Giovanna Transitano - Poesie e Racconti

Riflessioni

 

 

 

Sipari che separano, sudari che trasudano dolore,

triangoli bianchi a calar su dolci sorrisi che

non arriveranno al domani.Lenzuola bianche stese su pallori di morti

troppo repentine, su sguardi spenti, su diafane mani.

 

Visi mesti su corpi accatastati in lunghe, lignee file dolorose.

Ci hanno tappato il sorriso, tolto l’esile dolore al capezzale dell’umana pietà

per una morte fraterna, dignitosa, invece abbandonata alla solitudine più nera.

 

Ci hanno riempito di specchi che riflettono ed amplificano bocche riarse, bramose

di un alitodi vita, che spesso fuggr via, su nrl cielo sconfinato, irragggiungibile.

Visioni di fiati spezzati dentro tubi e fili aggrovigliati, dove al respiro 

non è concesso fare tutto il suo naturale percorso.

 

Sul lenzuolo bianco ripensi a quel sorriso, a quel tocco di mano, all’abbraccio fraterno,

alle parole spesso malsopportate, ai tuoi affetti riposti ed abbamdonati.

Siamo nati nudi e ci siam voluti vestir troppo, caricarci di inutili orpelli. di superbia per esser padroni,

ma la vera conquista è fondersi nella natura, viver di pura essenza per cui siam nati,

abbracciare l’universo con tutto l’amore e tutta la nostra coscienza.


 

  ADDIO

 

 

 

    Due occhi lucidi scavano l’anima,

    tu guardi altrove per non incontrarli,

    fissi per terra mentre gli parli.

 

 

    Due gocce di rugiada su una foglia

    e poi ancora un’altra

    e un’altra ancora.

 

 

    Due occhi freddi solcano

    la soglia.

    E’ giunta l’ora.

 

 

“partecipazione 

Concorso TRA UN FIORE COLTO E L’ALTRO DONATO- POESIE D’AMORE”


La donna silente

 

 

 

La donna silente, paziente,

che ciecamente vede oltre l’orizzonte, 

che come serpente, striscia umilmente.

 

Suadente, con l’aria innocente

per nulla saccente, neppure appariscente,

omnipresente, silenziosamente efficiente.

 

La donna prudente, perdente

che prende schiaffi dalla gente

e botte dal compagno onnipotente.

 

La donna che giura amore struggente

su letto di morte incombente

di vita morente.

 

Fatta a pezzi come carne straziata

sull’ara del quotidiano sacrificio

non si accorge di aver vissuto per niente.

 

Nulla le sarà riconosciuto

in questo mondo

di melma avvolgente.

 

“Partecipazione concorso LA PANCHINA CEI VERSI”


rifugio

 

 

 

Oggi il sole è nero

ma laddove la terra bacia il cielo,

una luce sbianca tutt’intorno,

come isola per il naufrago.

 

Porto sicuro per navi erranti,

mille tempeste si abbattono su di te,

grotta illuminata del dopo,

rifugio di piccole anime spaurite,

di fianchi limati da eterne fatiche.

 

Baita sepolta di bosco primitivo,

unica salvezza di fuggitivo

da temporale eterno di vita, 

che in te si sente ben protetto e vivo.


Inerzia

 

 

 

Inghiottito da coltri

fin troppo consunte

rifugio ben più rassicurante

dei suoi donatori di vita

raggomitolati come lui

nella loro impotenza inebettita

 

sperando in un miracolo di vita.


 la rosa

 

 

 

   La rosa, bellezza, eleganza, discrezione, umiltà, essenza di melodia,timidezza, turbamento.

   Gioco cromatico esaltante, infinita tenerezza, sublimazione dell’essenza universale.

 

 

   Rosa, liquefazione di sentimenti a lungo incrostati, inariditi, rosa saggezza, sicurezza, esaltazione

   dell’amore selvaggio di rosa canina, esternazione di amore tacito, esecrazione del dolore cinico

   riposto in virgulti spinosi.

 

   Rosa, mistero e svelazione, turbinio e tranquillità, trepidazione tacita ed eloquente, polvere magica

   delle nostre ambiguità, delle nostre paure che al dischiudersi del petalo, si posa su pensieri malinconici.

 

   Rosa, stesso ceppo di corona intrisa di quel salvifico dolore composto di chi si è immolato per l’umanità,

   

  

  tenero cerchio di scorza dura di petali resilienti alle intemperie delle povere nostre anime oggi tanto angosciate.


 A mio padre

 

 

 

L’hanno persa.

Dentro tubi di gas velenosi,

nella concia di pelli per giovani signore,

in un quadro, in un arcobaleno di colori.

 

 

L’hanno persa.

In una mela,

in una passeggiata mattutina

sotto una cappa grigia,

nella polvere di caverne infami.

 

 

L’hanno persa e 

nessuno gliela potrà ridare.

I figli dei figli dovranno viverla tutta,

in ricordo dell’antica tragedia.


A mia madre  scorci d’infanzia

 

Luci ed ombre, 

nei lontani ricordi d’infanzia

danno vita ad un volto

perduto nel nulla.

 

Ad un mattino solare

di rondini e nuvole sparse

ad un quaderno macchiato d’inchiostro

e bagnato di pianto.

 

A pagine autunnali

di filastrocche antiche,

a musiche dolci o tristi e infinite,

ad un sorriso.

 

Ad una porta socchiusa nel buio

trafitto da un raggio lunare,

ad un singhiozzo, ad una carezza immortale.



racconto la vita di pietro IL TERREMOTO DI MESSINA 

 

<Sia male>’ deve venire il terremoto che scelga le sue vittime ed ammazzi voi tutti e Messina>. Gli spergiuri furono ascoltati e la sera del 28 dicembre 1908 Messina fu messa in ginocchio. Correndo per le strade della Città. quella donna, in preda alla disperazione e ad una cieca rabbia per l’arresto ingiusto del figlio, maledì tutti gli abitanti ed innescò la scintilla di una immane tragedia. Nell’isola più bella e soleggiata d’Europa il tempo si fermò quel 28 dicembre- La città cessò di irradiare la sua cultura ed eleganza, la sua operosità, i suoni del porto,le voci dei mercati, i canti allegri delle contadine, gli ordini secchi impartiti dalle nobildonne. Nei suoi vicoli i cani smisero improvvisamente di abbaiare, stanchi forse di aver lacerato inutilmente le ugole coi loro latrati, pochi attimi prima dell’apocalisse. Al boato seguirono movimenti sussultori poi ondulatori ed arrivò così la fine del mondo. In quel terribile sisma si registrarono gradi della scala sismica al di sopra del limite consentito e per la prima volta venne classificato il moto vorticoso. Gli eleganti palazzi allineati sul mare si sfarinarono come sabbia al sole, avvolti da nuvole di polvere che saliva in alto, su nel cielo ingannatore e malevolo. Cumuli di mattoni formavano tristi montagne, sbuffi di calce imbiancavano quel mattino piovoso già intriso di aria di festa. Le vie natalizie ed i negozi allestiti sparirono inghiottiti da quella furia, ammantati da una coltre biancastra e soffocante. Il moto divenne immoto in un battito di ciglia, il tempo ebbe attimi di sospensione innaturale. Dopo momenti di attonito silenzio, le voci dei sopravvissuti ruppero quella dimensione surreale ed il pianto dei bambini lacerava l’anima. Fu segnalato un gran numero di orfani in seguito adottati o rinchiusi negli orfanotrofi.

Il pescatore Salvo, quella mattina non troppo fredda, pensò di uscire in barca prima del sorgere dell’alba. Si allontanò in mare aperto e gettò le reti, restando in paziente attesa. Più tardi fu inghiottito da onde paurose e gigantesche.

La moglie di Vito, che lavorava nel cantiere navale della città, era intenta a preparare la colazione al marito, come ogni mattina da decenni, nel cucinotto di quella casa umida vicina al porto. Dalle sue finestre provenivano grida di bimbi che si preparavano per il lavoro nelle cave di pietra. La scuola era solo per pochi eletti, figli di ricchi e proprietari terrieri che davano somme discrete di danaro ai tutori per insegnar ai loro figli a far di conto, a dar lezioni di poesia, prosa e pianoforte. Forse chissà, quei bimbi si annoiavano ed avrebbero giocato volentieri nelle cave coi bambini poveri i cui stomaci sognavano pasti abbondanti nelle notti rese insonni da fame ancestrale. La mattina mettevano nelle loro pance vuote fette di pane abbrustolito inzuppate in un pò di latte e poi via al lavoro, vestiti di stracci e con poca roba nelle gamelle. Eppure sorridevano sempre, ignari del destino ancora più triste che li attendeva. Solo metà della popolazione si salvò  e di questi il panettiere Giovanni che quella mattina decise di non aprire il negozio per sfornare pane fragrante. Potevano esistere, nella stessa famiglia, persone che si salvavano ed altre che morivano. Era veramente un dramma, come quello vissuto da madame Chesterville e dall’ufficiale siriano in trasferta a Messina. Dalla loro unione nacque una bimba dai capelli ramati e dagli occhi viola. I fili rossi si increspavano nel vento e luccicavano al sole e correndo nei prati, i riccioli si sollevavano ad ogni salto della ragazzina, svelando occhi sapienti.Sino ad allora avevano veduto un mondo a colori tra mura sicure. Ora si aggiravano impauriti tra muri cadenti, polvere e morte, assaggiando brandelli amari di un nuovo universo grigio. Quegli occhi vedevano i capelli rossi diventare rosa, poi grigi, poi bianchi, come incanutiti precocemente, impastati a sangue e paura. Parevano una cornice di un brutto quadro tenuto su dai fili della malasorte che infliggeva solo morte e disperazione. Rimase sola in balia delle scorribande di malviventi e sciacalli che saccheggiavano tutto quello che il terremoto non riuscì a distruggere. Si nascose sotto una caverna formata da travi cadute, nella cantina e lì vi rimase per un bel pò di tempo, cibandosi delle scorte di viveri rimaste indenni in quell’inferno, assieme a topi e gatti randagi che divennero i suoi inseparabili amici, in quella paurosa solitudine. Quando, dopo diverso tempo, arrivarono i soccorsi, si allontanò da loro con immensa sofferenza. Aurora, così si chiamava, perse i genitori ed il fratello nel sisma e mai avrebbe immaginato che il suo nome si sarebbe indissolubilmente legato a quello della grandiosa nave. In quella tragedia il 90 per cento di Messina fu rasa al suolo con pochi superstiti e tra questi uno raccontò..<Ero in letto allorquando sentii che tutto barcollava intorno a me ed un rumore sinistro giungere dal di fuori. In camicia, com’ero, balzai dal letto e con uno slancio andai alla finestra. Feci appena in tempo a spalancarla, quando la casa precipitò come un vortice, si inabissò e tutto sparve in un nebbione denso traversato da rumori di valanga ed urla di gente che precipitando, moriva>. Già il giorno dopo gli sciacalli, che provenivano in gran parte dalle galere distrutte, cominciarono ad agire e continuarono, instancabili ad assalire le persone, come selvaggi, per derubarle. Assaltarono anche la dogana e furono, per questo, fucilati. Si viveva in una condizione di fame nera, finchè finalmente non giunsero i soccorsi. La stessa regina Elena, principessa di Montenegro, sposa di Vittorio Emanuele terzo nel 1886, soccorse gli abitanti girando tra loro sulle navi della Regia Marina, confortandoli e curandoli amorevolmente. Si crearono le michelopoli, rioni popolari consistenti in abitazioni provvisorie in gran parte di legno e tela , fatti costruire dal giovane deputato emiliano Giuseppe Micheli con fondi donati da alcune banche. Gli aiuti giunsero da tutta Europa e dagli stessi abitanti. Sorsero comitati spontanei che raccoglievano offerte in danaro, si organizzavano lotterie e spettacoli teatrali per raccimolare aiuti per le popolazioni colpite. Anche il poeta Salvatore Quasimodo visse quel tragico periodo infantile. Arrivarono forze armate da tutta Italia e partì anche Pietro originario dell’alta lunigiana, in Toscana. Si ritrovò catapultato, di punto in bianco in Sicilia a far parte delle truppe del re dell’isola a prestare aiuto alla polazione, a difenderla ed a mettere ordine. Era costretto,suo malgrado, a dedicare la propria vita alle armi, sebbene non fosse per lui, la massima aspirazione. Aveva idee liberali ed irredentiste,tramandate da padre e nonno, per quell’epoca, un pò troppo all’avanguardia. Pensava che, prima o poi, doveva filarsela, in barba all’arma. Avrebbe dovuto farlo in maniera prudente e da furbo.L’occasione la trovò proprio nel terremoto di Messina. Era convinto che sarebbe rimasto lì per qualche mese, studiando, nel frattempo un piano per fuggire. Al mercato nero acquistò alcuni abiti civili, un paio di scarpe le recuperò da una famiglia benestante amica ed aspettava solo il momento giusto.

Trascorse in Sicilia momenti duri e visse periodi romantici con belle ragazze, quasi sempre di nascosto perchè costretto dalla rigida disciplina militare, finchè il suo cuore non fu rapito da una splendida ragazza dai capelli rossi e dagli occhi di un colore incantevole. Si chiamava Aurora. Si innamorò perdutamente di lei. Non fu ricambiato subito e dovette lottare non poco per conquistarla. Di lì a poco l’Aurora sarebbe salpata da Messina e pensò di imbarcarsi per dimenticare quella fanciulla che non voleva proprio saperne di lui, ma che gli cedette quel tanto che bastava per rimanere incinta. Intanto la partenza della nave ritardava e Pietro ne approfittò per recarsi a Reggio Calabria a prestare soccorso ai terremotati.

Quando seppe della nascita della figlia, stava scavando tra le macerie e lanciò letteralmente la pala lontano, si tolse guanti e casco scaraventandoli nella polvere e scappò in fretta e furia in preda ad un sentimento nuovo per lui. Era papà e tutto questo lo rendeva euforico, impaziente, preoccupato, ansioso. Aveva una figlia e non ci credeva quasi. Si trovava ad un passo da Messina, solo una breve traversata, ma per lui quello era un percorso interminabile, ogni minuto sembrava eterno. Quando finalmente le raggiunse e vide gli occhi di sua figlia, ci sprofondò dentro, con tutto il suo amore. Baciò affettuosamente Aurora stremato, ma raggiante. Quella creatura fece rimandare la partenza di Pietro , ma non per molto. Visse un anno a Messina, amando moglie e figlia più di se stesso, ricoprendole di attenzioni ed affetto. Ma dovette partire proprio sull’Aurora in occasione della prima guerra mondiale nel mar Baltico. Terminò così la sua missione in Sicilia e Calabria ed anche la sua vita cambiò totalmente, proprio quando cominciava a provare un pò di serenità. La prima guerra mondiale, quella inutile tragedia che straziò migliaia di soldati, gli rubò i suoi anni più belli. La lontananza da Aurora e dalla figlia, lo stava distruggendo piano piano. Come se non bastasse, si trovò nel bel mezzo della rivoluzione russa d’ottobre del 1917. Per le sue capacità strategiche, messe in atto senza alcun spargimento di sangue e per la sua caparbietà ed intelligenza, divenne, suo malgrado, capolarmaggiore. La famosa nave dove si era imbarcato, diede l’abbrivio alla rivoluzione russa, sparando il primo colpo di cannone dal castello di prua a San Pietroburgo. Aveva una pazza nostalgia di Aurora ed Iris, così si chiamava la figlia, lasciate a Messina. Chissà come stavano! Quando aveva dei ritagli di tempo, scriveva lettere commoventi in cui infilava , a volte, un pò di danaro gelosamente messo da parte e custodito. Finita la rivoluzione russa, tornò in Sicilia da Aurora e trovò la città cambiata dopo tanti anni, con ancora i segni delle ferite. 

