Giorgio Callari - Poesie

Responsi

Si dice fede e salvezza

eppure le guerre ci sono,

forse dalla chiesa tra altari d’oro

sul nasconder la storia a preservarsi.

 

E i nostri nonni abbigliatisi guerra

per fame l’ordine eccelso adornaron

sì brande di ori con tatto cullarono

cari custoditoci la storia in dimore

poi preti per renderle grazia

battezzan dal legno logoro

tantò di fecondia senza collane

come a trovar beatitudine fra incertezze.

 

Ormai le macchine scorron paesaggi nel chiasso

dove sì scale consumaci ritmi veloci

abbàgliami il cuore,

ancora riflette quest’aria a trovarti

lungo pelle

denuda sul tremor d’anelito vedute

lontan dal sapor di palazzi,

eppure le guerre ci sono e

nessun prete battezza danari

tra invidie sì miseria sanguina

genti alla deriva sorge luce

fra argini s’annebbian speranze

mi disfacion dentro vergogne

si sperpera il peccato

credi ti brucin la storia o il passato?

 

Capisco che vento sì immensità angelica

ansa chiarezze per tramonti d’albe diverse

allora incapace ad immortalarsi,

lo scruto con gli occhi d’un fuoco

svanire nei suoi istanti.



Persi

Mordi le labbra di pioggia

e fruscia l’indifferenza

dai sudori in ghiaccio fra le rughe,

sentila viviamo,

queste occhiaie alba del cuore

sui frammenti agli anni nel vetro soffiato.

 

Adesso respira,

le profonde notti tra luce soffiano credimi,

per la solitudine quest’aria non conterà

più i tempi con brina.



A luce spenta

Lo chiederei da raggi rosei

all’assentarcisi smorfie ancor genue

le città

riflessesi imposte sulla pelle

per solleticarsi nel mattino poi tenue.

 

Posso

lungo questo percepirmi

eclissi di crepuscol sì

palazzine svestite ombra

così

già non ricordar,

l’emozione arrositasi cielo

tra gote riguardatesi velo

come il brivido storditosi donna

su lenzuola stropicciatesi in terra.

 

Eppur laggiù

l’impressione smarriscesi sensi

per dissonanti entità

da transumànasi spettri e ràdiasi

trombe di pendulo strìdesi

col riconoscersi

se quell’albore ansa

fra fronde ormai spoglie

fino a scoprirci,

fino a scoprirsi.



Amaryillis belladonna

Sotto la veste,

allo sfiorire dei miei anni,

forse le tue grazie

sapranno ancora accarezzare

tali petali

avvizziti

colti

da quel giardino

che distende

medesimo,

senza sospiri

lasciati agli eventi,

da una tempesta di primavera,

credimi

saranno i venti

a portarci il fiore.



In merito d’alba

Saranno queste strade un giorno

le stesse case a staccar palazzi dai parchi

poi vetrate le medesime che ci specchian

nella fretta fra attimi sintomo del respiro,

sì d’immagine tra l’incerto

ripercorre ormai solita per offuscar

sui fumi d’altre sigarette il dileguarsi

come a smarrirci con ironia nei secondi

per sorger dai minuti primavera perpetua

e lì mi perdo,

quando fra dolcezze sì anni al gocciolar

foglie d’inganni lungo sentieri sgombri

nuovamente sussurrerai “non cresciamo mai”

sì viva risposta librar tantò di vecchiaia farà.

 

Semplicemente l’attimo dallo splenderci

preziosi nei portavalori

mentre il sole s’accende tra sospiri su venti di tramontana

col dipingermi cielo d’egual maestria capirò.


 

IRONIA (e non capivo)

 

Credimi il mondo ci vuole

per foce lungo il mare leggere onde

parole al precipizio,

lo insegni incapace nell’afferrarle e

mentre piovono strabocchi gli argini

dalla sorgente eppur sbiadisci

lungo il principio,

 

s’figura dove ancor

la feritoia tra sì di scogli

cela la costiera

così aggrappa la dolcezza il panorama

sul perchè della gioia

con sguardo bambino,

 

egual pianto le tue risa

scorri fiume dove genti

circostanti scansano le acque nel lambirsi

sponde fra perverse curiosità

 

su si continui scorci

lungo il tuo orizzonte

ti spinge al suolo ormai distante

per svanirsi ponte questo corso

poi cielo,

l’avresti mai detto.



IL MERCATINO D’OGNI SANTO A SPASSO

 

Solamente spreconi tra il feto di

schifo,

questo sorcio vomitato.Si presenta

la discreta serata e tanta luce dai viali

“vendiamo mercati infetti gente”

usato logori e vuoti

poi queste feste melodiche botti,

altre cantilene bambine per filastrocche

che voltano “dai svelto”

l’ubriacone storto sul sorriso sdentato,

nicchie lungo vicoli vecchie cantine

d’asfalto

nella farmacia aperta sì pasticca smodata

regala bicchieri con calma,alla vostra destra signori.

