Giovanni Fienco - Poesie e Racconti

L’ultimo atto

 

Triste la notte al calar sulla sera,

La luna avvolta da un velo,

Malinconica nebbia

Di un dolente pensiero.

È la vita che volge

Col suo incedere lento

Al suo scritto destino

Scandito dal tempo.

Non più colori 

Sulla tela ancor bianca

Dell’affranto pittore,

La sua mano è ormai stanca

Di dipingere storie

Che non hanno più senso

Ispirate dal nulla,

Che non cercano assenso

Nella farsa bugiarda

Di una trama mal scritta

In quell’ora più tarda,

Dalla penna sconfitta

Di un autore distratto

Dalle ore interrotte.

Su di un palco ormai vuoto

Resta l’ultimo atto

Della mesta parodia:

È calata la notte

E già tutto va via.

 

Pubblicata nella raccolta Luci sparse n.26


 

Al soleggiato orizzonte

 

Immensa distesa

Di acqua salata

La mano già tesa

Alla riva bagnata, 

Non c’è quasi confine

Al soleggiato orizzonte.

La fresca carezza dell’onde

Culla un pensiero svanito

Un ricordo d’altronde

Che credevo smarrito

Nei cassetti

Dell’umana memoria.

Fu così che credetti

Tra di noi quella storia

Una magica favola:

Ma fu solo un inganno.

Ed ora sei qui

Passeggiar nella mente:

Ti rivedo così

Con lo sguardo fremente.

Poi rivolgo i miei occhi

Al soleggiato orizzonte

E si perde il ricordo.

Si richiude il cassetto

Sul pensiero ormai sordo

Ai richiami del cuore

Al silente suo pianto:

Tu sei stata dolore

Desiderio e rimpianto.

E così quella favola

Che fu alfin solo mia

Si è dissolta nel vuoto

Della tua malinconia.

 

Pubblicata nella raccolta Luci sparse n.26


 

L’illusion svanita

 

Amaro disincanto 

È l’illusion svanita

Nel vuoto senso 

Di quelle tue parole.

Ah! Quanto io volli credere

Alla realtà sì desiata

Dell’esistenza 

Di quell’amore immenso

Atteso da una vita.

Ma nell’apicale istante

In cui sfiorai quel sogno

Esso sfumò, così!

Senza ritegno 

Alcuno!

E non fu colpa di nessuno,

O forse solo nostra,

Se, avvolti dalla nebbia

Di egosintonici pensieri

Spegnemmo i nostri lumi,

Smarrendo quei sentieri

Ove, raggiunto il bivio

E dimenticando ieri

Avremmo in due svoltato.

Cosa è rimasto adesso?

Un sogno calpestato

Dal nostro egoismo

E il pianto, disperato,

Frutto di quel cinismo

Che inorgoglisce gli animi

Ma a qual prezzo?

Di rimaner poi muti

Di fronte al vile vezzo:

Ci siamo già perduti!


 

Positivo

 

Più mi guardo intorno

E più mi rendo conto

Di quanto strana sia la gente.

Per anni mi hanno accusato

Di esser pessimista

Di esser negativo nella mente

Di non aver mai provato

Ad essere inguaribile ottimista.

Ed ora che io sono positivo

La stessa gente, sempre ben disposta

A prodighi consigli 

E’ già scomparsa

Tenendomi a debita distanza 

E nel vedermi, andare via di corsa.

E allora io mi chiedo

Non era meglio esser pessimisti

E condividere un pensiero negativo

Se adesso mi ritrovo, e non mi spiego,

Solo col mio tampone positivo?


 

Temporale estivo

 

Minacciosi i lampi

Rischiarano il cupo cielo 

Lontano verso l’orizzonte.

“È temporale estivo”

Suggerisce la mente:

“Ormai è già settembre

E l’autunno è alle porte”.

Poi un tuono maestoso

E una pioggia battente

Ora bagna il mio volto,

E il mio sguardo rivolto

A questo vuoto che ho dentro.

È la tua lontananza

Questa assenza silente

Che travolge il mio cuore.

La pioggia insistente

Fa da maschera a un viso

Che, rigato dal pianto,

Ha smarrito il sorriso.



L’ultimo messia

 

Credo sia giunto il momento di raccontare un’incredibile esperienza che ho vissuto diverso tempo fa e che ha segnato profondamente la mia vita. Sono trascorsi venti lunghi anni ma il mio ricordo e la mia memoria si sono fermati a quella calda serata estiva.

Tutto iniziò una fredda mattina del 12 dicembre: lavoravo per un piccolo quotidiano locale, dove ero stato assunto da pochi mesi. Seppi dell’evento da un anziano professore in pensione che abitava nell’appartamento a fianco. 

L’immagine apparve improvvisamente dal nulla, sulla parete anteriore di un vecchio casolare abbandonato da anni. La notizia si diffuse immediatamente ed in poche ore quasi tutto il paese si era già affollato davanti a quello che fu subito definito un nuovo miracolo. Accorsi naturalmente anch’io, non appena seppi del prodigioso evento. Fui infatti il primo in redazione a venire a conoscenza del fatto e il direttore decise così di inviarmi sul posto per un servizio.