Una bella bimba di quattro anni si nascondeva tra le pieghe dell’bito della madre, spaventata quasi da quell’uomo che la vide appena nata e che non ebbe più occasione di incontrare. Fu per Pietro un’emozione unica, rivederla, la più intensa ed intima che avesse mai provato. Se la prese tra le braccia, quella bimba scontrosa e timida e la riempì di baci, trattenendo a stento le lacrime. Poi si rivolse alla compagna, che sulle prime lo guardò con occhi viola di rimprovero e rabbia, ma poi compresero e ridivennero gli occhi dolci che lo stregarono. Decise assieme a loro, di tornare nella sua terra, desideroso di riabbracciare i suoi ed impaziente di presentare ad essi la sua famiglia.

Era appena iniziato l’anno 1918 e decise così di lasciare la vita militare, ormai diventata troppo stretta e si trovò un lavoro come cuoco in un ristorante prestigioso  di Messina, per far vivere decorosamente compagna e figlia. Trascorsi ormai sei mesi ed avendo guadagnato abbastanza, raccolse le sue cose, salutò gli amici e partì con loro due, affrontando un lungo viaggio in nave. Ormai troppo stanchi ed amaareggiati, finalmente arrivarono sfiniti alle porte della sua  terra. Una volta scesi dalla nave nel porto di La Spezia, coi pochi risparmi si fecero accompagnare con un carretto trainato da due cavalli stanchi, fino all’inizio della strada che conduceva al paese, da percorrere, da quel momento in poi, a piedi.

Si arrampicarono su pendii scoscesi e stradine brulle sotto un sole cocente. Era agosto inoltrato. Giunsero sfiniti ed in un lago di sudore al villaggio di Pietro. Riconobbe le case, le pietre a lui famigliari, gli alberi,la fontana, il campanile. Conosceva ogni sasso di quel posto. Il cuore, mam mano che si avvicinava alla sua casa, trepidava nell’attesa di rivedere i suoi famigliari dopo tanti anni e l’emozione che gli procurò il presentare loro Iris ed Aurora, gli faceva piegare le gambe. Arrivarono finalmente alla casa adiacente  la chiesina. Un’ondata di commozione investì i suoi occhi che strizzavano lacrime trattenute. Trovarono i genitori attorno al nonno scomparso il giorno prima , morto di vecchiaia. Aveva 98 anni e non fece così in tempo a rivederlo un’ultima volta, portando con sè quel rimpianto per tutta la vita. Si girarono verso di lui e rimasero sorpresi, non riconoscendolo quasi. Dopo gli si lanciarono nelle braccia con gioia irruente, e, incuranti delle altre due presenze, esclamarono in coro..<Pietro, ma sei tu!! Come stai? Che sorpresa… rivederti.. e loro chi sono?> Le videro, finalmente! Non ebbe la forza di parlare e li abbracciò soltanto .Era felice di rivedere la sorella Maria e nei giorni seguenti consolò la nonna Adele a cui voleva un gran bene. In seguito, passato un pò il dolore della perdita, svelò loro tutti i segreti della cucina  locale contadina e ne serbarono volentieri i particolari ed i consigli.

La prima guerra mondiale ed il sisma, assieme alla rivoluzione russa, aprirono dentro di lui ferite profonde come crateri, difficili da rimarginare nel giro di poco tempo. Ogni rumore un pò più forte del dovuto, lo metteva costantemente in allarme ed in apprensione. Ma l’amore per la famiglia superava ogni ostacolo. Un mese dopo il loro arrivo in quella casa gioiosa, Aurora aspettava di nuovo un bambino. Era ancora estate e trascorrevano le loro giornate nei campi e nell’orto assieme ad Iris che somigliava sempre di più a sua madre. Apprendeva velocemente tutte le attività agricole e quando si stancava, andava a trovare Gimmy, il suo asinello, l’amico  con cui si confidava e giocava .Ma ogni calar del sole significava per Pietro l’anticamera di incubi e sonni agitati, che si smorzavano durante la cena, ma si ripresentavano e si ripetevano puntuali appena toccava il letto. Sognava sempre case distrutte, corpi fatti a pezzi, polvere, tanta polvere e poi rapaci che dispiegavano le loro ali, quasi a coprire i mali del mondo, a presagire situazioni critiche o semplicemente svelavano il suo stato d’animo, sempre guardingo e scosso. A maggio nacque Carlo, prematuro, che prese il nome del nonno, secondo la tradizione di quelle parti, dove ogni nascituro acquisiva il nome dei nonni. Quel figlio maschio era un dono di Dio .Nelle usanze contadine averne uno in casa significava altre braccia da regalare alla terra. Venne di nuovo l’autunno e Pietro era intenzionato a mandare a scuola Iris. Trovò ostacoli nei suoi genitori che avrebbero preferito mandarla a servizio nelle famiglie, ma poi con l’aiuto di Aurora, cedettero. La domenica era il giorno del riposo e Pietro trascorreva le giornate coi figli, mentre la sua donna, che presto sarebbe diventata sua moglie, rigovernava la casa. Lui teneva per mano Iris e nell’altro braccio portava teneramente accoccolato Carlo, mentre spiegava alla figliola appena affacciata alla vita, che cos’era la vita. La educava ad essere sempre onesta, generosa, leale, a non tradire mai e soprattutto, insegnava lei ad odiare la guerra. Diceva..<Io ho lottato, ho rischiato la vita per nulla, ho patito fame, freddo, paura, solitudine, ho mangiato fango, ho visto il sangue dei miei amici e nemici inzuppare le distese di neve, ho combattuto contro pidocchi, sporcizia, scabbia. Ho sentito i fischi delle pallottole, il sibilo delle bombe fin dentro le ossa, ho trascinato piedi avvolti da scarpe sfondate, indossato divise lacere. Tu e tuo fratello cercate di starne ben lontani e combattete sempre per non volerla mai. La guerra ed il terremoto sono le avversità più atroci che una persona possa provare nella vita. Lottate sempre per ideali di libertà, uguaglianza tra gli uomini, di giustizia, di rispetto e vogliatevi bene>. Tutti valori che vent’anni dopo, la follia avrebbe voluto cancellare. Lei ascoltava interessata e Carlo guardava il papà con occhioni ed orecchie vogliosi di apprendere un domani anche lui quei preziosi consigli e quelle parole dense di significato. Un giorno Gymmi morì di malattia, peraltro curabile e banale, per quei tempi però, mortale. Iris si impressionò talmente che decise in futuro di diventare medico in conseguenza anche dei racconti di suo padre sulla guerra. Lo zio Loris, che conobbe solo in fotografia, morì dopo inesorabile e lunga malattia nella grande guerra al fronte a causa delle ferite. Lesse le lettere nascoste dal padre in cui lo zio esprimeva tutta la drammaticità e le atrocità subite e viste. Prese così la decisione..<Voglio fare il medico e salvare tante vite>. Il fratellino che amava i trattori, andandoci anche a finire sotto senza ferirsi, sarebbe diventato ingegnere meccanico.L’anno dopo, in cui decisero di coronare il loro sogno, divenendo marito e moglie. Pietro si trovò di nuovo alle prese col sisma avvenuto il 7 settembre 1920 in Garfagnana, la più colpita anche come perdite umane ed in Lunigiana, dove vi furono pochissime vittime o addirittura nulle, in certe località, come nel paese di Pietro che si salvò, grazie anche ad una benevola Madonna che li protesse, dicevano gli abitanti. Finalmente, passata anche questa paura, si sposarono, proprio in quella chiesina del paese guardando davanti a sè con speranza e fiduciosi in una rinascita e desiderosi di un futuro sempre azzurro come l’orizzonte che avrebbe accolto e proiettato nell’universo, ogni attimo del loro infinito amore.   


 

L’ultimo seme


1° Cap.

 

 

Il moncone della zampina, staccata di netto, giaceva lì, in mezzo alla sterpaglia. Evidentemente, il banchetto non fu dettato da una legge della natura, bensì orchestrato da una mente umana contorta e crudele, visto che un pezzo di corda, ben legata ad un robusto rametto, sorreggeva pietosamente ciò che era rimasto della zampa.

Luisa si avvicinò di più pensando, con sgomento, alla sorte del piccolo animale, rimasto imprigionato  nella trappola. Si avvicinò di nuovo, rendendosi conto che si trattava di uno scoiattolino ferito nella zampina, che riuscì a liberarsi, tuttavia, ed a salire su di un ramo.   Qualcosa, dietro la siepe, baluginava al sole acceccante d’agosto. Un piccolo specchietto da donna, con brillantini falsi intarsiati, si chiedeva che cosa ci facesse mai lì, invece di essere su di un comò o dentro una borsetta. Luisa non credeva, in cuor suo, che l’artefice di tutto, fosse stata una donna. Prese l’oggetto e se ne andò. 

La sua era un’età in cui quei fatti le rimasero impressi come una scrittura indelebile. Si godeva la tranquilla villeggiatura dalla zia, nel paese di montagna. A undici anni era piuttosto gracilina e l’aria buona ed i cibi genuini, non potevano che giovarle, consigliati altresì dal medico.

 

 

2° Cap.

 

 

<Luisa>! Esclamò seccato John, il tenente del dipartimento presso cui lavorava. Quando era occupata nel proprio lavoro, non sentiva nulla, presa com’era. Spazientito, il tenente gridò di nuovo:< Luisa, perdio >!

Alzò la testa e lo ascoltò, con noncuranza. Aveva sottomano un caso complicato, e interessante, non molto lontano dalla soluzione. Mentre parlava al telefono, ronzavano ancora nel suo cervello, peli, saliva, D.N.A. Infine rispose! <Hello>!How are you>? I suoi genitori si trasferirono in America, nel New Jersey, quando lei aveva tredici anni, giusto in tempo per poter terminare le scuole medie, dietro suggerimento di parenti già emigrati anni prima. 

Loro, invece, riuscirono a raggiungere i propri obiettivi tra mille difficoltà e sacrifici. Saltando  pasti e privandosi anche del necessario, fecero sì che la figlia, già molto brava e promettente, finisse gli studi. L’HIGH SCHOOL OF FORENSI ACADEMY di NEW JORk l’aveva da sempre entusiasmata ed incuriosita e ne uscì a pieni voti. Ora lavorava con quel rompiscatole di John, al 31° Dipartimento di Polizia della più famosa metropoli americana.

 

 

3° Cap.

 

Si vedevano, ma non troppo chiaramente, le scie di sangue lasciate a terra, tra sassi, sterpi e rovi. Era difficile poter sostenere, a prima vista, se si trattasse veramente di sostanza ematica umana.

La donna, mattiniera, era andata di nascosto in cerca di funghi nella boscaglia, da secoli ritenuta misteriosa ed impenetrabile, le notò e scappò via.  Pentendosi, amaramente, di aver varcato i confini di quel territorio, fu indecisa se avvisare le autorità o no. Dovette ansiosamente combattere con se stessa e prese infine l’ardua decisione di avvisare le autorità, consapevole di quello che le spettava, fuggendo poi via senza farsi più vedere. Era vietato allontanarsi dalle proprie abitazioni senza un permesso, a causa della delinquenza incombente, delle epidemie scatenatesi in quei giorni e delle risorse micologiche decisamente scarseggianti.

Luisa smise subito di conversare in inglese, quando si accorse che l’interlocutore doveva essere di madre lingua e per la precisione, meridionale. Sbraitava, con voce stentorea, dal chiaro accento siciliano, che al paese di Luisa, era stato commesso un presunto omicidio, che volevano affidarle il caso e che era piuttosto

urgente. Si affrettò a portare avanti l’indagine che aveva sottomano, ma non riuscendo a terminarla, la affidò al collega americano borioso e ben felice, perchè continuamente pressata dal commissario italiano rompiscatole. Al che, si pose una domanda. Perchè cercavano proprio lei? La sua fama e la sua bravura avevano varcato addirittura l’oceano? Oppure la stavano cercando perchè conosceva bene il luogo del sospetto omicidio, essendoci nata? Rimandando la risposta all’arrivo in Italia, si preparò in tutta fretta e partì col primo volo a disposizione, per Milano, senza dimenticare di riporre nella valigia lo specchietto portafortuna gelosamente conservato per parecchi anni.

 

 

4° Cap.

 

 

Le strisce di sangue non portavano a  nulla. Ad un certo punto, si smorzavano nettamente nel verde di una siepe di rovi, come volatilizzate, parsimoniose di qualsiasi altra traccia. A detta della scientifica, si trattava di sangue umano. Le ricerche del probabile corpo, furono vane. Si pensò che la persona ferita si fosse messa in salvo e quindi misero il cuore in pace.

Osservava il corpo dilaniato, roteando il capo in qua e in là, incuriosito, stupito e per niente turbato, nonostante fosse la prima volta, convinto in cuor suo, di aver fatto un bel “lavoretto”. Si avvicinò, coi grandi occhi spaventosamente bramosi, per scrutare se fosse morto per davvero. Lo era. 

Luisa arrivò all’aereoporto di Milano Malpensa con due ore di ritardo per controlli antiterroristici da parte della D.I.A. Prese l’eliotreno fino a Parma e, vista l’ora tarda, un taxi fino al suo paese, un borgo antico risalente all’epoca medievale, precisamente al XIII° secolo, magnificamente arroccato su di un monte, con um maniero imponente da sentinella.

<Aiuto, aiuto>!.Nella testa di Luisa ronzavano spesso queste grida. Non riusciva ad annientarle e quando era assalita da questi ricordi, non ce la faceva a scrollarsi di dosso il forte odore di animale selvatico ed a respingere le grosse dita callose con le unghie orlate di nero e di sporco.

IL maniero torreggiava imponente sulla collina ed attraverso i suoi ancestrali fori smerlettati, sorvegliava i movimenti del villaggio, chiedendosi a chi sarebbe appartenuto in futuro, vista la morte inaspettata del suo proprietario, il conte Rampollini. Da moltissimi anni soffriva di disturbi cardiopatici congeniti, conseguenza anche del dispiacere per un lutto famigliare. Mai si sarebbero aspettati una morte così repentina, in paese, poiché costantemente controllato e ritenuto in buona salute.

 

5° Cap.

