasciatevi comprare

dillo tu, dillo anche agli altri 


I PINI DEL LAGO

 

 L’acqua del lago,

Appena increspata

Muove la vostra immagine riflessa

Mentre muti e alti e saggi

Con il vento dialogate

E passa così

Il vostro pomeriggio, e il mio

Fatto di minuti

E di pace tutt’intorno

 

 Due persone passeggiano

Sottofondo flautato

Di pacati discorsi

Ma cresce l’intensità del vento

E agita l’acqua, di più

E la vostra immagine cancella

Ma sempre ci siete

In uno specchio d’anima

Alti e fruscianti vi rivedo


 

 DUE VITE          

 

  Notte d’estate. Ombre di lungomare

Onda di risacca scherza con la spiaggia

C’è aria di voci, tiepido canto 

La barca rovesciata

Non ricorda più il suo colore, ma dietro

Due giovani vite: fremono di ardore.

 

  Labbra che si sfiorano, oh sì, dolce sapore

Si immergono, e suggellano di batticuore

Un già siglato patto d’amore

In un minuto passano le ore…

- Marsupio? Borsetta? Dove li abbiamo lasciati!

A litigare con il buio, due visi dorati.

 

  Cielo di colori si riflette nel mare 

Quadro senza cornice, chi mai ti potrà comprare?

Gabbiani in volo, ma sospesi in un istante

Anche il tempo sa essere tenero amante…

No! Non parlare. 

L’istante. Non lo rovinare.

 

- Ciao, gatta. – Ciao, gatto. E mano nella mano

E sguardi che mirano già lontano

E promesse di per sempre, e sempre poi promesse  

Sogni di futuro si rincorrono

Giro di boa della Luna

Astronauti col pensiero in attesa di fortuna.

 

  Respiro di luce. Anche tu, Alba silente 

Dì alla speranza: non fuggire nel niente! 

Il giusto desiderio della vita che sarà

- Richiesta in carta semplice di normalità -

Come buon seme in terra fertile

… vedrai cadrà.


 LE MIE STELLE

 

  (… Ed eccomi, finalmente.

Posso sedermi e riposare un po’.

Più in basso, dieci tornanti di premiata fatica

Dieci curve di inutili pensieri

Figli illegittimi, roba di ieri

Di luce artificiale

Follia di parole che non s’arrendono

Quelle di finta bellezza sempre accese.)

 

  Ma ora le parole tacciono. Tutte le parole.

Diamanti irraggiungibili brillano qui

Di luce antica, saggia, e vera.

Stelle! Armoniose, placide stelle! Cuore e respiro.

Pèrditi, e guarda…

Mezza arancia di Luna, spunta e s’infila

Tra due creste di monti, osserva timida e curiosa 

Questo scrigno dall’aria misteriosa.

 

  Ricordi vaghi d’infanzia. 

Una lavagnetta. Pastelli.

Troppo facile rievocare momenti così belli. 

Grazie allora, Grazie ora. E’ vostro questo regalo.

Quante volte con il naso all’insù

Per fissare quei puntini colorati 

Che l’innocenza puerile 

In chissà quali mondi aveva trasformati.

 

  Quante canzoni, quante poesie vi hanno già dedicato?

O silenti Regine dello Zodiaco! 

Quanto Universo vi guarda ammirato?

Non ditelo: è già ora di scomparire.

Tanta fretta hai, alba d’estate.

Ma io tanto lo so dove abitate. E se il tempo,

Inclemente un dispetto mi farà, poco di male:

Un bimbo, dentro di me vi ritroverà.