Sebbene scettico, devo ammettere che lì per lì rimasi profondamente colpito da ciò che vidi: l’immagine di un uomo barbuto, lo sguardo corrucciato verso chi lo guardava, era d’incanto apparsa su un vecchio muro, intonacato di bianco. Dinanzi, una folla di curiosi e fedeli si accalcava per raggiungere le prime posizioni; corone e fiori apparvero quasi dal nulla, un coro di preghiere si alzò al cielo, inneggiando il Signore. Cercai di restare neutrale all’avvenimento anche se, in franchezza, ebbi molte difficoltà a non lasciarmi trascinare dall’entusiasmo ascetico delle persone lì presenti.

Un’anziana donna, osservando la mia macchina fotografica, mi chiese se fossi un giornalista e, ottenuta risposta affermativa, mi pregò di scrivere affinché tutto il mondo sapesse cosa stava accadendo in quel piccolo e sconosciuto paesino dell’entroterra. Le feci notare che non spettava ad un giornalista, ma alle autorità competenti far partecipe il mondo di un avvenimento di siffatta importanza.

Passarono quasi tre ore, la maggior parte delle quali le trascorsi ascoltando le discussioni della gente ed i diversi pareri che si confrontavano e discutevano. C’era il fervido credente, il quale affermava che quell’immagine rappresentava il miracolo di Cristo; il solito pessimista aggiunse che era tornato sulla Terra per annunciare la fine di tutto; lo scettico sapientone provò a dare una soluzione scientifica della cosa, attribuendo all’umidità delle pareti l’apparizione ed alla fantasia dei creduloni l’interpretazione dei giochi di chiaroscuro della muffa.

Nel frattempo erano giunte sul luogo alcune unità di polizia, addette alla sicurezza della zona, e il vescovo accompagnato da un piccolo seguito di assistenti canonici. Chiesi allora all’alto prelato cosa ne pensasse la Chiesa di questo nuovo inspiegabile mistero, già sapendo di ottenere la solita risposta di rito, con la quale mi s’invitava ad attendere ulteriori esami del fatto. 

Erano già trascorsi tre giorni; i pellegrinaggi divennero sempre più frequenti, la soluzione del mistero sempre più lontana. Intanto mi era stato affidato un altro incarico in quanto l’editore preferì non dare troppo peso ad un evento del quale poco o nulla si sapeva e che probabilmente non avrebbe avuto alcun seguito. Io continuai tuttavia a seguire in privato la vicenda. Ero rimasto effettivamente colpito da quel viso, contagiato dalla fervida fede della gente, sorda agli appelli ecclesiastici e laici di non lasciarsi trasportare troppo da un evento la cui natura era sì ignota, ma proprio per questo da studiare.

Raccolsi diverse pagine di testimonianze, sensazioni mie e di chi era lì, foto di fedeli e naturalmente primi piani della già sacra effigie. Contemporaneamente, anche la scientifica ed una commissione clericale stavano portando avanti le loro ricerche, intese a cercare una spiegazione razionale.

In verità si cercò di minimizzare l’accaduto: qualcuno disse che la calce della parete, impregnata dalle copiose piogge degli ultimi giorni, aveva in qualche modo assorbito la muffa sottostante, espandendola fino a raffigurare, in modo del tutto casuale, quello che sembrava un volto umano.

Altri risolsero molto più semplicemente la faccenda spiegando che quelle erano solo normalissime macchie che un’allucinazione di massa, rafforzata dalla necessità di dover veder per forza qualcosa, aveva trasformato nel volto divino di Cristo.

Il tempo trascorreva veloce, come sempre; i pellegrinaggi continuavano con una certa regolarità, anche se l’interesse generale andava via via scemando, lasciando spazio soltanto ad una ristrettissima cerchia di fedeli. Degli esami sostenuti dalle autorità non si seppe quasi nulla; di sicuro, però, nessuno smentì la soprannaturalità dell’evento, preferendo nascondersi dietro una più diplomatica cautela preventiva. E comunque alla gente che accorreva ogni giorno lì poco o nulla interessavano le discussioni scientifiche e teologiche: volevano vedere Dio, e quell’immagine era il suo volto.

Sebbene alle prese con altri servizi più che mi stavano facendo guadagnare pian piano la stima del direttore e dei colleghi più anziani, decisi comunque di impegnare il mio tempo libero, quel poco che il lavoro mi lasciava, nel seguire l’evolversi della storia. Ormai i mass media non erano più interessati alla vicenda, e solo qualche giornale locale, tra cui il mio, dedicava ogni tanto un trafiletto all’aggiornamento della vicenda. 

Questo almeno finché non avvenne il primo miracolo. 

Io fui lì, testimone di quella fantastica esperienza. Eravamo ormai prossimi al Natale, e la festività aveva attirato qualche turista religioso in più ad accrescere la folla di chi invece in quell’immagine credeva realmente. E tra questi, molti infermi. Fu proprio una giovane donna, sulla trentina, la fortunata destinataria dell’evento miracoloso. Da sei anni, mi raccontò in seguito in un’intervista per il giornale, era costretta alla sedia a rotelle da un incidente automobilistico, nel quale aveva tra l’altro perso uno dei tre figli. Raccontò di aver avvertito un improvviso calore alle gambe, seguito da un pungente formicolio crescente. Aggiunse che ebbe come la sensazione che gli arti si stessero riempiendo di vita, e ciò le diede l’istintivo impulso di spingersi su. La sua impressione divenne emozione profonda quando intuì che erano proprio le sue gambe a reggerla di nuovo, come avevano fatto fino a sei stagioni prima. Le sembrò di svenire, ma la gioia era troppo forte per non far partecipe anche gli altri. Così cominciò, singhiozzando, a gridare al miracolo, quasi incredula che le persone vicine potessero rivederla di nuovo in piedi. 