 

 

Per uno sprovveduto od un profano, la grotta non sarebbe mai esistita, tanto era ben nascosta nel fitto della vegetazione. Carpini, querce, saggine, acacie, fittissimi rovi imponenti che tessevano forme geometriche indistricabili, qualche castagno, eriche ed un agrifoglio, incorniciavano e coprivano del tutto il pertugio che conduceva in un’autentica stanza mozzafiato, ampia e caldissima, ma non solitaria. Più in là, un altro piccolo ambiente, era intiepidito da raggi di sole filtranti da un’apertura sulla roccia, esattamente sulla volta. Fu chiamata “grotta del diavolo” da chi ne era a conoscenza ma non se ne parlava  mai. La consideravano un tabù. Sembrava, per un’antica leggenda, che il diavolo avesse impresso le sue mani nella roccia in un impeto di collera feroce. Le impronte delle dita lasciate sul masso, erano un curioso scherzo della natura, forse gocce di pioggia millenarie cadute nello stesso punto un pò più fragile della roccia, avevano scavato buchi neri e profondi. La gente del posto aveva intessuto varie credenze tramandate e paurosissime. Pareva fosse una roccia inavvicinabile perchè, dicevano, il diavolo era sempre lì ad aspettare ed avrebbe, senza dubbio, ucciso gli avventori, fremente di vendetta poichè gli sfuggì l’arcangelo gabriele in una lotta impari. Nel vano tentativo di acciuffarlo, ogni volta affondava le dita nella roccia, formando eterne e paurose impronte.  

 

 

6° Cap.

 

 

Avvertì la sua presenza, e infatti la prese per la vita, ma riuscì a divincolarsi ed a fuggire, cercando di allontanare la paura e di scacciare il suo forte odore dal naso. Anche altre ragazze furono assalite ed una di loro si impaurì talmente che non uscì quasi più di casa. Un’altra scomparve per sempre dai suoi luoghi natii, assieme al proprio uomo.  Al buio non lo riconobbe poiché era incappucciato da un lungo mantello nero, ma l’odore le rimase famigliare. Non fu mai preso. Luisa venne sottoposta ad inutili interrogatori, ma gli indizi non sembravano essere sufficienti per incastrarlo.

Da piccina Luisa era un vero demonio. L’Innata curiosità le veniva così spontanea che un giorno, vedendo strani frutti rossi e allungati nell’orto, le volle toccare e, sfregandosi le labbra, esse divennero infuocate e gonfie. Anche  altre parti del corpo e le mucose del viso si arrossarono.  Passava le sue giornate lungo le sponde del piccolo torrente in cerca di reperti, come vecchie mattonelle, pezzi di ceramica e di piastrelle variopinte. Quando poi trovava un paio di scarpe da donna usate, col tacco, le indossava tutta contenta, affondandovi i piedini, sentendosi già grande. Raccattava quindi, i suoi trofei civettando davanti ai suoi coetanei invidiosi e imbronciati, ai quali poi alla fine dava quello che a lei non piaceva. Rovistava tra i fili d’erba, trascorrendo intere giornate a raccogliere foglie dalle forme più strane ed a rincorrere  insetti e farfalle come un perfetto entomologo. 

 

7° Cap.   

 

    

Vincenzogongolava                                                                                                                          perchè il suo padrone lo aveva premiato abbondantemente. Lo aveva caricato di elogi per il suo operato e di provviste per almeno un mese. Si rallegrava per il crimine commesso, vista la generosità del suo signore. 

Luisa ascoltava, con orecchie ingigantite e particolarmente ricettive. D’estate, nelle serate terse e tiepide, intrise di profumi intensi di glicini e rose e d’inverno, di fronte al camino o alla confortevole stufa a legna che dava anche calore umano,  gli abitanti si riunivano nelle veglie, raccontando leggende  e storielle. Era la loro moderna televisione. Racconti pittoreschi, come le mammelle piene di sangue uscito dai capezzoli della capra più giovane del paese, si conficcavano nei suoi pensieri, paurosi e perenni. La maga del villaggio aveva sperimentato un sortilegio, facendo fermare l’emorragia, con l’ausilio di parole incomprensibili e di una candela appoggiata sul candido vello coperto da un prezioso tappettino. Il sangue si arrestò ed uscì il latte. Questi riti suggestionavano gli abitanti che se ne andavano, senza dubitare se si trattasse di una banale ragade, coricandosi con addosso i segni dello stupore e della paura, ed una buona dose di andrenalina, e rendevano i sogni di Luisa agitati. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       La nonna materna non le risparmiava racconti terrificanti che la lasciavano in uno stato di angoscia per parecchi giorni. La figura immaginaria che più la spaventava, era l’aquila che da monti che parevano altissimi, con ali enormi, si gettava su neonati lasciati nei cesti di vimini dalle mamme contadine che correvano dai campi verso il pericolo. Il rapace planava su vitelli tranquillamente assorti a ruminare e, dopo averli ghermiti, li portava nel suo nido, sul monte più alto, per darli in pasto ai suoi piccoli. La notte, Luisa, ripensava  ai racconti dispensati con dovizia di particolari, e si chiedeva se fossero veri o frutto di fantasia. Il fantasma urlante del maniero, le faceva accaponare la pelle, ogni volta che la nonna lo dipingeva agghiacciante, col suo corpo massiccio che trascinava i catenacci con ritmo battente, emettendo urla cavernose, terrificanti. Si aggirava tra pareti e corridoi accompagnato dal quel tetro suono gutturale e metallico e da una grossa falce. Dicevano fosse lo spirito di un nobile gettato da parenti nel trabocchetto del castello, per motivi di eredità- Anche le scope trascinate dai topi che, al comando della padrona strega, le trasportavano in qua e in là, non  scherzavano a metterle paura, oppure il corpo mummificato di una persona ritrovata all’interno della parete di una vecchia casa del villaggio o i fuochi fatui estivi sprigionati dalle tombe, che correvano dietro ai malcapitati. Vecchie storie di riti magici nei boschi con sacrifici animali e di lupi mannari spaventosi che si aggiravano nelle notti di plenilunio ululando, riempivano tremendamente i suoi pensieri durante le cicaleggianti giornate estive e la facevano tremare, la notte. Il drago e S. Giorgio, dipinti nella chiesetta del paese, divennero anch’essi un riferimento pauroso. Cullata da simili retrospettive, più o meno piacevoli, appartenute all’universo infantile, tornò sulla terra quando il cellulare, impensabile nella sua infanzia, iniziò a trillare fastidiosamente. Chi poteva essere qull’ignobile che aveva rotto l’incantesimo? Il vecchio proprietario del maniero non morì di morte naturale. Ecco chi ruppe le scatole. Doveva ritornare, a forza, alla realtà ed accantonare in un piccolo angolo della mente, i suoi ricordi infantili. da rispolverare al momento opportuno. Era lì già da una settimana e non aveva ancora fatto nulla per chiarire i lati oscuri di quell’assurdo paese. Doveva occuparsi del primo presunto omicidio e anche dell’altra morte, quella del conte, ma la voglia era ben poca. Avrebbe preferito godersi diversamente quei giorni nel suo paesello- 

L’anatomopatologo eseguì l’esame autoptico sul cadavere del conte ed a prima vista sembrava intatto. Non pareva neanche morto, e man mano che portava avanti la sua opera, nasceva in lui il sospetto che fosse trapassato a miglior vita in maniera violenta e non naturale, ma si trattava solo di un sentore, poichè il corpo era perfetto. Nel sangue e nello stomaco non esistevano tracce di avvelenamento, negli alveoli polmonari non erano presenti residui di acqua, all’esterno la pelle di tutto il corpo era intatta, nessuna ferita, nessun segno di aggressione, di effrazione o di puntura. Anche il cuore sembrava a posto. Difficile, anche per un tipo in gamba come lui, scoprire come fosse morto. Di sicuro gli antenati del conte si distinsero grandemente per la loro crudeltà. Un fatto di  molti secoli prima, la inquietava in modo indicibile per l’orrore e la malvagità. Un servo della gleba, al servizio del feudatario della terra di cui faceva parte il paese di Luisa, si era permesso di mangiare tutta la cotica della brodaglia, senza dividerla con gli altri commensali, o per fame o per inconsapevolezza. Le guardie feudatarie gli fecero finire il suo pasto e, senza dir nulla, lo presero e lo condussero al trabocchetto del castello, gettandolo dentro. L’ interno dell’orribile tortura, era irto di coltelli accuminati e lame taglienti. Il cadavere o quello che rimaneva del poveretto arrivato in fondo all’Infausto cunicolo, fu dato in pasto ai cani randagi.

 

 

Cap. 8°

 

 

“Dracula, vieni quà”. Urlava e le sue grida possenti rimbalzavano da una parete all’altra della grotta del diavolo eccheggiando come fastidiosi acufeni, nelle orecchie del povero animale che vegliava il corpo, asportando via via, piccoli pezzi di carne di quel che rimaneva del macabro trofeo non ancora sotterrato. Stava pensando, appunto, come disfarsene e ad un certo punto ritenne giusto seppellirlo nel bosco, proprio sotto il noce, centenario e rassicurante.

Il sudore di luglio gli imperlava la fronte e scendeva a fiotti, lungo le ascelle, spuntava copioso dalle profonde rughe frontali, scivolando sugli zigomi, indugiando sul piccolo precipizio delle labbra ormai salate e, gocciolando inarrestabile dalle folte sopraciglia, gli annebbiava quasi la vista. La figura in lontananza appariva tremolante e sfocata e Battista, per vedere meglio, strizzava i piccoli occhi intrisi di sudore bruciante. Per anni quell’esteso campo di grano era stato il suo sostentamento ed il suo teatro di vita, il luogo dove sprigionava forza di uomo possente e dove versava i suoi litri di sudore che irroravano zolle da cui sarebbero nate, dopo, altre piantine da recidere con grande passione ed implacabile falce. Lui si, era ancora attaccato alle vecchie tradizioni contadine, a suo rischio e pericolo. L’anno seguente quelle piantine avrebbero atteso invano e supplicanti sotto il sole cocente, perchè Battista stava andando incontro al suo tragico destino, spalancato ora, su terribili fauci animali. Con inaudita ferocia, i due cani lupo si avventarono su di lui che, stupito, si rese conto solo all’ultimo momento del pericolo imminente, acceccato da sole, sale e sudore, prima suoi compagni di vita, ora impotenti spettatori di morte. Qualcuno lo volle uccidere perchè pensava forse, che i suoi occhi avessero visto cose invece mai vedute. La sua morte era stata proprio inutile. 

Due ruote di carrozzella da infermo, giravano con forza d’inerzia, rivolte all’insù, verso il cielo, pregando quasi che qualcuno le fermasse. Ma in fondo al burrone, altro non c’era che pesci nell’acqua fredda del torrente, uccelli cinquettanti nel fresco della radura e che, ogni tanto si appoggiavano incuriositi, sulla sedia a rotelle e mosche che ronzavano già intorno al cadavere.

Nell’ex “salone di bellezza”, nella caserma dei carabinieri di Argo, paese dove alloggiava Luisa, la donna era sottoposta ad estenuanti trattamenti non proprio cosmetici. Da due ore, nel caldo infernale sprigionato dalle pareti e lievemente mitigato dalle pale di un vetusto ventilatore, il maresciallo Congiu, un bell’uomo abbronzato di circa cinquant’anni, era intento ad interrogare la sventurata. Suo malgrado, con quel caldo, avrebbe preferito rinfrescarsi nelle gelide acque del fiume. Lo stesso torrente dove un corpo senza vita giaceva inerme.

Non levava un ragno dal buco con Annamaria. Testarda e maleducata, arrogante e quasi sempre con le cosce spalancate ed i seni procaci, ripeteva con ostinazione, che era innocente. Sospettavano di lei, perchè in passato, era stata l’amante, assieme ad altre, del conte Rampollini che in seguito, dopo averla sedotta, l’abbandonò, ignaro di aver creato, dentro di lei, una figlia. In seguito venne da lui riconosciuta, poichè gli somigliava come una goccia d’acqua. Si trovava costantemente minacciato, con modi pericolosi, da lei e dal fratello che tentavano, in qualche modo, di estorcegli danaro.

 

 

Cap. 9°

 

 

La pala di Vincenzo aveva quasi completamente eseguito il suo mesto lavoro, formando via via, un piccolo cumulo di terra umidiccia che celava misteri ed orrori al mondo, sotto l’ignaro noce, l’albero del silenzio e dell’onestà. Sudato e con la gobba ancor più aculea del solito, che ripugnante sbucava da sotto il mantello nero, suo compagno perenne in ogni stagione, avanzava ciondolando, con passo pesante, verso il padrone.

Luisa, assieme al procuratore della provincia di Parma, il commissario Giorgio Paoletti ed al maresciallo Oscar Congiu, decise di interrogare tutti i famigliari noti, sconosciuti e lontani. In seguito avrebbero rotto le scatole anche agli abitanti del paese. Proprio una di quelle sparute anime, arrivò trafelata, dal maresciallo che era sul punto di andarsene per raggiungere il gruppetto di colleghi. Non capì una sola parola di tutto quel che diceva a causa del dialetto parmense, aperto e un pò strascicato ed anche perchè pareva turbato e per giunta balbuziente. Lo fece accomodare, gli offrì una brocca d’acqua non proprio fresca e, con pazienza di Giacobbe, ormai stremato, gli chiese di ripetere con calma.

Fu un’impresa titanica ed il maresciallo Congiu sul punto di rinunciare, udì giungere, come un’eco lontana, la parola morta, attutita dalla calura. Rinvenne di colpo, ringraziò e congedò il latore della notizia, non prima di aver fatto consegnare  le generalità ed uscì dalla porta, come fosse inseguito da una torma di lupi famelici.

Arrivò il tempo di agire e di farlo in fretta. Erano già passate due settimane dal primo presunto omicidio, una settimana dalla morte del conte e cinque minuti dalla scoperta di un nuovo cadavere. Luisa si stupiva di essere diventata così pigra, colpa forse dell’iniziale torpore paesano tramutato, pian piano, in crescente fermento dagli insoliti avvenimenti. Era quello un paese addormentato, da illore tempo, come Polifemo, nelle fauci di un perenne letargo.

L’Assunta fu veramente “Assunta” in cielo, quando morì. Nel periodo della sua vita, si rivolgevano a lei per qualsiasi cosa, precipitandosi nella sua cascina che tanto tempo prima aveva addocchiato, nascosta nel bosco a ridosso di una cava di pietre, circondata da maestosi alberi di larice e rinfrescata da un torrente, lontana dagli uomini. Era rimasta affascinata e, scoprendo all’interno una dimora di pipistrelli e  ragnetti neri, addirittura entusiasta. Si installò in quella casa, dopo essersi accertata che non avesse nessun inquilino. Costrui, da sola e con attrezzi rudimentali, piccoli mobili spartani col legno di larice, che certo non mancava, guardandosi bene, nelle pulizie all’interno della dimora, dal togliere ragnatele intessute con arte e pazienza, quasi avesse paura a profanare quel magnifico arazzo naturale, luccicante come pregiata stoffa di broccato dai perfetti incastri geometrici. Devil, il grosso gatto nero, con occhi gialli che bucavano, fece quasi subito amicizia con i pipistrelli, che sulle prime, volarono via impauriti. Provò ad assaggiarne uno, sgozzandolo con i suoi denti accuminati, ma mangiando le carni dure come cuoio, pensò fosse meglio dedicarsi ai loro cugini ratti che dimoravano sotto il pavimento, oppure cacciare piccoli, teneri volatili lungo le sponde del torrente. Passavano i giorni, i mesi, gli anni in quella casa di sassi e legno, vivendo tutti quanti in perfetta armonia, ratti compresi.