Mentre facce genue ingialliscono sulla

fotogenica

fra aperitivi noia da puzza del naso per

bene

magari di tanta gioia quali al

ritrovarsene in mente

stupefacente,ora signori alla vostra sinistra.

Spalancate boccacce impegnate s’incoraggiano

così

delicate come minacce truffaldine con

decise parole

sì seriale la mostra di discorsi arguti

le incolla tra sospiri nasali ad ascoltarli

cani,

serrano i musi dal nascondersi il rigetto,

senza spiegazioni,maiali vomitano uomini lì

perchè forse sarà meglio persi,chissà

se lo straccio del cantuccio beve

la giornataccia o

ancora rimbomba la parolaccia sopra il

coccio

lungo sere “quel volgare imbecille”

lancio probabile compagnia mirabile

bevitore.



MANCANZE

 

Chissà se torbidi ruscelli mi strinsero a te

quando si miseri stracci ne lavava di singhiozzi

un abbraccio candido e ignaro lungo limpide acque madre

sull’infangarci le radici come aridi arbusti spezzati ormai stanchi,

 

se quel fiume sbocciò sopra il cielo dei miei occhi

come una nuvola dallo svestirsi l’aurora gaudia

colora i giardini in fiore tra giornate cupe,

se il mirarsi infondo fu l’eterno valore del seno o

sì dolce riflesso un amor che ancor grembo sfiorì.

 

Forse mi svelai al tuo fianco

per il crepuscolo d’una primavera si spalla fra lacrime

mai t’appoggiò con volte tanto lontane

dove perderci su boreali guazze

già sorta una calda luna nelle mie notti,

 

poi lungo il mendicare da vuote bussole

un qualche miraggio di seta persi i cardini,questo splendore.

Spoglio soffiò l’inverno sulle carni ed era freddo,morto,

ma tiepidi mani mi colsero polline ai poli

mentre contavo la brina,

rombò la tempesta uno squarcio immortale,

l’eco d’un rosato sorriso così per semplicità,

 

eppur le stagioni s’erodono come vetrate

sotto la pelle fra rughe d’affetto e valore,anime raggrinzite,

in vostra memoria nonna e le ero vicino sull’accostarci

schegge dei venti dove sì fondo letto scioglie antichi corsi

tra le nostre più intime ferite.

 

Adesso la gente s’muove nella fretta

mentre sguardi fuggono passi vaghi all’alba,

poco di voce distoglie dallo smarrirmi la folla

per il tetro riflesso della luce metropolitana e

quasi sferraglia il treno,

affianco un solitario autunno di rimorsi

forse ti sono stato vicino.



DIAMANTE

 

Guardo appena oltre il mar

dove l’occhio da sì colli sfoca vitreo

lungo paesaggi carsici

respirano piano,

ancor di vago desiderio,un brillore

qual serena mi smarrisce leggero,

 

eppur l’aria è carne

che sanguina tra le nuvole

mentre sorge dolore fosco ci trattiene la mano.

Tiepido autunno,

con quante foglie sdruccioli a pozze

per strada smemorato

poco sotto i marciapiedi appassite,

goccia soffice nei parchi

 

sulle panchine rugiada

quando l’inverno le carezza maturo,

lì lontani orizzonti si screpolano

questo mio tempo passeggia ormai solo.



VUOTO E SETE

 

Un bimbo dagli occhi scuri

dal suo cromosoma mancato

mi ha sussurrato in un bacio

con la sostanza d’un sorriso

che l’oblio sprofonda vuoto:

“una infinita vaghezza”

mentre tralascio arido le mie radici

quando schivo distante i tuoi spalpiti,

labbra e pupille:”guarda l’abisso emerge

colmo d’una sconfinata pienezza”.



NEL SUO ORGASMO

 

Prima dell’uscio né bagliore dal riflesso l’occhio,

il sudore ci erge su vasti giardini

oltre la soglia quel vano custodito

fra rovi lungo la schiena origami che segno,

è con le unghie ti slego sincera

il corpo sviene e goccia il capo chino

ancora l’ultimo sguardo schiara

un petalo si abbandona al tempo impreciso.



INSENSIBILE

 

Purchè abbia splendore

lungo il cielo azzurro di sale

tra il brillore luce del sole

accanto la pupilla

vola questo bruzzico nel sorriso

alle foci del canto pensiero,come svampi

sull’appiattirsi oceano senza dighe

lanterna per soliti ricercatori,innaturale

s’apre calda e sanguina a me immemore

un dolore né malattia sorgente

che possa evaquarlo il tremolio carnale,

lì sopra mi dilaga assai gaia

l’ignota screpolatura.