L’evento rialzò un nuovo polverone: le solite marionette della burocrazia laica e religiosa intervennero di nuovo prontamente a gettare acqua sul fuoco, pur sapendo delle difficoltà di successo, soprattutto dopo che due commissioni mediche, visitata la presunta miracolata, accertarono l’inspiegabilità della guarigione. Naturalmente anche i quotidiani nazionali diedero grande risalto all’avvenimento, rispolverando dai cassetti degli archivi storie ed esperienze passate, di quelle che fanno effetto e che possono essere riesumate ogni qualvolta la situazione lo richiede: così non furono lesinati paragoni e rievocazioni di altre immagini sparse qua e là per il pianeta, seguiti dai soliti dubbi e le inevitabili prese di posizione. 

E poi, come sempre, cominciò quello che definii in un articolo molto contestato il mercato del sacro. L’immagine divina divenne quasi una star hollywoodiana, con i faretti posti per meglio farne risaltare i tratti, un improvvisato altare a mo’ di palco lì, davanti ad una lunga serie di posti a sedere, con la folla di credenti e di curiosi pronti ad assistere al nuovo spettacolo

Nel frattempo, nell’attesa, ci si poteva dissetare al chiosco, oppure consumare un pasto all’improvvisata paninoteca, o ancora dedicarsi all’acquisto di gadget e riproduzioni fedeli del volto santo da portare come ricordo a casa o agli amici.

Ovviamente provai un enorme fastidio nell’assistere tutti i giorni a quello spettacolo, che nulla aveva a che fare con ciò che realmente stava accadendo lì: vedere il dolore reale di persone disperatamente bisognose di una speranza confuso dalle comitive festanti di turisti curiosi, armati di macchine fotografiche e videocamere per conservare un ricordo della gita. 

Tuttavia con il passare del tempo scemò anche il nuovo entusiasmo della gente, stanca di attendere invano qualche altro segno dal cielo. Per diversi mesi non si ebbe più alcuna emozione, e la folla di sedicenti fedeli cominciò a diradarsi con il fiorire della primavera.

Così, come era iniziato, l’immagine cadde nel dimenticatoio, scomparve del tutto il mercato intorno, il palco, le sedie, l’entusiasmo per un evento che aveva già stancato molti. Rimasero, come prima, solo poche decine di fedeli, quelli a cui nulla importa delle mode e dei giudizi degli scienziati.

Non so se fu una mia impressione, anche perché nessun altro dichiarò di averlo notato, ma mi parve di scorgere un mutamento nel volto impresso sul vecchio muro. L’immagine, infatti, pareva aver abbandonato quello sguardo burbero, atto al rimprovero verso chi lo guardava; sembrava averlo sostituito con uno di profonda tristezza, di rassegnato dispiacere. Ma forse fu solo un’impressione.

Trascorsero ancora due mesi e ormai l’estate riempiva dei suoi colori la vita, assottigliando sempre più il gruppo di fedeli. Io mi affacciavo ogniqualvolta il lavoro mi concedeva un attimo di libertà; desolatamente potei constatare che ormai le persone presenti erano poco più di una decina.

Un anziano ferroviere in pensione cominciò a ragionare con me proprio di questa situazione, del fatto che la gente dimenticasse in fretta, presa dalle allettanti offerte materiali della vita moderna.

Non potei non esprimergli il mio risentito disappunto per la perdita di certi valori, ed egli fu d’accordo con me. 

Trascorremmo diversi minuti a chiacchierare, il sole cominciava a tramontare, lasciando che il purpureo crepuscolo si espandesse nel cielo. Eravamo rimasti noi due soli, ad uno ad uno gli altri ci avevano salutati. Io guardavo assorto la bellezza del tramonto quando il mio compagno, con insolita trepidazione, attirò la mia attenzione, indicandomi con l’indice tremante di guardare l’immagine.

Mi voltai e, in silenzio assistemmo all’incredibile scena: l’immagine s’era voltata verso di noi, guardandoci fissa nei nostri occhi esterrefatti. Una lacrima abbandonò lentamente il suo viso triste, lasciando una quasi invisibile scia scura sul bianco intonaco. Dopodiché, sparì lentamente, come completamente assorbita dal muro retrostante. In un attimo, nulla più sul quel muro avrebbe potuto ricordare quel volto.

Il ferroviere ed io guardammo il muro completamente bianco come impietriti, poi incrociammo i nostri sguardi per un attimo, dopodiché andammo via senza proferir parola.

La mattina successiva si sparse immediatamente la voce della scomparsa del volto, ma in realtà davvero in pochi sembravano avvertirne la mancanza.

La vita continuò per tutti come sempre, l’immagine del presunto messia divenne solo un ricordo sbiadito, un altro evento da far ammuffire in soffitta, pronto ad essere tirato fuori all’occasione giusta.