La giovane Assunta, che già da bambina dimostrava di possedere doti medianiche ed abbandonata per questo dai genitori, proseguì la sua missione terrena, destreggiandosi tra decotti di erbe selvatiche, la costruzione di piccoli feticci di legno e stoffa e la coltivazione del suo piccolo orto, per poter sopravvivere, nutrendosi di sole verdure, formaggi e uova, in puro stile vegetariano. Vista la sua scelta, diffidò degli O.G.M. e di quant’altro di innaturale. Con i primi guadagni, acquistò al mercato, una capra per il latte ed i formaggi, ed una gallina per le uova. Col passare del tempo, si fece un nome per la sua bravura e la sua umiltà. La chiamavano a tutte le ore per guarire malattie di uomini ed animali, per prevedere il futuro delle persone più ricche ed esposte, perchè ai poveri non interessava quel che sarebbe successo l’indomani. Ad essi non importava nè il presente, nè il futuro, poichè per loro non esisteva il tempo. La loro vita era sempre uguale, sempre grama, cementificata ad un passato oscuro. Essi vivevano al di fuori dello spazio e del tempo, in una dimensione in cui dovevano pensare solo a riempire spazi dilaniati da fame ancestrale.

Assunta non chiedeva niente in cambio, se non dei graziosi monili o oggetti utili per la casa o generi alimentari che lei non poteva produrre. Doveva cercare persone scomparse, con le sue arti preveggenti. Non sempre ci riusciva e per questo, dopo aver illuso inutilmente un paio di genitori sul ritrovamento non avvenuto dei propri piccolì, finì sulla sedia a rotelle, con la colonna vertebrale lesa. Anche dopo le botte, continuava nel proprio intento, spostandosi col rudimentale mezzo ambulante, lungo le  stradine del bosco, munita di un ramo sulla cui punta aveva inserito una forbice per poter tagliare i vegetali, erbe e radicchi di campo, fiori e rami. Pareva un po più difficoltoso di quando era tutta intera, ma se la cavava. Si nutriva di bacche e di radicchio, di frutti di bosco posti alla sua altezza di disabile, di semi di cereali dell’anno prima, messi a bagno in acqua calda e poi cotti, visto che lei non poteva più dare in pasto alle fertili zolle, quei magnifici prosecutori di vita, per di più vietati quasi ormai dappertutto ed introvabili, perchè sequestrati. Era appena appena iniziata l’egemonia degli O.G.M., organismi geneticamente modificati, dietro cui si celavano, spesso, dittatori travestiti da scienziati che tiravano le fila del loro gioco economico, oltre ad inguaiare tutti quanti. Tante erano le persone non favorevoli a quella sorta di stravolgimento socio agricolo e politico economico. Qualcuno aveva deciso che non doveva essere più il seme naturale, a perpetuare la vita. Ciò che l’uomo, agli albori, aveva scoperto per la sua millenaria sopravvivenza, veniva spazzato via cosi’, all’improvvisp e quel che era peggio, senza scrupolo alcuno.

Una mattina, nel paese di Luisa, ed anche altrove, la gente fu destata da un gran vociare confuso, da tutta una serie di imprecazioni e strilli che si mischiavano a vere e proprie proteste. Le persone, soprattutto i contadini, non credevano ai loro occhi. In un’ordinanza del comune era dichiarato, a chiare lettere, che da allora in poi, non si sarebbe più potuto seminare tradizionalmente. I semi naturali venivano sequestrati dalle autorità ed eliminati, bruciandoli direttamente sul posto. Chi avesse osato tentare di sottrarsi a queste condizioni, avrebbe pagato multe salate o addirittura col carcere. Venivano sperimentati su larga scala, gli O.G.M. di proprietà di multinazionali ancora quasi sconosciute. Gli uomimi comuni dovevano acquistare quelli per nutrirsi. Gli agricoltori comperavano e seminavano colture di derivazione artificiale dal sapore insipido e dalla colorazione lucida ed innaturale. Già dopo qualche mese dall’aver ingurgitato dosi a volte massicce, di quei prodotti agricoli, la gente cominciava ad accusare malesseri, specie agli stomaci abituati da millenni a cibi naturali e genuini. 

Era nell’aria e la gente già l’annusava da parecchio tempo, la prospettiva di non poter più usare moneta sonante, ma di adoperare, per i pagamenti, solo carte di credito. Cosi’, tra un’innovazione e l’altra, la gente sopravviveva anche alle malattie virali assai diffuse ed imprecava, specialmente i vecchi, maledicendo la modernità e rimpiangendo i lontani tempi del dopoguerra. 

 

 

       

Cap.10 

 

 

Perchè avessero ucciso Aurora, se così era stato, solo Iddio lo sapeva, ammesso che anche gli altri fossero stati assassinati. Luisa cominciava a pensare che  ci fosse un nesso tra loro. Aiutata dalla sua professionalità, assieme all’anatomopatologo, scoprì che il conte Rampollini fu ucciso. Due forellini minuscoli all’altezza dell’avambraccio interno, tradirono un sospetto: iniezione di nicotina mischiata ad una dose massiccia di insulina per spazzare via ogni traccia di elementi letali. Lei, con esperienza e capacità, riuscì ad aggirare il trucco ed a scoprire l’omicidio. Indagò a lungo sull’albero genealogico del conte e, dapprima scoraggiata dai risultati poco edificanti, si riprese quando scoprì e smussò angoli insospettabili ed intrecci amorosi. Il conte aveva un nipote, Ulderico, figlio del fratello deceduto in miseria ed anche un figlio illegittimo avuto da una cameriera di origini slave, per cui aveva perso la testa. Era “solo” un’inserviente, ma di una rara bellezza e di un portamento quasi regale che l’aiutarono, suo malgrado, nell’adescare il conte. Morì di parto, lasciandogli in dono un figlio, Igor. Non ebbe eredi legittimi dalla moglie Susanna, poichè sterile e per questo sempre triste ed intrattabile. Da una relazione con la prostituta Annamaria, nacque una bimba sempre ammalata, Aurora, a cui passava ingenti quantità di danaro per le cure, ma non si riprese mai e purtroppo il suo futuro poggiava su due ruote di carrozzella. La madre fu abbandonata da lui a cui interessava solo la figlia e lasciata in miseria. Per questo spesso fu minacciato di morte e di estorsioni di danaro  dal fratello di lei. Luisa cominciò a sospettare dei figli illegittimi e del nipote Ulderico. In seguito i figli furono scagionati e l’unico sospettato era il nipote a cui il conte non lasciò nulla, poichè tutti i suoi averi risultavano nel testamento olografo intestati e lasciati in eredità ai due figlioli illegittimi. Luisa, quindi si chiedeva in continuazione chi avesse avuto interesse ad uccidere il vedovo Rampollini. La moglie infatti, morì ancora giovane. Non si sentiva affatto amata, ed anche trascurata, forse per il suo difetto fisico congenito all’organo riproduttivo. Si lasciò morire di inedIa e di malinconia. Forse, il nipote voleva vendicarsi di lui perchè lasciato fuori dall’eredità e per giunta egli aveva un impiego come aiuto medico in una clinica privata e sapeva tante cose di medicina. Era il sospettato numero uno per la morte dello zio, prima ancora della Annamaria, la prostituta e del fratello, ma per la morte del primo presunto ucciso e poi scomparso? Si venne a sapere, in seguito,  che si trattava forse di Igor, mancante all’appello da parecchio tempo, nel vecchio borgo dove abitava in una bella villa, con giardino, telecamera e cani da guardia, due grossi cani lupo, maschio e femmina, che incutevano terrore al solo avvicinarsi-

La donna trovata in fondo al fiume, era oggetto di chiacchiericcio in paese e tutti pensavano fosse l’Assunta, invece era molto più giovane. Lei morì nello stesso periodo, ma in casa colta da malore.

Non accennava a smettere, la pioggia che inzuppava campi, gonfiava terreni ed intristiva le persone già abbacchiate dai numerosi problemi di convivenza ed incattivita dalle regole dei giochi sporchi del potere. Affioravano così, a poco a poco, dalla buca coperta maldestramente da Vincenzo, i resti umani di Igor. Si, era veramente lui, ammazzato in maniera così brutale da chissà chi. Li trovò un cacciatore di frodo, a cui furono sequestrati i fucili, comminata una multa salatissima e rinchiuso in carcere per due mesi. Era la sorte di chi andava a caccia. Ma a caccia di chè? Non esistevano più animali da inseguire, di selvaggina a cui fare la posta e di prede da ammazzare. I boschi erano ormai sguarniti di ogni sorta di animale selvatico. Le poche prede si rifugiavano in anfratti irraggiungibili anche dai cacciatori più temerari, i quali riuscivano nel loro intento, stanando una lepre od un fagiano ed era un caso più unico che raro. Spesso cadevano dai dirupi ed i loro resti si ritrovavano anche dopo anni.

Erano dunque tre gli omicidi commessi, di cui due apparenti, poichè nutrivano dubbi sulla morte naturale dell’Assunta e sull’assalto dei cani lupo nei confronti del contadino Battista, ritenuto da Luisa e dal suo gruppo, un incidente. Avevano dubbi anche per la morte della donna sulla carrozzella finita nel torrente, perchè la maniglia ed i braccioli erano disseminati di impronte diverse tra loro, ed a lei, quasi del tutto estranee.

 

 

Cap. 11°

 

 

Il ricevimento, nella favolosa villa settecentesca, del dottor Casciotti,scienziato di fama mondiale, stava procedendo con tutti i crismi. Ma la donna appariva inquieta. Si leggeva negli occhi mobili e circospetti, l’evidente inquietudine e dimostrava  il suo turbamento nell’agitare le mani in modo frenetico e nel battere i piedi.

Non lo vedeva da un pezzo, perso fra centinaia di invitati, e questo la rendeva incuriosita ed angosciata. 

Il dolore acuto, in lei, si abbarbicava alla pancia, e come orribili uncini, si attaccava alla tortuosità delle viscere e la faceva piegare in due, come trafitta da sottili lame appuntite. Il forte presentimento era sempre più crescente, pari ad una bomba ad orologeria appiccicata alle membrane del cervello come ventosa, destinata ad esplodere, rivelando in modo ossessivo, una cruda verità, o ad implodere e a ritornar dentro come acqua in una canna in salita, descrivendo fulminei attimi di sollievo.

Quel che restava del corpo giaceva in una busta di plastica azzurra, agganciata alla maniglia di ottone della preziosa finestra di vetro di Murano intarsiato, dai magnifici colori sfumati. Ma non erano però i resti di un umano, bensì era il corpicino di un piccolo animale, un topolino ferito appositamente senza alcuna pietà, assieme ai baffetti e ad un pezzetto di coda, adagiati su di una fotografia del suo bimbo. Era una minaccia, chiaramente. La madre, di nome Eva, dapprima emise urla agghiaccianti al di fuori di ogni immaginazione, poi si precipitò giù, nel sottoscala, colta da un furioso impeto , ma tirò un sospiro di sollievo e si sentì quasi librare in aria per lo scampato pericolo, ma subito una domanda affiorò dalle sue labbra e contemporaneamente spuntò dalla sua testa. Il figlio allora, dov’era? In quegli anni bui, nel frattemo, anche l’acqua stava scarseggiando in tutto il mondo.  In Africa e nei paesi del Medioriente, era diventata più preziosa dei diamanti e si arrivava anche ad uccidere per questo. La tenevano in mano pochi potenti che ci speculavano sopra e chi non poteva pagarla a peso d’oro, era destinato a morire di sete. Perciò l’Africa, anni addietro considerata tra i più prolifici continenti del mondo intero, si spopolò nel giro di poco tempo, si impoverì sempre di più e per giunta, gli abitanti non potevano emigrare altrove, perchè le nuove leggi impedivano l’emigrazione dai paesi più poveri a quelli più ricchi, rimasti in verità, molto pochi ed anch’essi spopolati, poichè il ceto medio della popolazione, investito da una crisi economica delle più spaventose, non aveva risorse sufficienti per poter mettere su famiglia. I ragazzi e le ragazze non si sposavano più. Essi vivevano soli o con le famiglie ed il matrimonio divenne un’istituzione quasi scomparsa. Così l’uomo non rischiò addirittura l’estinzione, grazie solo alle unioni clandestine ed occasionali che mettevano al mondo  bambini di etnie miste.

Il calcio ed i divertimenti divennero tabù e si praticavano di nascosto, grazie alle guardie che spesso chiudevano un occhio. Si viveva di solo lavoro e la vita di molti era appannaggio di pochi potenti. Non si aveva diritto alla quiescenza ed il lavoro creativo ed artistico fortemente bistrrattato. I centri commerciali non esistevano più perchè demoliti. Anticamente furono costruiti su montagne di discariche di amianto e di rifiuti nucleari e quant’altro, causando patologie tumorali a non finire. Si incrementò esponezialmente la vendita on line, con aumento vertiginoiso delle truffe, e quella produttore-consumatore, i cosiddetti =gas=, per i più fortunati.

La squadra degli investigatori si precipitò sui miseri resti di Igor, riconosciuto per il rolex al polso ed un gemello ancora agganciato al polsino della camicia Salvatore Ferragamo. Non furono malfattori o ladruncoli ad ucciderlo. Loro avrebbero portato via tutto quel ben di Dio, che solo lui in paese, poteva permettersi. Il movente era di tutt’altra natura. Il gruppo dei RIS di Parma, coadiuvato da Luisa, rinvenne sul luogo del delitto ben tre dettagli, all’apparenza insignificanti, ininfluenti. Un piccolo brillantino, un po di cenere di sigaro cubano, fortunatamente protetta da cumuli di foglie di forma larga e impermeabili ed il legno pregiato di uno stuzzicadenti consunto sulle punte, costituivano prove schiaccianti. Tutti questi indizi distavano tra loro solo pochissimi metri. Imbustarono il tutto e lo consegnarono ai laboratori. Ulderico, annusato nell’aria il pericolo, se la diede a gambe, ma riuscirono a catturarlo e lo sottoposero, con sua totale riluttanza, alla perizia degli esami, e, cosa per lui ancor più indigesta, all’interrogatorio.