LONTANO

 

Non voglio reprimere

Proprio ora

Un ricordo di gioventù

Sorrido da solo

In mezzo alla gente

Davvero,

Non mi importa niente

Magari qualche anno fa

Mi sarei preso del matto

Ma qui in giro

C’è troppo colore

Chi vuoi che si avveda

Dell’effetto che fa

Un lontano lampo d’amore

E sorrido 

Tra la gente

E sorrido alla gente

È ora di andare

È ora di ritornare

Su due gambe

Che non si sentono

I ricordi,

Davvero

Sono i soli

Che non mentono


RINASCITA

 

  Quattro mura diroccate…

Ecco ciò che puoi diventare

se cedi a un mondo

che infligge ferite

E chi ti passa vicino

potrebbe anche 

farsi del male

 

  Ma le cose possono cambiare

E giorno arriverà 

che qualcuno paura non avrà 

di cingerti, e toccando le tue macerie

ti saprà infondere parole,

di speranza 

e ricostruzione


MUSICA

 

 Al di là del finestrone

un quadro ripensa i suoi colori

contorni scuri mettono fine

alla velocità del giorno

 

 Posso buttarmi un poco sul letto

musica in cuffia scosta il mondo di fuori

folletti ammaestrati a tempo di rock

a occhi chiusi osservo danzare

 

 E non capisco dove sono…

in qualche posto mai visto

mi sono lasciato trasportare

c’è nebbia, qui, dietro e davanti

 

 Non so se riuscirò a ritornare

e che mi importa? Ho la testa leggera

chissà se fuori è sempre sera

ma intanto sono qui: lasciatemi ballare!


SE UN GIORNO

 

E parlami di te…

Dimmi che colori senti

Se di giorno ti riesce un po’ di gioia

O se la sera ti porta solo noia

 

Dimmi se ti ritieni soddisfatta

Se la vicina ti pensa un poco matta

Se respiri l’ottimismo del mattino

O se vanti crediti con il destino

 

Se i ragazzi strani

Con sagacia hai evitato

O sei rimasta intrappolata

Nelle spire di un vizio dannato

 

Ti viene da ridere

Nel raccontare un’avventura

O hai paura di rimediare

Sempre una brutta figura?

 

Sai tuffarti gioiosa

Nei tepori d’estate,

O ti rigiri in mille pensieri

Sotto coltri d’inverno gelate?

 

Il tuo lavoro

sotto sotto ti piace

O inciampi in ameni colleghi

Dalla battuta mordace?

 

Dimmi di te, raccontati

E non ti risparmiare

Perché a ciascuno in fondo

Piace sognare

 

E, mi piacerebbe davvero sapere

Di chi mi vorrei innamorare

Se davvero un giorno

Ti dovessi incontrare


 TI  HO  CERCATO

 

                                                                                     “Una coppia danzante…

                                                                                                    O sono soltanto io, perso nel volo 

                                                                                                       di un giocoso istante?”

 

  Ti ho cercato in un posto che non sa di niente

Nel saluto di una collega sorridente. Invano

 

  Ti ho cercato nella ressa di un vagone 

Nelle facce assenti di cento persone. Invano

 

  Ti ho cercato nella luce di un bel sole

Nell’aria carica di profumi e di colore. Invano

 

  Ti ho cercato nella pace di un lago,

Nel brillio promettente di acqua di sorgente.

Ma sempre invano.

 

  Era forse stamane? O forse era ieri? 

  Li senti? Quasi non fanno rumore questi passi.

Scherzano leggeri sopra il grigio dei pensieri.

Ma che? Ti avrò trovata?

  

  Sì. Tu Gatta Capricciosa, eccoti qui!

Senza bussare sei entrata

Senza permesso ti sei accomodata

Sul sofà di quest’anima

Sempre un po’ addormentata

  Intenso caffè di macchinetta 

Ridere di chi ha sempre tanta fretta

E musica un po’ datata, e aprirsi di cuore

Proposta per i nati sotto il segno del malumore

 

  Smetti di cercare, mi dici

Non saremo mai per intero amici

La mia compagnia è buona, e strana 

Fascino discreto di navigata puttana

  E danziamo…

Cavalchiamo insieme l’onda di allegria!

Facciamoci beffe della malinconia!

La neve? E’ lì, dimenticata ai bordi della via.

Noi, alziamo questo calice di complice armonia! 

 

  Ma poi. Tu. Smetti di cercare.

E’ questo l’unico modo

Se talvolta mi vorrai ritrovare. 

Chiedo: -Che nome devo dimenticare?

E lei : -Lo sai comincia per ‘effe’,

(E non fare il facile volgare…)

Ma adesso lasciami librare.

Io sono così… 

… Ho bisogno di volare…