La scomparsa del volto santo fu spiegata nel modo più semplice e razionale: il caldo estivo aveva riscaldato la parete, asciugando quelle macchie che per una bizzarra combinazione avevano composto quello che sembrava un viso. Per il miracolo della signora in carrozzella, fu un caso di guarigione spontanea, come quando i medici ti propinano falsi medicinali per convincere psicologicamente il paziente, malato immaginario.

Né io né l’anziano compagno volemmo raccontare ciò che accadde realmente quella sera. Nessuno forse ci avrebbe creduto, e comunque per noi non aveva più importanza. Avevamo capito perché l’ultimo messia era scomparso: leggemmo in quella breve, intensa lacrima la sua rassegnata commiserazione per noi poveri esseri umani, pronti a lasciarsi trascinare da facili entusiasmi e mode del momento, ma altrettanto abili nel dimenticare e, soprattutto, nel non comprendere la realtà delle cose.

Dalla raccolta di racconti Percorsi nell’ignoto



Il regalo di Natale

 

“Prendilo, è perfetto!” – Una voce sussurrava al mio orecchio, silenziosa nel chiasso della folla di via Chiaia.

Mi volto, non c’è nessuno, eppure riconosco quella voce che da sempre mi parla ad ogni Natale.

“Sei sicuro?” – Lei era lì, nel negozio, raggio di sole nel grigiore della gente comune.

“Ti ho mai mentito? Hai mai avuto problemi a seguire i miei consigli?” – fu la secca risposta del vecchio in barba bianca e completo rosso.

“No, ma lo sai, è il primo Natale che…” – ma non riuscii a completare il mio pensiero che mi interruppe.

“Mentre stai qui a tormentarti con i tuoi dubbi, il tempo trascorre, e ne hai sempre meno…”.

Aveva decisamente ragione, così mi avviai verso la vetrina dove poco prima avevo visto l’oggetto che mi apprestavo a comperare. Lui era al mio fianco, come sempre. Mi teneva compagnia.

A passo spedito percorrevamo i metri che ci separavano dall’orologiaio: io notavo, non più stupito, che di tanta gente che incontravamo nessuno si accorgesse di lui.

“E’ sempre la stessa storia, no? – mi chiese, interpretando il mio pensiero.

“Sì, sempre la stessa. Ormai però non mi pesa più” – risposi. Ero tranquillo.

Già, sempre la stessa storia.  Tutti aspettano il Natale, tutti aspettano lui, il grande vecchio, portatore di doni e felicità. Eppure nessuno ci crede, se non chi ha ancora l’ingenuità della tenera età.

“Non ti pesa più, dici, eppure i tuoi occhi nascondono sempre la tristezza di questa verità inconfutabile!” – volle sottolineare il mio saggio interlocutore.

“Forse è così. Mi secca dover ogni volta riflettere su quanto limitata possa essere la mente umana. Ti raccontano storie quando sei bambino, sforzandosi di crearti illusioni che poi da grande ti distruggono.”

“Hai ragione, va così. Ma tu lo sai il perché, no?” – rispose con tono sicuro.

“Certo che lo so. Un bambino può vivere di favole e illusioni, un adulto deve vivere una realtà concreta e convenzionale. È così che funziona, no?” – chiesi seccato.

“Amico mio” – cominciò – “è così che funziona. Limitata è la mente umana, limitata è la vita dell’uomo. Di quegli uomini che decidono di vivere la propria vita affogandola nella banalità del quotidiano. Quegli uomini che magari si vestono da Babbo Natale per regalare doni, o magari per cercare offerte sfruttando il periodo in cui, per convenzione, si è tutti più buoni. Ma se ad uno di questo uomini chiedi chi è Babbo Natale, o cosa rappresenta, allora dalle loro risposte ti accorgi di quanto mediocre è l’uomo concreto e razionale. E questo ovviamente vale anche per te. Per le tue scelte. Verrai giudicato per quello che farai, per quello che provocherai, ma in pochi, davvero pochi, si chiederanno il motivo delle tue scelte”.

I suoi occhi fissavano i miei, umidi, ed il suo forte braccio cinse le mie spalle mentre avevamo raggiunto la vetrina dove era esposto il regalo per lei.

“Guardalo – mi disse – è proprio perfetto”: le sue parole erano davvero rassicuranti. 

“Quali sono le tue perplessità?” – aggiunse, notando sul mio viso una smorfia di riflessione.

“Credo che le piacerà, o almeno lo spero. Forse il prezzo non è…” – ancora una volta mi interruppe.

“Credi davvero che il costo materiale di quest’orologio abbia valore? Regalale mille euro, o anche due magari, e attendi la sua reazione. Dimmi, piuttosto, perché hai scelto un orologio? “– attese la mia risposta.

“Lo sai, te ne ho già parlato. Sai quanto mi affascinano gli orologi. Rappresentano il vano tentativo dell’uomo di dominare ciò che non può essere dominato. Ho sempre pensato che il tempo non esista, che è, come tante altre cose, misera convenzione dell’ingegno umano che cerca di dare concretezza e materialità a tutto ciò che è più grande di lui. Eppure stavolta voglio essere convenzionale anch’io, ed ho deciso di regalarle un orologio affinché esso, semplice oggetto, possa segnare tutto il tempo che trascorreremo insieme, la nostra quotidianità, i nostri problemi, il nostro amore, fatto di due vite una!”.