 

 

Cap.12°   EVA

 

 

Lui era lì, ne avvertiva il forte odore di uomo bastardo. Eva seguiva il suo istinto femminile, strisciando contro il muro come una serpe e andando dietro la scia di acre e dolciastro profumo seminata dall’individuo, con un coltello in mano. Se lo lasciò sfuggire nell’attimo in cui inciampò contro una sedia, al buio, causando rumore, non prima di aver ricevuto un forte colpo sulla testa che la stordì, cadendo rovinosamente a terra.

Assunta non lasciò questo mondo in modo naturale, visto che si difese strenuamente, nonostante le sue condizioni fisiche. Sotto le unghie, frammenti di pelle umana e peli tradivano quella realtà che, dapprima valutata come ipotesi,  divenne certezza. Sospettarono di Ulderico, ma non erano suoi i frammenti epidermici. Dopo tutti quei delitti, le persone sospettate furono sottoposte ad analisi, esami, perquisizioni, perizie psichiche, interrogatori e quant’altro per scoprire la verità.

Al conte, prima di morire, fu estorto un segreto, quasi una confessione. Gli fu praticata un’iniezione letale proprio nell’attimo in cui decise di parlare, preso da un’improvvisa, grande paura, a lui da sempre sconosciuta. Era ritenuto da tempo, un uomo coraggioso ed autoritario. Sembrava che il mistero di parte dei delitti, risiedesse tutto nel fondo segreto di uno specchietto, ma non fece in tempo a descriverne appieno le fattezze, farfugliando, nell’estermo saluto, solo a chi appartenesse.

Ulderico fu accusato dell’omicidio di Igor. I tre oggetti rinvenuti appartenevano a lui che lo uccise facendogli aizzare contro il cane col collare di brillantini, da Vincenzo, per poter ereditare tutto. Fu lui a legare lo scoiattolino al filo, per attirare il cane lupo di Igor. Affare più arduo ancora, era capire chi avesse ucciso suo zio, il conte. 

 

 

 

SECONDA  PARTE

    Il soldato Schultz

 

  Cap. 13°

 

 

Avvertivano il rumore secco delle mitraglie fin dalle loro cascine. Se non morivano di pallottole o di fame, i più deboli se ne andavano per paura. Ogni volta l’incedere scandito dei giorni, iniziava col cupo rieccheggiare di spari nelle gole profonde delle montagne, nelle ripide anse dei torrenti, nei boschi innevati o sulle creste dei monti riarse, a seconda delle stagioni. Tante si erano inseguite così da troppo tempo, ormai. Sopravvissero solo le poche , dure anime di quel posto maledetto, dove tutto sapeva di fumo e morte, di sangue e di paura, di freddo e di fame, di sapore amaro in bocca, di stracci e di bimbi grondanti catarro e pidocchi, di odore di fumo vecchio incollato ai vecchi, di sottane grigie svolazzanti, di cavolo e rape bollite, sicuro cibo quotidiano, ogni tanto sostituito da rari e preziosi legumi.

Anni addietro, prima della grande follia, quel posto bene si addiceva alla coltivazione dei fagioli dell’inverno, perchè abbondantemente irrorati durante l’estate dal ruscello adiacente la casa.

Giovanni, il patriarca, robusto contadino dalla pelle scura e cotta dal sole,ove ogni ruga contava una stagione faticosa ed abbondante era ridotto,ora, ad un manichino rinsecchito che durante il giorno vagava in qua e in là, senza meta. Lui che era stato sempre un gran lavoratore della terra, ora la osservava con  rimpianto e dolore, non potendola più arare, sarchiare, concimare e gustarne i saporiti frutti.

Il vecchio mulino sul torrente, reclamava, con disperazione, un pò di chicchi di grano da macinare, perchè temeva che la troppa infermità di quegli anni, gli procurasse calcificazione alle ossa e muscoli atrofizzati. In passato era stato la forza vitale più invidiata del paese ed ora pareva un vecchio assorto ed infreddolito, appolaiato al camino crepitante.

Quanto grano era passato sotto di lui, che pestava, schiacciava, sminuzzava sino a renderlo fine come neve, aiutato dai magli potenti spinti dalla forza gigantesca dell’acqua! Quante bocche aveva sfamato! Allora era vivo, pareva un personaggio immancabile del presepe vivente, ora invece si stava lentamente spegnendo ed i segni della vecchiaia si vedevano nel muschio appiccicato alle sue robuste braccia, nella muffa annerita delle sue giunture, nell’umidità che trasudava dalla sua pelle, nella barba trascurata, ormai   

trasformata in spessi fili d’erba alta ed in folto groviglio di rovi, in incolto intreccio di spighe ed in tralci fitti di edera. Le rughe attorno alla cornice di legno dei suoi occhi, non si contavano più, le palpebre erano cadenti, come finestre schiodate che vengono giù. L’acqua che scendeva perenne dentro di lui aveva un suono ormai sinistro e non la gradiva più, sicchè ogni tanto piangeva, irrorandone l’alveo. Non aveva più bocche da sfamare e spesso un senso di inutilità lo sorprendeva e lo faceva sprofondare nella tristezza. Non c’erano più bocche da riempire perchè il grano era finito, la farina introvabile ed esisteva una fame bestiale.

Il timore che il giorno dopo fosse peggio del giorno prima e meglio del giorno susseguente, era palpabile nell’aria tremolante, e scritta dentro la disperazione dei loro occhi. Ogni ora in più costituiva un regalo ed ogni radice che si raspava sottoterra, consisteva nella conquista giornaliera delle disgraziate famiglie che cercavano di unire il pranzo con la cena, incerte sul desco del giorno dopo. Persino le castagne, copiose ai tempi di pace, erano introvabili. 

Sul far della sera, in un giorno dei tanti disperati, Giovanni stava rientrando nella sua cascina con un piccolo fardello di legna sotto il braccio e vide da lontano il tenente maggiore Franceschini che si stava azzuffando con una castagna. Arruffato e sudato, annaspava e raspava furiosamente tra due sassi che, assieme ad altri, formavano un  rudimentale muretto di sostegno dei campi, cercando di impossessarsi del frutto acerbo da mettere assieme alle altre sorelle e che costituiva la cena. Giovanni, senza chiedere nulla, scrollò il capo e proseguì per la sua strada. Doveva affrettarsi perchè i suoi figli reclamavano il combustibile naturale per poter cuocere quelle povere cose, da lui raccolte  nel misero orto. Ma ancor più aumentò l’andatura perchè gli pareva quasi di sentire le pallottole sibilargli vicino alle orecchie, tanto erano prospicenti le guerriglie tra partigiani e tedeschi. Mosso da terrore, raggiunse casa, scavalcando con ampie falcate, massi, sterpi, recinzioni, balzando da un masso all’atro del torrente, come un giovane capriolo.

Cielo sotto, terra sopra, cielo sopra, terra sotto. Stava rotolando in un vortice inarrestabile di polvere e sangue che gli riempiva bocca e narici.  Questa non era, però, la capriola della fanciullezza, che dagli acclivi pendii, si smorzava sulla piatta collina sottostante, tra risate e grida gioiose. Rotolava sulla sua stessa vita, in una giravolta del destino che quel giorno gli fu favorevole nell’imboscata. Scampò, per miracolo o per chissà che cosa, ad un’anonima fine, comune a tutti quelli di allora che finivano morti e dimenticati in fondo ai canali o nelle fosse comuni, rendendo l’anima ad un Dio sconosciuto. Tutti quanti accomunati da un cieco odio verso l’altro che ottenebrava il ragionamento ed eclissava, per sempre, l’amore ed il rispetto per ogni proprio simile, fino a farlo scomparire dentro la nebbia glaciale e fredda della bieca disperazione e della propria egoistica sopravvivenza. Odio che portava ad uccidere, senza pietà, giovani neanche ventenni solo perchè combattevano per la libertà dall’oppressore. Odio che gettava quei poveri corpi nelle fosse comuni, assieme alle lacrime disperate dei loro cari ed alle urla agghiaccianti di dolore. Rotolava, rotolava il soldato, fino a che si fermò. Semistordito, con le mani tentò di tastare il mondo attorno a lui, finchè nello schiarire calmo dell’aurora, sentì qualcosa di fresco lambirgli le orecchie e di umido penetrargli nei pantaloni. Doveva essere capitato in un limbo fatto di cose senz’altro buone e fresche. Era già qualcosa, in quell’universo strano, malvagio e pericoloso. La paura iniziale cedette il posto al disorientamento, che si trasformò in attimi di guardinga rilassatezza. Spostando lo sguardo in qua e in là, si accorse di qualcosa che gli pendeva tra gli occhi, qualcosa di scuro e viscido. Si toccò e si rese conto che era sangue vivo che fuoriusciva da una piccola ferita alla testa.  Le mani escoriate fin quasi all’osso, raccontavano di una lotta impari con rocce, spuntoni e rovi. Quel poco che rimaneva dei pantaloni, ridotti a lembi penzolanti e lerci, sapeva di trascinamenti senza scampo sulla terra rinsecchita ed ostile e quello squarcio sulla camicia madida di sudore, polvere e sangue, offriva pettorali lucidi, robusti e ben levigati da costanti esercitazioni militari. Era un bell’uomo . Piano piano l’universo cominciò a girare, le gambe a barcollare. Svenne e rimase, non si sa per quanto tempo, nascosto tra la vegetazione di quell’orto piccolo, ma ancora ricco di legumi, perdendo tanto sangue. D’un tratto, un urlo lacerante sconquassò l’apparente calma di quel tiepido pomeriggio di fine estate. Lo vide, steso bocconi, con la testa lambita dalle foglie dei fagioli. Scappò, colta da un tremito misto a paura, quando si fermò all’improvviso, si girò e, piano piano d’istinto, pur nel colore sbiadito ed informe, vide la divisa del nemico. Presa subito da uno scrupolo materno, ritornò sui suoi passi perchè in fondo, era solo un uomo bisognoso d’aiuto ed una voce sempre più insistente le diceva <Salvalo>! Era stata da sempre una donna forte e lo dimostrava il suo essere ancora in vita ed in forma a settant’otto anni suonati, in quella tragedia senza fine, dove ognuno teneva, strenuamente, la pelle coi denti. Ma, alla vista di tanto sangue, la sua forza s’indebolì e divenne sconforto, sconcerto, sgomento, folle paura della  morte, mai vista così da vicino. Pareva un cadavere  ed il terrore che incuteva era talmente forte, da farle perdere la parola. Provò ad urlare, ma non le riusciva. Al miracolo si contrappose la tragedia. Una perdita in cambio di una salvezza. Così è l’umana esistenza. C’è sempre un rovescio della medaglia per ogni cosa.

La disperazione per la sua esistenza cambiata in un attimo, sfociò in un pianto umile, trattenuto, quasi per non farlo udire all’uomo stordito e sbigottito per gli strani accadimenti, ma ancora vivo. Respirava sommessamente ed aveva urgente bisogno di cure. Lo lasciò solo, per precipitarsi alla cascina, dove  Giovanni, incredulo e stupito per gli insoliti avvenimenti, cercava di consolare ed incoraggiare la moglie muta e non riusciva a rendersi conto di quale fosse la cosa più urgente da fare.

Passò l’inverno, che permise  una piccola tregua alle due fazioni che preferivano scannarsi al dolce tepore della primavera. L’inverno risparmiò, nonostante tutto, tante vite ed anche quella di Schultz, che migliorava a vista d’occhio. Dimentichi di ogni odio e pregiudizio, figli della guerra, lo curarono con dedizione ed amore, lo sfamarono con quel poco che la cucina poteva permettere loro e gli offrirono sogni tranquilli e caldi scavati nel tepore della paglia, poichè altro non poteva dare quella vecchia cascina fatta di sassi ed amore. 

I primi giorni della nuova convivenza furono difficoltosi, poichè non si capivano, se non con gesti o scritti. Il soldato, che si venne a sapere, in seguito, fosse maggiore, si rese conto, con amarezza, che essi non sapevano nè leggere nè scrivere. Anche i due figli maschi erano analfabeti, per cui dovette gesticolare e grugnire come un piccolo animale del bosco. Poi via,via, con forza di volontà, ed impegno, impararono l’uno la lingua dell’altro.

Intanto i combattimenti sembravano non aver fine e rastrellamenti e nascondigli non mancavano. Riuscirono a tenerlo nascosto dalle incursioni partigiane, visto che si era sparsa la voce di un soldato tedesco sopravvissuto. Lo rinchiudevano ogni volta in pertugi diversi, o sotto terra, in buche ad altezza d’uomo anche per giorni, oppure nel gradile sotto il fieno o sotto la coltre delle foglie di granoturco, oppure assieme ai porci dove nessuno osava avvicinarsi. Nonostante in quel posto maledetto, dimenticato da Dio, giungessero voci di stragi di civili perpetrate dai nazisti, specie nel centro nord dell’Italia, non riuscivano ad odiare quell’uomo, discepolo della scuola hitleriana, ma anzi divenne uno della famiglia che oltretutto, lavorava sodo la poca terra rimasta e rigovernava le bestie da allevamento, in verità poche. Aiutando quelle persone  che, a loro volta gli diedero conforto, cercava di sdebitarsi in qualche modo. Trascorreva le giornate in piena forma, dando sudore e sangue, ma alla fine della sera si sentiva oltremodo soddisfatto ed in pace con se stesso. Mentre si dedicava alle proprie abluzioni serali, ammirava i suoi bicipiti, riflessi in uno specchio scheggiato ed annerito, che ne sformava i lineamenti. Ma non importava l’immagine distorta dello specchio, l’essenziale era star bene dentro, e lo dimostravano i lunghi respiri rilassati che fuoriuscivano dai suoi polmoni possenti ed il suo sorriso compiaciuto. Più tardi poi, si recava alla cena conviviale, dopotutto piacevole ed allegra. Quella cascina era stata sempre isolata e sottratta alle incursioni umane, perchè difficile da raggiungere. Bisognava inerpicarsi su sentieri ripidi e stradine scosciese, ma ultimamente si sentivano grida di ragazzette giungere dal ruscello sottostante, spinte da una febbrile curiosità femminile. Volevano vedere il soldato, perchè, si diceva, fosse bello e forte. 

Le stagioni si rincorrevano e l’anno successivo regalò un’altra vita alla famiglia, in autunno. Adriana perse la testa per il soldato tedesco e tra autentico amore e voglie arrettrate, nacque un bimbo che vollero chiamare Libero perchè erano stanchi della guerra.  Quel figlio fu un  magico dono di vita, in tutta quella morte.

Un giorno, mentre stava raccogliendo il bucato lindo e asciutto dal forte vento, si lanciò verso una camicia volata via sul ciglio della collina e intravvide una pattuglia di tedeschi vistosamente armati che andavano verso la cascina .Prese allora quella drastica decisione, spinto da un’indicibile paura, quando sentì rumori e voci famigliari. L’incedere ritmato e pesante dei passi fin troppo conosciuti, lo fece trasalire. Gettò i panni a terra e fuggì via, verso i pendii. Una fitta fredda alla nuca, gli anticipò un brutto presentimento. Lo avevano visto e non si fecero attendere a lungo. Spari ed intimidazioni ben note, rieccheggiavano sinistramente nella valle. Il terrore di quei famigerati ordini <Halt <Actungh> si insinuava acutamente nei muscoli addominali scendendo giù verso le viscere e la vescica, procurandogli un forte bisogno di mingere. Ma non osò fermarsi. Vedendo che si stavano dirigendo verso la cascina con passi pesanti e cupi, decise di star fuori per due interminabili giorni, temendo per la sua famiglia che, per fortuna, fu risparmiata. Decise quindi inesorabilmente, di fuggire in Germania. Il dolore che provò Marianna, che riprese a parlare, fu immenso. Si oppose con tutte le sue forze alla partenza, ricorrendo a piccoli sotterfugi, come fingersi malata o stanca., ma non cambiò idea. Se non fosse fuggito, avrebbe messo a repentaglio la sua vita e quella degli altri che lo protessero a loro rischio e pericolo. Da una parte i tedeschi lo avrebbero accusato di diserzione ed alto tradimento, passando per corte marziale, dall’altra i partigiani lo avrebbero catturato per ucciderlo, incattiviti dalle continue stragi naziste o per usarlo come ostaggio. Dopo tanti ripensamenti, giunse alla conclusione che sarebbe dovuto partire.

Lasciò, con grande disperazione, compagna e figlio, ma la sua vita era troppo importante, convinto in cuor suo, che un giorno o l’altro, li avrebbe rivisti tutti.

Per ironia della sorte, a guerra finita, Adriana dolcissima e fedele compagna, morì. Gravemente ammalata di tisi, se ne andò tra la disperazione di tutti, senza aver potuto assaporare la gioia per la vittoria degli italiani e degli alleati, in quella assurda guerra e senza godersi il sollievo per quei terribili cinque anni di sofferenza finiti, che accomunava tutta la gente, ora libera e sicura.

Molti anni dopo la guerra, tornò a casa e non trovò più i suoi vecchi, ma un ragazzotto biondo e bello, gli si gettò incontro. Ebbe una  fitta al cuore. Somigliava tanto a sua madre ed una lacrima scese giù. Ma la ricacciò indietro, quando vide tante faccine solari e gioiose. I suoi nipoti lo avevano circondato allegramente.

Ripartì alcuni mesi dopo, poichè in Germania l’attendevano una moglie ed il suo nuovo lavoro, con la promessa che sarebbe rimasto per sempre con loro. Alla sua morte, lo seppellirono nel cimitero di quel pezzettino di mondo, dove trovò autentico amore ed affetto, lontano dall’odio e dal disprezzo, figli scellerati della guerra che da sempre divide gli uomini. Prima di morire, Adriana lasciò in ricordo per Schultz, ormai lontano, uno specchietto con all’interno una fotografia di lei ed alcuni semi di papavero che lei adorava ed alcune spighe di grano.

Un giorno, prima della partenza definitiva, si recò al lavatoio per concedersi l’ultimo risciacquo in quelle acque così fresche. Appoggiò lo specchietto sul bordo del lavandino e lo dimenticò, forse colto da mille pensieri e da preoccupazioni sul proprio futuro. Lui se ne andò e lo specchietto rimase lì sopra non si  sa per quanto tempo, finchè non sopraggiunse l’inverno ed il lavatoio gelò.

Allo sbocciare di una delle tante primavere, quando finalmente neve, pioggia, vento e ghiaccio passarono il testimone a giorni più tiepidi, l’ultima coltre bianca sul lavatoio, posto perennemente all’ombra, sciolse piano piano le sue lacrime ghiacciate, svelando lo specchietto abbandonato. Eva, la nipotina, abbagliata dal suo splendore, si avvicinò e, a bocca aperta per l’ammirazione, se ne impossessò e fuggì via, accantonandolo, poi, tra i suoi oggetti più segreti. 

Prima di andarsene, Schultz diede ancora una volta dimostrazione della sua indole buona ed altruista.

Esisteva, non molto lontano dal vecchio mulino del paese e soffocato dalla vegetazione, un convento che pareva abbandonato da tempo. Dava l’impressione, però, di essere frequentato saltuariamente. Ogni tanto, vecchie jeep di tedeschi e grigie motociclette due posti, sfrecciando, scalfivano lo sterrato con le ruote rabbiose, emettendo un rumore tristemente familiare e, scalpitando, sparavano detriti in ogni direzione. Sparivano, poi, inghiottiti dalla polvere, verso il convento, facendo ritorno, qualche ore dopo, ubriachi fradici. Al mulino si sentivano provenire, ogni tanto, voci da quella direzione, ma tutti pensavano fossero i bimbi nel fiume adiacente. In realtà, sommesse voci di fanciulle e di suore, che si mescolavano ad una tonalità più bassa, quella del prete, davano vita ad una scuola. Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe accaduto di lì a poco. Nell’angolo più elegante e nascosto del convento, ancora intatto, un gruppo di prostitute stava risistemandosi, dopo essersi intrattenute con i tedeschi che, con prepotenza, avevano preso possesso dell’edificio, infilandoci dentro le donne da usare a loro piacere. Il feldmaresciallo si stancò ben presto di quelle ragazze, quando scoprì nell’altra ala del convento, un folto gruppetto di ragazzine poco più che adolescenti e fanciulle che avrebbero soddisfatto, in un futuro troppo vicino, gli appetiti suoi e degli altri scagnozzi. Il giorno dopo irruppe nella scuola, con divisa impeccabile e stivali lucidi come un fiume baciato dalla luna, assieme a due piccoli ufficiali che imbracciavano due grandi fucili. Chiamò da parte il prete che ascoltò tutto e, mentre il colorito del suo viso variava dal rosa al rosso e poi, al bianco mortale, deglutì rumorosamente ogni flebile tentativo di obiezione, quando gli presentarono una canna di pistola alla tempia. Per dimostrare che non scherzavano, agguantarono la più spaventata delle ragazzine e la scaraventarono per terra, accostandole una pistola alla nuca. Una fragorosa risata rieccheggiò cupa nell’aria tesa e densa di ogni sensazione che non fosse paura, sgomento, tremore, quando, invece di colpire la testa, il feldmaresciallo sparò in aria. Ma per rendere ancor più chiare le sue torve intenzioni, trascinò la ragazzina ed una suora con sè, con l’insano intento di far decidere, alla svelta, il povero prete. Le ragazze sarebbdero dovute diventare meretrici ai piedi dei soldati tedeschi, pena la morte.

Le fanciulle erano vestite tutte uguali e pettinate coi capelli corti alle orecchie, com’era d’uso allora. Avevano a disposizione quarant’otto ore per decidere e, ovviamente, se si fossero opposte, sarebbero state uccise, in modo sicuramente barbaro. Il pianto comune e disperato faceva compagnia ai pensieri ancora confusi e sconclusionati del prete. La più intraprendente delle prostitute, messa sotto stretta sorveglianza, riuscì a corrompere ed ubriacare la guardia, scappando poi verso il passaggio segreto. Ascoltando, dietro un muro, seppe della tragica situazione. Se ne andò via subito e le venne in mente un’idea. Avevano a disposizione solo un giorno e mezzo e pensò ad un piano che doveva comunicare subito al prete. Tutte e otto le ragazze, più l’eunuco, passarono davanti alla guardia ancora stordita. Sorse il problema del numero che non corrispondeva. Le ragazzine erano nove e le prostitute invece otto . Si offrì il ragazzo eunuco. Quindi, con perizia degna di lode, le otto si trasformarono in nove. Avevano il medesimo taglio dei capelli sistemati dal ragazzo, un esperto barbiere e per appiattire i seni, usarono degli asciugamani. Le prostitute si sarebbero poi sostituitte, in modo eroico, alle fanciulle, per risparmiare loro una tremenda esperienza. Mancava poco allo scadere del termine stabilito e dovevano studiare un piano di fuga per le ragazzine. Il canonico Pietro, amico del maggiore Schultz, andò alla vecchia cascina con l’intento di farsi rilasciare un documento falsificato, una specie di lasciapassare con la firma del feldmaresciallo imitata alla perfezione. Quindi fuggì sul vecchio camion arruginito. Quando i tedeschi lo fermarono, offrì loro cassette di viveri e bottiglie di vino, sotto le quali si nascondevano le fanciulle, ormai salve. Delle altre otto e dell’eunuco non si seppe più nulla.  

  

 

 

TERZA PARTE

                                                          Ludwigh

 

  Cap.14°

L’anfratto buio gli stava stretto, ma tanto stretto che doveva tenere le gambe rattrappite con le ginocchia che toccavano il mento. I polsi dolevano nella stretta, per le grosse corde. Non poteva vedere le sue dimensioni, perchè bendato, ma tastando coi piedi, si rese conto che il luogo era molto piccolo. Con l’unico senso rimastogli ancora  a disposizione, annusò un forte odore di muffa e di stantìo. Anche le orecchie gli erano state tappate. Isolato dal resto del mondo, si sentiva in preda ad un indicibile terrore. Doveva aiutarsi per forza con l’olfatto e fece in modo di acuirlo come un vero segugio. Del resto, era l’unica via di fuga da quell’inferno che certamente non meritava, ignaro del suo tragico carma. Aveva raccolto tutte le negatività di tanti anni e doveva scrollarle di dosso con forza e volontà. Non sapeva da quanto tempo si trovasse in quella posizione così’scomoda e, da ragazzo di chiesa, divenne improvvisamente blasfemo. Stava snocciolando le sue imprecazioni silenziose, quando aprirono quel posto assurdo. Nell’aria già satura di odori stagnanti, avvertì quel puzzo di sudore acre e vecchio, di persona agitata e sporca. Non si rendeva conto, ma aveva già trascorso ventiquattro ore senza mangiare, bere e dormire. Per questo pensarono di sfamarlo con tutte le cautele e le attenzioni possibili. Era un bene prezioso e perderlo significava morte certa per loro, da parte del capo. Si abbassarono,  quasi strisciando, gli tolsero la benda dalla bocca e, a occhi chiusi, ricevette il cibo che subito rifiutò, ma assaggiandolo, non disdegnò di continuare provando via via gusto. Era digiuno da parecchio tempo. Lo dissetarono e, legandolo ed imbavagliandolo di nuovo, non si accorsero che ad uno dei due mancava un piccolo coltello a serramanico. Tagliandosi con molta fatica e mille contorsioni, le corde che lo stringevano ai polsi ed ai piedi e strappandosi il nastro adesivo dalla bocca, si ritrovò a sollevare un gran peso sopra la testa, come una specie di grossa botola. Unì tutte le sue forze e sbirciò fuori, vedendo finalmente la luce, che gli fece quasi male agli occhi. Sentì un fitto brusìo di voci in lontananza, poi sempre più vicine e distinte. Udì anche una strana voce meccanica e metallica, più che umana, annunciare qualcosa in inglese. Dov’era? Un centro commerciale, una piazza, un’aeroporto, un mercato rionale?

 

 

cap.15°

 

 

Eva si destò dalla brutta caduta, intontita e con un gran mal di testa. Si chiedeva perchè il tizio le avesse risparmiato la vita. Nella penombra scorse il viso dal naso rincagnato, totalmente calvo e senza sopraciglia ma, guardando meglio, le vide, molto chiare, quasi  bianche, da albino. La fissava in modo strano, tra il sarcastico ed il compiaciuto. Teneva la pistola abbassata in una mano ed il manganello ciondolante, nell’altra. Inaspettatamente gli si avventò contro, ma riuscì ad evitarla, facendola di nuovo piombare a terra. Si alzò di scatto, inviperita più che mai e finalmente chiese: < Chi sei, che cazzo vuoi?> Sorrideva ironicamente, rendendola sempre più furibonda. La teneva per il polso, che le doleva per la stretta troppo forte e con un bacio certamente inaspettato, cercò di quietarla, ma ottenne l’effetto contrario. Cominciò a graffiarlo come una gatta impazzita. La prese nuovamente per i polsi e la gettò sulla branda. Col cuore che batteva troppo forte, si aspettava un’aggressione meno romantica della precedente ed invece le parve di sentirlo parlare. Nel momento in cui il panico stava piano piano scemando, le parve di percepire una voce strana, un pò roca, ridondante  e cupa, dall’accento straniero. Le chiese se avesse un figlio e d’improvviso, qualcosa si risvegliò nella sua mente assopita dalla caduta. Già, il figlio dov’era? 

Ludwigh, appena fuori dalla botola, passato il momentaneo torpore della segregazione, cominciò a correre come una lepre. Ma non si trovava in una radura, bensì all’interno di una stazione. Non si rese conto, lì per lì, di quale stazione si trattasse, perchè circondato da una serie di treni delle più svariate tipologie e dai molteplici colori, dal grigio all’azzurro, al rosso, al bianco, al verde e che coprivano l’insegna. Nel momento in cui qualcosa gracchiava il nome di una città, si sentì sollevare di peso da dietro e agguantare per i vestiti, proprio all’altezza della nuca, come un fagotto troppo leggero. Lo riacciuffarono.

Intanto Luisa stava ispezionando la carrozzella di Assunta, quando avvicinando il viso per prelevare le impronte, venne assalita da un odore pungente di dopobarba che sapeva di sandalo, rosmarino e limone. Frugava nella memoria olfattiva, alla ricerca di quell’aroma, ma non si ricordò di averne annusato di simili. Continuò quindi nel suo lavoro sui resti di Aurora e, squadrando il corpo gracilino e deforme, ripensava a quell’odore. Sulla sedia a rotelle,  le uniche impronte lasciate erano quelle della vittima. E questo era molto strano, perchè da subito, esaminandole, ne venivano fuori molte, molte di più. Doveva buttarsi sul resto. Voleva indagare a fondo sulle ferite, ma testarda come un mulo, non demordeva sul costosissimo dopobarba. Fece ispezionare l’unica bottega del borgo, ricettacolo di cianfrusaglie ed anche di qualche oggetto utile, ma non rintracciò la marca. I pochi abitanti del paese furono distolti dalla loro quotidianità ed invasi nella silente intimità abitativa. Voleva quel profumo ad ogni costo. Non lo trovò-

Alla fine le usò violenza. La possedette senza nemmeno troppa fatica. Del resto entrambi, dal primo momento, provarono attrazione, quella tipica della vittima verso il carceriere. Lui, incantato dalla sua bellezza teutonica e lei, affascinata e stuzzicata dalla situazione, e sedotta dal fatto che fosse straniero, finirono per ritrovarsi avvinghiati e, dimentichi dei loro ruoli, passarono la notte tra mille giochi, dal tenero erotismo, alla più sfrenata libidine. Eva si destò, ed ancora impregnata dei fumi del sesso e con le labbra rese arse dai baci focosi, si avvicinò 

al lavandino per bere. Ora le cose per lui si complicavano. Doveva essere duro e perciò cambiò improvvisamente atteggiamento. La sorprese da dietro e la legò, ma non per gli scopi appena appena trascorsi ed ancora nitidamente presenti. La immobilizzò e gli toccava ora il ruolo più infame: interrogarla. 