Mentre con tono enfatico spiegavo la mia scelta, mi accorgevo che tutto intorno a me era mutato: non più la vetrina del negozio, né la folla chiassosa della splendida Napoli natalizia. Solo una lunga distesa di ghiaccio, giganteschi alberi innevati si intravedevano dai vetri appannati della piccola casetta in legno, riscaldata dal tiepido abbraccio di uno scoppiettante camino.

Ed eravamo noi due, in un silenzio spettacolare. Io ero lì, attonito, estasiato, mentre il vecchio in abito rosso terminava la preparazione della confezione del mio regalo. Con abilità ineguagliabile la carta da regalo rossa avvolgeva la scatola dell’orologio, mentre un piccolo fiocco dorato era la firma di una splendida confezione.  Subito dopo Babbo Natale alzò il regalo con entrambe le mani e me lo porse.

“Va piccolo mio. Ti auguro che questo piccolo oggetto possa davvero scandire ogni attimo della vostra vita insieme, del vostro amore, unico ed invidiabile. Ed infinito come il tempo…”

 

Dalla raccolta di racconti Percorsi nell’ignoto



Il passato perduto

 

A volte il destino riserva strane sorprese agli uomini, scavando nel profondo dei ricordi di ognuno di essi, alla ricerca del passato perduto.

Così avvenne per Marco, postino di un piccolo paese di periferia come ce ne sono tanti, sulle vette appenniniche del centro Italia. 

Marco aveva da poco ottenuto l’impiego e da appena tre giorni si era trasferito con la moglie Anna ed il piccolo Stefano. Il paesino contava circa cinquecento abitanti, tutta la vita si concentrava intorno all’unica piazza, fuori il piccolo bar.

Le giornate trascorrevano serenamente, il lavoro andava discretamente, nonostante i primi freddi cominciassero a penetrare le cicatrici che affollavano la tempia, la spalla destra e parte del torace. I punti cicatrizzati, risvegliati dall’umidità, gli riportavano alla mente la terribile esplosione che investì il suo reggimento in Grecia. Terribili ricordi, se l’era vista davvero brutta, ma era riuscito a sopravvivere a quella nefanda guerra ed ora la vita appariva ai suoi occhi il bene più prezioso.

Anche quella fredda mattina Marco fu il primo a raggiungere l’ufficio. Non dovette però attendere molto, il direttore lo seguì dopo alcuni minuti, cosicché poté dedicarsi alla preparazione della posta da recapitare più tardi. Tra le lettere giunte, notò con curiosità una vecchia busta, ingiallita dalla polvere, recante un indirizzo incompleto.

L’indirizzo, scritto con un elegante carattere, era sbiadito e quasi illeggibile; tuttavia Marco, che nel frattempo aveva imparato quasi a memoria strade e abitanti del paese (in realtà non difficile viste la densità e l’estensione del centro), riuscì ad individuarlo dalle poche lettere ancora visibili. 

In sella alla sua bici, la borsa saldamente ancorata al tubo centrale, pedalò su per il tortuoso sentiero, facendo attenzione a non scivolare sui sassi disseminati ovunque.

Giunto a destinazione, la prima impressione fu che quel casolare fosse disabitato da anni. Travi sporgenti, muffa sulle pareti dall’intonaco pericolante, alberi spogli e rovi dappertutto, battenti delle finestre tenuti insieme alla meglio: insomma, nulla faceva pensare che lì qualcuno potesse viverci.

La prima intenzione fu quella di ritornarsene dietro, portare a termine il quotidiano giro tra le strette stradine del paese, e mandare la lettera non recapitabile al macero.

Non fece nulla di tutto questo.

Sistemò con cura la bicicletta alla staccionata poco distante, quindi, indossata la borsa, si avviò verso la porta.

I quattro scalini in legno che lo separavano dall’uscio scricchiolarono vistosamente, inducendo istintivamente il postino a compiere un gran balzo per evitare che si sgretolassero sotto il suo peso. 

Superato il poco gradevole ostacolo e ripensando alle sue prime intenzioni, Marco proseguì verso la porta, cercando vanamente un campanello, o qualcosa che potesse avvisare della sua presenza un poco probabile abitante della malandata abitazione.

Non trovò di meglio che battere le nocche con vigore sulla porta. 

Non ottenendo nessuna risposta, decise di fare un ultimo tentativo, dopodiché avrebbe abbandonato quel luogo spettrale. Batté con forza e la porta, cigolando sinistramente, aprì un piccolo spiraglio tra lui e l’interno della casa. Marco si affacciò alla piccola apertura, poi poggiò entrambe le mani alla porta e spinse vigorosamente, riuscendo a stento ad avere la meglio sul forte attrito che gli arrugginiti cardini gli opponevano.

Una luce soffusa proveniva dal fondo del corridoio, cosicché, cercando a voce alta di attirare l’attenzione, si diresse verso di essa. Superato il piccolo corridoio, si ritrovò di fronte a qualcosa che lo lasciò esterrefatto. Diversamente dall’esterno decadente e abbandonato, l’attonito portalettere non poté far altro che ammirare lo splendido arredamento di quel salone. Il camino scoppiettante ardeva legna dal quale si sprigionava un insolito ma gradevolissimo aroma dolciastro; la fioca luce delle purpuree fiamme giocava coi chiaroscuri, ora illuminando i preziosi quadri e i finissimi parati alle pareti, ora nascondendo in ombre danzanti gli splendidi mobili, antichi ma davvero ben tenuti. Durò tutto un attimo, ma a Marco parve esser lì da un’eternità, soggiogato dalla stupefacente sensazione di tranquillità e silenzio che gli invase l’anima. L’incanto fu rotto solo per un istante da una voce sottile, dalla incantevole musicalità. Marco si voltò verso quella che doveva essere la destinataria della lettera e, ritenne i suoi occhi troppo piccoli per poter ammirare in tutto il suo splendore quella divina immagine che gli strozzò il fiato in gola.  

La giovane donna gli chiese con infinita tenerezza cosa volesse, ma egli dovette deglutire diverse volte prima di poter giustificare la sua intrusione.

Abbassò lo sguardo verso la borsa in pelle beige che gli cingeva il fianco, quindi estrasse quella lettera ingiallita e la consegnò alla giovane donna. Fu per andarsene quando la splendida padrona di casa gli chiese di pazientare, quindi si diresse ad un piccolo scrittoio, si sedette e cominciò a leggere la missiva. Marco, nel frattempo, posò la borsa sul morbido tappeto che ricopriva il pavimento, lo sguardo fisso su di lei, come un bambino attonito di fronte ad una vetrina di interessanti giocattoli.

La lunga camicia di seta rossa volteggiava sinuosamente, mossa da un improbabile sospiro di vento, aderendo sensualmente allo splendido corpo dai perfetti lineamenti. I lunghi capelli neri ondeggiavano sulle sue spalle, ora nascondendo il suo bellissimo volto, ora mostrando quei profondi occhi scuri intenti nella lettura. L’attenzione del suo sguardo fu interrotta da un veloce movimento della donna, che, aperto il cassetto dello scrittoio, tirò fuori carta e calamaio, cominciando a scrivere. Subito dopo ripose con cura la lettera, piegata, in una busta, e, porgendola all’ospite, gli chiese la cortesia di imbucarla per lei. Marco raccolse la lettera, quasi tremando quando la sua vellutata mano sfiorò la sua. Quindi ripose la lettera nella borsa e fu per andarsene. La signora accompagnò Marco verso il corridoio; ci fu un breve, intensissimo sguardo tra i due, e a Marco parve di conoscere quegli occhi da una vita. Fu per dire qualcosa, quando lei gli si avvicinò e, allungandosi, pose le sue fredde labbra sulle sue. Una sensazione di amore profondo pervase gli animi dei due nei momenti successivi: dimentichi di quanto era lì fuori, trascorsero insieme splendidi momenti.

La ragazza salutò con trepidazione l’uomo sulla bici che si allontanava lentamente giù per il sentiero; Marco rallentò più volte voltandosi per ricambiare il saluto, erano trascorse diverse ore senza che se ne fosse reso conto, ma non gli interessa nient’altro che quella donna, quella magnifica onirica immagine della quale non conosceva neanche il nome. Si voltò un’ultima volta per guardarla prima di sparire tra gli alberi, ma fu troppo lontano per poter vedere le scintillanti lacrime che le rugavano lo splendido volto.

Terminato il giro, l’ancora attonito postino tornò in ufficio per sistemare le ultime cose prima di tornare a casa: i suoi pensieri, però, erano rimasti in quella casa e nei suoi occhi quella misteriosa donna che così intensamente aveva amato. 

Fu per andar via quando si ricordò della lettera da imbucare. Tornò in ufficio ed estrasse la missiva dalla borsa, ma notò che essa non recava alcun indirizzo. Ne fu felice, avrebbe avuto l’occasione per tornare da lei.

A casa non disse nulla, naturalmente non poté far parole con Anna di quanto gli era successo; si sentiva colpevole, a disagio, e tuttavia non poteva non pensare a quella dolce persona.

La mattina successiva fu la sua prima tappa: incurante del terreno sdrucciolevole reso ancor più scivoloso dalla brina mattutina, pedalò in gran fretta, combattendo così anche il freddo di un inverno ormai quasi inoltrato.

Superò agevolmente i pericolanti scalini e, con la lettera saldamente in pugno, bussò alla porta. 

Ancora una volta non ottenne alcuna risposta così, senza perdere altro tempo, decise di far tesoro dell’esperienza del mattino precedente, entrando in casa. I suoi passi verso il salone furono accompagnati dall’ansia di voler rivedere quella bellissima donna, ma anche da un’inspiegabile sensazione di paura. 

Trasalì quando vide il salone, o meglio quello che il giorno prima era stato uno splendido ambiente. La muffa aveva quasi del tutto consumato la poca carta da parato ancora attaccata alle decadenti pareti, il camino era un’enorme bocca nera aperta sul nulla del profondo buio. Il silenzio surreale che abitava quel luogo abbandonato da anni era rotto di tanto in tanto dagli scricchiolii delle travi rese pericolanti da tarli e umidità. 

Quasi istintivamente Marco si lasciò cadere al pavimento; il sordo tonfo, accompagnato da una piccola nuvola di polvere, gli ricordò del giorno prima, quando posò la borsa sul soffice tappeto finemente ricamato. Credette di sognare, ora, o di aver sognato il giorno prima: ma la lettera, stretta con non necessaria forza, era reale, dolorosamente reale.