Intanto la gente si era ormai abituata a tutti i cambiamenti sociali degli ultimi anni. Eravamo nel 2026. Ogni abitante veniva controllato nei suoi spostamenti quotidiani da altre persone mediante microchip sottocutanei. Dicevano, per proteggerli. Ad ogni bimbo, pochi mesi dopo la nascita, veniva inserito sotto la pelle, quel microscopico oggettino costoso e gratuito, viste le pochissime nascite. Chi li inseriva, poteva anche permettersi di offrirli. Rassicurava le madri lontane dai  propri figli che erano a scuola, o all’asilo e potevano addirittura vederli e sentirli  Forse però troppa teconologia non andava bene.  I grandi neuroscienziati ed i luminari della tecnologia digitale offrivano il loro contributo per  applicare a cervelli malati, stanchi e vecchi, dei congegni elettronici in grado di migliorare o addirittura ottimizzare la sua funzione ed il suo rendimento. In pratica, quando andava bene, creavano dei piccoli esseri strani ed innocui, o quasi.

 

 

Cap. 16°

 

 

Si divertiva, da bambina, a saltellare nel bosco vicino a casa, a contatto degli animali e della natura. Eva faceva a meno della compagnia dei fratellini più grandi che, tutti maschi, privilegiavano la caccia e la pesca. Lei invece no, perchè amava troppo gli animali. Quando rientravano a casa riforniti di conigli catturati con piccole frecce o uccellini presi con le trappole o canestri pieni di pesciolini agonizzanti, scappava via infastidita ed arrabbiata. Amava tanto gli animali che, disgustata e triste, fuggiva per ore nei prati inseguendo e spiando i fratelli e poi, appena poteva, liberava gli uccellini dalle trappole, faceva scappare i pesci dalle ceste e fuggire i conigli selvatici sopravvissuti. Si divertiva un mondo ad ascoltare le dolci melodie che lentamente se ne uscivano dal carillon all’interno dello specchietto. A furia di saltare, correre, arrampicarsi, sdraiarsi sul prato,, Eva lo perse tra i fili d’erba alti ed aggrovigliati e non riuscì più a ritrovarlo. Molto tempo dopo, sarebbe diventato un soprammobile di tutto rispetto in una casa nel bosco.

Arrivarono in tre, accompagnati dal frastuono di una maledetta pioggia, ed avvolti dalla nebbia minacciosa ed angosciante, che calzava loro perfettamente, parevano personaggi galattici, tetri ed opprimenti.

Spalancarono la porta con un calcio e la sorpresero a mangiare pane e verdure che parevano di provenienza biologica. Già era perseguibile per quello, ma non fu certamente il motivo della loro visita. Non li sentì arrivare, coperti dal rumore dei tuoni e della pioggia, altrimenti si sarebbe nascosta in un luogo segreto e buio che solo lei conosceva. Occhi contro occhi, capì subito che non erano arrivati sino lì per scopi pacifici. Iniziò a tremare e per spaventarla ancor di più, presero la carrozzella e la fecero girare maldestramente per un paio di volte. Poi finsero di sbatterla contro il muro, ma lei, impaurita da mancarle il fiato, continuava a non capire. Sentiva la fisicità del terrore morderle gli arti superiori e la parte alta della schiena, perchè l’altra metà l’aveva lasciata in un giorno infausto. Le gambe rimasero appicciccate a lei, solo come inutili orpelli e, seppure in uno stato confusionale, distingueva nitidamente il terrore lambirle il cuore impazzito.

Iniziarono a schiaffeggiarla, senza tanti preamboli e lei proprio non capiva il perchè. Dinnanzi ai suoi occhi tumefatti, vedeva scorrere visi di genitori e persone che un tempo non riuscì ad aiutare, ma osservando tra le lacrime salate quei tre, che poi divennero sei, per via della vista che si annebbiava velatamente, non pareva di ricordarli. Temeva potessero ripetersi gli errori del passato, ma ormai, più che su di una sedia a rotelle, dove l’avrebbero mandata?

Sperava in una loro clemenza, ma non arrivò e casomai, non prima di averle fatto confessare dove si trovasse il famigerato specchio. Dopo, poi, avrebbero pensato di sbarazzarsene, altro che pietà! 

Questa volta non li sentiva suoi, i panni del carnefice-torturatore. Di solito li calzava perfettamente, ma ora doveva stare guardingo ed attento più che mai, a non fare passi falsi. Staccare la” spina” dalla notte passata e magari infilare quella elettrica e reale, in qualche parte del corpo di Eva, peraltro ben conosciuto, per farla “cantare”, come fatto già decine di volte con altre vittime, gli riusciva molto difficile. Lei giaceva ancora legata e supina sulla branda e lui pensò bene di allontanarsi e di cercare un pò di ausilio allucinogeno per poter continuare. Dalla borsa da “lavoro” estrasse una certa quantità di eroina che gli sarebbe di certo bastata.

Luisa, nel frattempo, si metteva le mani nei capelli per il troppo impegno. Non sapeva più da che parte cominciare

 e non aveva idea di dove provenissero le poche impronte sulla carrozzina di Aurora e la colonia su quella dell’Assunta.

I sonni di Giacomo, aiutante e coadiutore del commissario, poco pagato e stressato dal troppo lavoro, erano sovente turbati e confusi. La sua coscienza bussava alla porta della sua etica professionale, ormai scemata assieme a giuraamenti ed onestà. Alla fine non ce la fece più e confessò-

Battista, quella mattina si alzò molto presto, come tutte le mattine. Se voleva evitare il caldo torrido della mietitura, doveva levarsi prima del canto del gallo. Arrivò alla piccola baracca, posta all’ombra di un grande ciliegio, albero dell’allegria e dell’amicizia, prese i suoi attrezzi da lavoro ed iniziò ad armeggiare fra gli steli maturi. Sul finire dell’ opera, ormai stremato, udì delle urla provenire dal bosco sottostante. Si avvicinò e distinse nettamente le voci molto conosciute, che si scambiavano parole dapprima concitate, poi drammatiche e tragiche, tra latrati paurosi, e guaiti interminabili. E dopo, il silenzio. Abbandonò tutto e fuggì, senza accorgersi però, di essere stato visto. Tra i suoi passi intricati e maldestri, si insinuava la paura e tra i suoi pensieri confusi, non riusciva a ricacciare indietro quelle urla. La mattina dopo non avrebbe più udito nè più visto nulla. Assistette, senza però vedere, ma solo ascoltando, all’omicidio di Igor. La gente pensava fossero state le guardie O.G.M.

Giacomo, sconsolato e disarmato di ogni difesa, si recò dal commissario Paoletti con l’intento di confessare ogni cosa, sia la corruzione avvenuta, suo malgrado, sia il desiderio incontrollabile di redimersi, e forse addirittura di dimettersi. A quello avrebbero pensato, poi, i suoi superiori, casomai. Ricevette dall’assassino un bel gruzzoletto che consentì alla sua famiglia di tirare avanti qualche mese dignitosamente e non tra gli stenti, come fino ad allora.

Ma quel gruzzoletto stava pesando troppo sullo stomaco. In fondo, da subito non gli era parsa una cosa tanto grave cancellare alcune impronte dalla carrozzina in sua consegna, negli uffici della questura di Parma. Ora quella trasgressione gli pesava come un macigno. Confessò, fu arrestato, perse la dignità di uomo della legge, offuscò la stima dei famigliari, ma potè finalmente dormire sonni tranquilli tra pareti troppo vicine ed umide. Nonostante i modi ” convincenti” del commissario e della sua squadra, non disse chi fosse l’assassino.  Aveva troppa paura. Lo avrebbero fatto poi “cantare  in seguito.

Le impronte appartenevano ad Ulderico, che volle sbarazzarsi di Igor e della 

sua sorellastra, nonchè sua cugina acquisita, eletti eredi universali, per impadronirsi di tutti i beni.

Nell’esaminare attentamente il corpo di Igor ed il cadavere di Battista, l’anatomopatologo si soffermò a lungo sulle ferite inferte dal cane lupo. Non pareva del tutto convinto. C’era qualcosa che tuttavia gli sfuggiva, come sabbia tra le dita. Ci vollero giorni e giorni, per poter arrivare ad una conclusione e perdio, ci arrivò. Doveva darsi da fare, se non altro, per sfuggire alle pressioni petulanti di Luisa, donna eccezionale, ma tanto insopportabile ed ancor di più perchè, da mezzo misogino qual’era, odiava essere superato dalle donne. Sicuramente ci sarebbe arrivata prima lei, alla soluzione. Sai che smacco per lui, uomo tutto d’un pezzo, dalla carriera folgorante, impeccabile ed “immacolata”. In pratica scoprì che ad assalire le due vittime, non erano stati gli stessi cani lupo, ne era certo, bensì due mastini. Ma a chi appartenevano? Probabilmente Igor fu assalito da cani lupo, ne era strasicuro.

 

 

Cap.17°

 

Ludwigh era stato nel frattempo, ricatturato. Luisa era vicina alla soluzione dell’acqua di colonia e ben lontana dallo scovare l’assassino di Rampollini e di Battista, morti stranamente, e dalla soluzione della morte dell’Assunta.

Eva era stata interrogata da Horst Franz per farsi dire dove poteva essere lo specchietto, pena la morte del figlio Ludwigh.

La stazione di Roma termini si presentava in tutta la sua particolare luminosità, quella dinamicità tipica, quegli inimitabili shop, quell’aroma intenso di caffè e di lieviti. Dai pertugi della stazione, che celavano scorciatoie e botole segrete, al tramonto, venivano fuori, alla luce dei neon, eserciti di formiche umane, chiamati così non per spregio, ma perchè vederli comparire e scomparire all’improvviso, frugare dentro i sacchetti dei rifiuti e imprecare contro il distributore di bibite che non aveva lasciato loro nemmeno un centesimo, davano l’idea di un formicaio brulicante. Sulle prime, la gente veniva sorpresa dalla loro triste condizione e dal modo di procacciarsi pezzi di cibo avanzato, bottigliette di acqua iniziata e gettate via, cicche di sigarette in terra, poi non ci faceva più caso.

Quelle persone disgraziate tiravano fuori dalle botole segrete le loro cose per giacere la notte e si stendevano, chi per terra, chi sulle panchine di granito che nascondevano sotto il coperchio i loro segreti, parte integrante della loro vita. Proprio in uno di questi pertugi molto piccoli, stava rintanato Ludwigh, nuovamente prigioniero e totalmente inconsapevole del destino che lo attendeva.

 

Cap. 19°

 

Non parlò, nonostante le torture inflitte da una mente non lucida e da mani non pienamente convinte. Non svelò nulla, Eva, anche perchè non sapeva niente dello specchietto. Si ricordava solo di averlo smarrito da bambina in un prato vicino casa, poi più nulla. Ignorava il fatto che lo avesse ritrovato proprio Luisa, prima perso da Eva e poi ritrovato da lei stessa. Approfittò di un attimo di debolezza fisica del suo carceriere, che si assopì fino a russare, per fuggire da quell’angoscia, da occhi tumefatti, arti doloranti e sangue, tanto sangue ovunque. Rovistò sapientemente tra le tasche di lui e trovò le chiavi della porta dalla quale uscì, per non tornarvi mai più. Aveva ora uno scopo prioritario ed era trovare suo figlio. Questo pensiero le fece dimenticare la causa di tanta sofferenza. Dello specchio non le interessava più nulla. Pensò di rivolgersi a Casciotti, di cui si fidava ciecamente. In fin dei conti era lo scienziato più potente del momento, l’uomo a cui avrebbe affidato, senza remore, il ritrovamento di Ludwigh, il maschio a cui sacrificò la sua virtù più femminile e nascosta ed a cui spalancò le porte della sua prima infatuazione. Era affascinata più dal potere, allora già forte in lui, che non dalla bellezza, tipicamente latina di un anonimo collega, già molto in gamba. 

Lo rivide al ricevimento e per poco non si sentì mancare. Era ancora pazzamente affascinata da lui che esercitava su di lei un potere sessuale tremendo. Si rincontrarono nel bar più scalcinato di Roma, per non dare nell’occhio e, scambiandosi effusioni, tra caffè e cornetti, riuscì a strappargli una promessa solenne. L’avrebbe aiutata a ritrovare il figlio. Erano anni che lei non si sentiva così euforica. Riuscì a toccare il cielo con tutte le dita, a camminare “sull’acqua”, a volare e mille stellette di felicità guizzavano intorno a lei.

Passavano i minuti, le ore, i giorni, i mesi, ma del figlio non seppe nulla. Tempestava di telefonate quell’uomo in cui credeva forse troppo ed ogni volta aveva il sapore di una mera promessa fino a che lei non sentì muto quel piccolo, odiato oggetto e cadde in preda alla più terribile delle disperazioni.

Intanto Luisa, con l’aiuto dell’anatomopatologo Lucchini, scoprì che i mastini appartenevano alle guardie O.G.M. che quella mattina persero il controllo e non poterono far nulla per fermarli contro Battista, in quanto agitati e frementi più che mai, seguivano le tracce di un cacciatore di frodo. Si avventarono feroci contro di lui. I due poi furono arrestati e sospesi. Fecero meno di un anno di galera con la condizionale, solo per occultamento cadavere, scoperto pochi giorni dopo.

Quel pomeriggio piovoso non aveva gran che voglia di uscire. Da giorni e giorni stava china su scartofie, computer, fotografie, impronte. Al microscopio aveva quasi perso la vista e gli occhi ,ormai, poteva buttarli nella spazzatura differenziata, come oggetti usati e vecchi. Decise quindi di distrarsi un pò per negozi e vetrine. D’un tratto un’automobile scura si avvicinò a lei che, quasi intuendo quel pericolo, si scansò e si mise a correre, ma non fece in tempo a fuggire. La presero in due e di peso la gettaronoi letteralmente sul sedile posteriore ed in una manciata di secondi, sparirono nella nebbia.

Luisa si chiedeva che diavolo avesse di così importante quel dannato specchietto. Si accorse quando era troppo tardi,di averlo perduto. Era stato da sempre il suo amuleto che la accompagnava in ogni spostamento, lo toccava come portafortuna prima di intraprendere un’indagine, lo conservava nella sua collezione di borsette ed ascoltava il suo carillon nei momenti tristi. Anche allora era un brutto momento, ma non poteva ascoltarlo.

La ridussero uno straccio, quegli sconosciuti così crudeli. Non sapeva veramente dove fosse finito, sapeva però che la sua vita stava vacillando ed avrebbe sicuramente” cantato” per salvarsela. La tennero prigioniera dieci lunghi giorni, finchè non la liberarono. Uccidere un personaggio così importante, poteva essere controproducente e molto rischioso. Per fortuna si convinsero che non era lei a possederlo.