Sconsolato tornò alla bici, quindi si avviò verso il paese. Poco prima di allontanarsi si voltò di nuovo verso la casa, sperando di poter rivedere quella meravigliosa ombra salutarlo, ma non fu così.

Una piccola lacrima abbandonò i suoi occhi, atterrando dolcemente sulla posta sistemata nella borsa.

Per diversi giorni Marco portò in sé il doloroso ricordo di quella mattina, accompagnato dall’angoscioso desiderio di rivedere chi sapeva non avrebbe più rivisto. Aveva infatti chiesto in giro notizie su quella casa ed aveva saputo che era disabitata dai tempi dell’occupazione tedesca, quindi da quasi dieci anni nessuno aveva più messo piede lì dentro. E allora chi era quella donna che, senza conoscere, aveva amato tanto, e della quale adesso soffriva terribilmente l’assenza?

Stava riponendo le ultime carte sul banco di lavoro, quando il suo sguardo si soffermò sulla lettera che quel giorno gli aveva consegnato. Decise così di aprirla e leggerla.

Una sensazione di colpevole dolore gli strinse il cuore, quando finalmente capì chi fosse quella ragazza. Era tutto spiegato in quella lettera, che raccontava ogni particolare del loro grande amore, della promessa che sarebbero vissuti l’una per l’altro. 

Poi la dittatura, la guerra, l’angosciante separazione, la partenza per il fronte, la notizia del bombardamento e quella ancor più straziante che aveva dato per deceduto il suo amato Marco. Tutto questo fu troppo per la giovane Valentina, troppo innamorata di chi tanto l’amava: il cuore non resse a tanto dolore. 

Egli però non era morto, le schegge del colpo di mortaio gli avevano fatto perdere la memoria, cancellando ogni cosa del suo passato. Ora tutto ritornò nella sua mente, ricordò la giovane Vale, il loro grande amore. Quell’amore che le aveva dato la forza di ritornare e di condividere con il suo amato, anche se per poco, quella felicità che un fato avverso e la stupidità degli uomini non aveva permesso loro.

Marco lesse e rilesse la lettera più volte, soffermandosi su ogni singola parola, cercando di vivere e rivivere ancora ogni emozione in esse contenute. Si sedette, barcollando, alla sedia della sua scrivania, e fu in quel momento che la lettera che stringeva in mano come per restare aggrappato ad un passato ormai irraggiungibile, si dissolse in una fine pioggia di polvere. 

Marco fissò lo sguardo sulla cinerea fuliggine che gli copriva la mano laddove poco prima c’era la lettera, dai suoi occhi sgorgarono copiose lacrime, piccole gocce intrise di rabbia e dolore.

Da quel giorno la vita di Marco non fu più la stessa. Gli anni trascorsero lenti, uguali, inesorabili, ma nei suoi pensieri visse il ricordo di Valentina, di ciò che la forza dei loro sentimenti aveva potuto fare, di un amore immenso, ma irraggiungibile.

Dalla raccolta di racconti Percorsi nell’ignoto



Il venditore di sogni

 

La luna splendeva alta in cielo in una bellissima notte stellata, dove una leggera brezza rinfrescava l’aria riempiendola del pungente odore delle conifere del bosco che circondava la villetta. 

Io contemplavo la naturale bellezza di quell’incantevole paesaggio: la luna riflessa nell’immobile specchio d’acqua del lago, il leggero dondolio dei rami sempreverdi accompagnato dal frinio insistente dei grilli, il volo all’apparenza incerto e repentino dei piccoli pipistrelli. Mi godevo quel piccolo paradiso sentendomi davvero soddisfatto di quella casa tranquilla, immersa nel verde, una vera fortuna che il precedente inquilino l’avesse lasciata.

Ero intensamente assorto nei miei pensieri quando mi accorsi di una strana presenza alle mie spalle. 

Immediatamente mi allontanai dalla ringhiera del terrazzo e mi voltai. 

La civetta era lì, le zampe saldamente ancorate alla spalliera di ciliegio della vecchia sdraio. Raccolsi la prima rivista che trovai a portata di mano sul tavolino in vimini, la arrotolai a mo’ di bastone e la agitai verso il piccolo rapace per scacciarlo. 

Rimasi sbalordito dalla sua reazione, o meglio dalla completa assenza di reazioni dell’uccello: era lì immobile, i suoi grandi occhi fissi sui miei, uno sguardo corrucciato ma tutt’altro che preoccupante.

“Allora, hai deciso di tenermi compagnia stasera, eh?” – chiesi sorridendo e dopo aver pronunciato queste parole cominciai a ridere, pensando a come sarei sembrato stupido se qualcuno m’avesse visto parlare con quella piccola creatura.

“Sono qui per questo, amico mio” – una voce rispose alla mia domanda. 

Guardai intorno esterrefatto, cercando vanamente la persona che stava prendendosi gioco di me. Ma lì non c’era nessun altro se non io, e naturalmente quella civetta, ma ovviamente non era possibile che parlasse. Continuai ad osservarmi intorno.

“Non cercare lontano, Johnny, ciò che hai davanti agli occhi” – aggiunse quella voce dal tono rassicurante. 