Eva divenne l’ombra di se stessa. Aveva occhi scavati, fosse sul viso, era scheletrica e pallida. Non dormiva da chissà quanto tempo. Nel silenzio ovattato da psicofarmaci e calmanti più blandi, le parve di udire lo squillo del cellulare. Sentì dieci parole perentorie: < Dimmi dov’è lo specchio e ti ridaremo tuo figlio>. Eppure doveva essere per forza in casa dell’Assunta. Fu lei a ritrovarlo nel bosco, testimone di vicende oscure, altalenanti, di omicidi, di cose perse e ritrovate.

Tornarono in quella casa, sicuri di impossessarsene, visto che Luisa non parlò. Fu il solito poliziotto corrotto, Giacomo a riferire di averlo visto nella borsetta di Luisa e poi in casa di Assunta. Frugarono dappertutto, gli scagnozzi senza scrupoli. Buttarono letteralmente all’aria quella casupola rimessa a nuovo con perizia e pazienza, ma senza nessun esito positivo.   

 

Cap. 20°

 

 

Luisa e gli altri erano ben lontani dallo scoprire gli assassini.

Al secondo ricevimento del dottor Casciotti, altrettanto sontuoso come il primo, partecipò anche Luisa, su invito dello scienziato. Voleva lavorarsela stavolta, senza violenza. Gli argomenti trattati la affascinavano, anche se, spesso, pensava ad altro. Si stava diffondendo in quasi tutto il mondo, una rara epidemia che si sarebbe trasformata anni dopo in una pandemia terribile con tantissimi morti e tanta paura e disperazione, paragonabile alla vecchia peste che colpì l’Europa nel lontano 1660, e lui era lo scienziato più affidabile ed esperto del momento che poteva debellare e stroncare quella malattia virale sul nascere, che colpiva vari organi umani e senza antidoti o cure adeguate, li spappolava.  Ad un certo punto le sfiorò il viso con le dita ben curate. Le venne un tuffo al cuore, quando avvertì, per un attimo, quell’acqua di colonia conosciuta. Al diniego di lei, lui si infuriò veramente e lo vide trasformarsi da uomo pacato, in una bestia inferocita. Riuscì a fuggire, non prima di avergli gettato il calice di champagne negli occhi. Correva con quanto fiato aveva in gola e si imbattè, con sua sorpresa, in un corteo medievale. In quel periodo così nefasto e distruttivo, in cui il potere bancario vacillava fortemente, la sede principale dei tributi saltava in aria in un attentato, distribuendo parte dei soldi ai poveri, in cui la chiesa cattolica e quasi tutte le altre religioni vivevano un brutto momento, il santo natale era solo un un piacevole ricordo e divenne ben presto una fiaba come cappuccetto rosso, si percepiva fortemente un richiamo al passato, indietro di vari secoli. Addirittura al medioevo o al rinascimento, come se la gente non vivesse bene nel periodo attuale.

Le multinazionali farmaceutiche, assieme al libero commercio e consumo della mariyuana ed al traffico delle armi, avevano acquisito potere mondiale, calcolato in valori economici inestimabili. La gente riconobbe l’uso sfrenato e dissennato di internet e sopratutto gli smartphon come nocivi e quindi essi retrocessero economicamete, guadagnandone in salute. Le malattie terribili legate all’uso spasmodico delle alte tecnologie sofisticate, e non solo fisiche, ma anche mentali, frenarono   un poco questo commercio.

Gli uomini piano piano, cominciavano a capire lo scopo essenziale del vivere, ad assaporare altri valori che non  fossero per forza il danaro e l’apparire. Imparavano, poco per volta, ad esistere anche un pò nell’ombra, senza per forza mettersi in mostra ed iniziavano ad assaggiare i piaceri del giorno, dall’alba al tramonto, scoprendo l’essenza della quotidianità, dei piccoli gesti, ricordandosi di avere anche un sorriso a loro disposizione, per salutare il nuovo giorno ed il primo incontro del mattino.           Era il corteo di   

  

 

  popolani, indigenti, arceri, cavalieri , dame, damigelle, notari,, del clero, del podestà, dell’ imperatore, dei duchi, marchesi, conti, che attraversavano le vie di Argo, sotto il tiepido sole di fine estate. Si confuse tra le numerose popolane dalle vesti lunghe e colorate, un po logore.

Una delle più interessanti manifestazioni storiche di quei tempi, tempi malgrado tutto così postmoderni, chiamata Medievalis si teneva in questo piccolo paese, ricco di tradizioni e culture ancestrali, con le dovute precauzioni prese per un eventuale insorgere di epidemie, notoriamente frequenti. Si provvedeva alla disinfezione delle strade con potenti sostanze chimiche.

Luisa si rintanò nell’antico postribolo e da lì, poi, nell’osteria e si dileguò di nuovo tra cavalieri ubriachi e popolane procaci e dame deliziose, per ritrovarsi al lebbrosario che la fece trasalire e rabbrividire, tanto pareva vero.

Riuscì, per un attimo, a depistare gli inseguitori  che furono di nuovo alle calcagna, quando notò rivoli di fumo innalzarsi tra le nubi. Assistette al rogo di una strega e scappò via di nuovp, un pò per paura e un pò per l’impressione sgradevole che procurava la scena, anche se finta. Si ritrovò, non si sa come, sotto lunghissime gambe di legno, che falciavano e fendevano l’aria ad ogni loro spostamento e con movimenti eleganti e sinuosi, stupivano la gente tutt’intorno, estasiata dai lucenti colori. I trampolieri, per poco, non la calpestarono. La evitarono per un soffio, nelle loro fantastiche giravolte e si ritrovò a dover fuggire di nuovo dagli inseguitori, in quella moltitudine. Si riparò sotto le arcate di un antico ponte medievale dove potè, finalmente, tirare un sospiro di sollievo, ma non per molto. Li guardò avvicinarsi in lontananza, quando si distrasse un attimo alla vista di un volatile stupendo. Era un’aquila reale che volteggiava sul suo capo, in quei tempi, un animale rarissimo e prezioso. Una dimostrazione di rapaci guidati dal loro cavaliere addestratore  si teneva proprio lì, in zona. Rimase un momento incantata e fu in quell’attimo in cui stavano per ricatturarla, che uno di loro era stato colpito duramente dall’asta di una bandiera disegnata con loghi di natura medievale, una croce rossa e gialla, su sfondo bianco, in mezzo ad ornamenti dorati ed arancioni. Riuscì a divincolarsi ed ancora una volta si dileguò, raggiungendo la sua dimora, momentaneo rifugio in quanto era pericoloso, per lei, rimanere ancora lì. Dovette cercarsi un’altra abitazione e le venne in mente la grotta del diavolo. Si trasferì col minimo indispensabile, in quel luogo fuori dal mondo e fuori dal tempo. La seconda caverna le parve un rifugio caldo ed accogliente. Mai si sarebbe aspettata dalla vita un simile imprevisto. Dovette abbandonare computer, televisione ed ogni altro comfort, per vivere alla stregua dei suoi antenati. Non lo disdegnava affatto. 

Sulle prime, le mancavano molto tutti gli oggetti tecnologici, poi man mano si abituò al silenzio ed alla solitudine mitigata dal canto degli uccelli la mattina, dallo scrosciare dell’acqua piovana, dal dolce suono del ruscello, dal rumore sordo dei tuoni, dal bagliore dei lampi, dal verso degli animali notturni.

<Ma dove diavolo ti sei cacciata>? Fu il primo contatto umano, dopo due settimane di vita solitaria. Era il suo capo che riu

scì a rintracciarla col cellulare, unico lusso tecnologico, lì, in quel posto isolato dal resto del mondo- Dimentica del suo ruolo principale di investigatrice, si rinvenne un attimo, quando la sua mente si risvegliò sulle sue ultime, drammatiche vicissitudini.

La ricerca dello specchio divenne il suo scopo primario. Gli omicidi li avrebbe rivendicati dopo. Fu Eva che sentì al telefono, a rivelarle che lo specchietto lo ebbe dal nonno e lo perse nel prato, dove successivamente Luisa, bambina, lo trovò, lo usò, fino a che lo riperse di nuovo, forse nel bosco intorno al paese.

In seguito, quando depistò finalmente gli scagnozzi di Casciotti, interrogò tutto il paese, ma nessuno ne sapeva nulla. Le uniche persone mancanti all’appello, erano le tre scomparse. Probabilmente una di loro sapeva qualcosa, ma i morti non parlano, forse.

Era certa che ad uccidere Assunta fosse stato Casciotti, per via del dopobarba trovato sulla carrozzina. Ma perchè? Forse la morte di Rampollini era collegata a quella della sventurata vecchietta? Doveva scoprirlo.

Eva le disse, a suo tempo, che il conte sapeva dello specchietto e che lo rinvenne l’Assunta nel bosco. 

Quindi Casciotti uccise tutti e due. Doveva trovarlo assolutamente.

Intanto Ludwigh riuscì di nuovo a fuggire e catturato dalla polizia che lo liberò subito, raggiunse finalmente sua madre.

Casciotti fu arrestato per corruzione e concussione con le multinazionali farmaceutiche. Lo liberarono dopo qualche mese. Intanto Luisa procedeva con le indagini e, non ancora persuasa, tornò a casa di Assunta per trovare lo specchio. Ma invece dello specchio, trovò un indizio che finalmente poteva incastrare il sospettato numero uno di tutta la vicenda. Rigirò sottosopra tutta la casupola e trovò cenere di tabacco da pipa in quantità sufficiente. Fece sequestrare e perquisire dai NAS la villa di Casciotti ancora dentro il carcere e riscontrò che il suo tabacco era lo stesso trovato nella casetta. Riuscì a mandarlo al fresco, però per troppo poco.

Dopo circa dieci mesi era già fuori con le attenuanti. Potenza dei potenti! 

Luisa tornò dopo qualche tempo, nella casetta nel bosco e sorprese Devil a giocare con un oggetto conosciuto al cui interno erano praticamente incollate due spighe di grano, prosecutrici naturali della vita, ormai quasi completamente spoglie dei chicchi, andati perduti. Ma uno riuscì a sopravvivere ed a conservarsi perfettamente.

Avevano ucciso, per questo. I grandi luminari della scienza si accorsero che gli O.G.M. erano sì importanti per sfamare il mondo intero, ma era indispensabile anche ritornare ai metodi naturali di coltivazione e avrebbero voluto riapproppriarsi, usando ogni mezzo, dell’unico seme rimasto sulla terra, un chicco di grano in quell’angolo sperduto del mondo. Oltretutto l’equipe di scienziati del dottor Casciotti erano forsennatamente alle prese con la scoperta sensazionale che avrebbe debellato l’epidemia in corso e che, dopo studi approfonditi, sembrava risiedesse proprio nelle molecole di quel chicco di grano. Spronati, anche illegalmente e violentemente dallo scienziato senza scrupoli, lavoravano senza sosta, con l’obbiettivo di guadagni ingenti nella vendita del vaccino, più che per scopi umanitari. La ricerca si rivelò molto lunga e laboriosa, ma diede finalmente i suoi frutti anche seppur senza l’ausilio di quel seme. La pandemia fu in parte debellata, ma non ebbe come spettatore lo scienziato Casciotti, perchè morì a causa del contagio ancor prima del lancio, nel globo intero, dell’antidoto miracoloso.  

Luisa tornò in America felice di essere stata la promotrice di una nuova vita e di una nuova era.

 

Cap. 21

 

 

Ci si doveva abituare, in quell’era, ad un nuovo mondo fatto di silenzio, senza più guerre, almeno in apparenza, senza più malattie, senza prevaricazioni nè sottomissioni. La gente svolgeva il proprio lavoro on line a casa e negli uffici collocati in palazzi di vetro, tutti verdi di fiori e piante, in perfetta armonia e sintonia. Quasi tutte le attività ed operazioni si svolgevano via web, eliminando distanze ed anche manodopera. Ma tutti erano formati fin da piccoli a studi approfonditi sul mondo virtuale, che diventò anche pratico. Un mondo quasi perfetto, in cui ognuno si governava da sè e lavorava in collaborazione coi simili, senza più padroni, attingendo ad una cassa comune, consistente in buoni spesa per lo stretto necessario. Una volta finiti venivano ristampati senza arricchire nessuno, senza rubare, oppure era in uso il baratto. Il pagamento in contanti non esisteva più, non c’erano transazioni segrete ed occultamento di beni, od esportazioni di questi altrove che non fosse presso i propri paesi. Il mondo era costituito da grandi aree asiatiche, europee, africane, arabe ed americane in cui la gente collaborava senza distinzioni di pelle. Da piccini si imparavano bene tutte le lingue. Non esisteva più la pratica crudele di cibarsi di proteine animali, perchè essi vivevano liberi nelle riserve sconfinate boschive e pianeggianti e se ne ricavava latte, lana o uova senza infliggere loro più alcuna sofferenza. Furono abolite le sperimentazioni animali perchè la gente non ne sentiva più il bisogno, essendo nella stragrande maggioranza, tutti sani. Se uno lo desiderava, poteva essere ibernato. Si viveva molto a lungo, non esisreva la vecchiaia perchè fu scoperta una molecola che allungava la vita, restando con sembianze da giovane. Ci si spegneva così, o piano piano o di colpo, senza soffrire.

Per una questione di feromoni molto sviluppati, difficilmente si sbagliava nello scegliere la persona giusta con cui vivere e procreare. Ognuno aveva tutti i sensi molto sviluppati e funzionanti perchè per una selezione incredibilmente naturale, esistevano pochissime persone con problemi o handicapp. Il commercio iniquo della droga era scomparso, gli alcoolici aboliti, furono estratti liquidi da piante fino ad allora sconosciute che consistevano nelle bevande giornaliere. Il vino fu selezionato e molto buono. Tutti i prodotti della madre natura e della terra erano incredibilmente buoni e naturali.

Non esistevano più nè ministri, nè ministeri nè deputati e senatori, perchè non esisteva più la politica, vista come prima. Ognuno si governava da sè e guadagnava a sufficienza per poter avere una vita dignitosa. C’erano pochissime differenze economiche tra gli uomini perchè finalmente corruzione, clientelismi, favoritismi, dopo tanti secoli, furono debellati, almeno in apparenza. Le banche gestite in comunità, funzionavano benissimo, come le grandi catene di distribuzione divise tra le persone più preparate ed appassionate a quel tipo di lavoro. Non si doveva faticare a trovare un impiego.

 Ognuno credeva in un proprio Dio senza più guerre di religione tra i popoli. La gente era molto devota alla natura ed ai suoi doni, dedicandole numerose manifestazioni campestri, accompagnandole con musiche melodiche, trasmesse da computer molto sofisticati. Si fondevano alla perfezione natura ed alta tecnologia, insomma un mondo perfetto ma tanto perfetto che era andato nell’ochio grande ma tanto grande di alcuni degli umani facoltosi rimasti superstiti di grandi pandemie, che provvedeva a sorvegliare l’andamento del quotidiano vivere. 

E tutto scorreva con una lentezza ed una calma infinite e felicemente si andava verso un futuro sconosciuto, come tutti i futuri finchè non diventano presenti e passati, imparando a non commettere più errori.

 

 

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