Ora sapevo da dove provenisse, ma tuttavia mi rifiutavo di crederlo. Poi mi feci coraggio, ripetendo a me stesso che evidentemente mi addormentato ed ora stavo semplicemente sognando. 

“Chi sei?” – allora chiesi, confortato dal mio pensiero.

“Sono un venditore di sogni, e sono qui per esaudire i tuoi desideri” – rispose la civetta. 

Dovette poi leggere sul mio volto un’espressione di comprensivo stupore, dal momento che, precedendo ogni mia richiesta di spiegazioni, aggiunse: “Il mio nome è Algaroth, uno degli spiriti di questo magnifico bosco. Come i miei fratelli, avverto i sentimenti ed i sogni di coloro che vengono qui. Il nostro compito è quello di esaudire i sogni degli esseri umani”.

Incuriosito ed incredulo, fui in procinto di avvisarlo che non avevo nessun desiderio da esaudire, quando mi anticipò di nuovo, continuando: 

“Non aver paura John, io sono tuo amico. E so tutto di te. Conosco ogni tuo segreto, perché sei stato proprio tu a raccontarmeli, nei tuoi sogni, nei tuoi pensieri. Non sei forse tu quello che avrebbe tanto desiderato quel posto all’ufficio di Booyle, soffiatoti via dal tuo più caro amico? E non eri forse tu quel giovane che impazziva per Margy, ma, non avendo mai avuto il coraggio di esprimerle i tuoi sentimenti, hai lasciato che altri prendessero il suo posto?”.

Mentre la pennuta creatura continuava a raccontare la mia vita con una inimmaginabile precisione (raccontandomi particolari che avevo persino dimenticato) sentii un brivido freddo corrermi dietro la schiena. Allora avvertii una goccia di sudore rigarmi il viso, ed altre pronte a seguirla, e fui impressionato da quanto quel sogno sembrasse reale. 

Perché quello era un sogno, doveva essere un maledettissimo sogno!

Mentre i miei pensieri correvano veloci nella mia mente confusa, mi accorsi che la bizzarra creatura aveva cessato di parlare, limitandosi di nuovo a puntare i suoi occhi perfettamente tondi ed il suo sguardo burbero su di me. Decisi di stare al gioco, certo che mi sarei svegliato da un momento all’altro.

“Va bene, mi hai convinto, sai molte cose di me. Ma, ammesso che accetti il tuo aiuto, cosa vuoi in cambio?” – chiesi con fare disinvolto.

La creatura mi pregò di accomodarmi di fronte a lei, poi mi spiegò che non stavo affatto vivendo un sogno. Con grande disinvoltura e dovizia di particolari mi raccontò che essa era la prima delle cinque sorelle che vivevano quel bosco da centinaia d’anni, e quella villetta che io avevo preso in affitto si ergeva sulle fondamenta della loro antica dimora. Aggiunse che avevano sempre vissuto in quel luogo incantato, vivendone in totale simbiosi tanto da esserne, alla loro morte, assorbite. Nel corso dei secoli tante costruzioni e tante persone si erano avvicendate, ed esse, che nel frattempo avevano imparato ad utilizzare il loro nuovo potere, si erano adoperate affinché le persone che avessero abitato quel posto meraviglioso avrebbero potuto vivere in totale armonia e felicemente così come era stato loro concesso. 

A quel punto interruppi il fantasioso racconto di quell’essere bizzarro, chiedendogli perché allora si era definito venditore di sogni. 

La civetta, forse seccata dall’interruzione, roteò gli occhi, poi riprese il tono pacato e rassicurante e mi spiegò che il prezzo per i loro favori era l’impegno totale della persona nella perfetta cura e nel rispetto della casa e del giardino. 

Terminato poi l’insolito racconto, aggiunse che in cambio della mia dedizione al luogo avrebbe esaudito tutti i miei sogni, vecchi e nuovi. 

Fui per esprimere le mie naturali incertezze, ma anche stavolta non feci a tempo perché mi fermò prima che potessi parlare, e mi disse che avrei dovuto soltanto seguirla in un viaggio nel mondo dei sogni, nel quale avrei potuto rivivere la mia vita così come l’avevo desiderata. 

Nel giro di pochi minuti, mi ripeté, sarei stato l’uomo più felice, se avessi accettato il suo aiuto. 

Nonostante le sue rassicurazioni, tutto mi sembrava frutto della mia immaginazione, ero ancora convinto di sognare, e forte di questa convinzione decisi di accettare. Quindi le chiesi con quale mezzo saremmo partiti. 

Fu in quel momento che per la prima volta mosse le ali sbattendole due volte. 

Dopodiché, allungandomi quella destra, mi chiese di stringermi forte a sé. 

Non appena ebbi afferrato la piccola ala, tutto intorno a me cominciò a girare vertiginosamente. Sentivo la testa scoppiarmi, dovetti chiudere gli occhi e stringere i denti per superare quegli attimi di profondo panico. 

Subito dopo mi ritrovai immerso in un verde prato e, dopo aver smaltito i postumi del vorticoso viaggio, mi rimisi in piedi. 

Non credevo ai miei occhi: ero di fronte alla River Street, alla mia casa, nella città della mia adolescenza. Era tutto come vent’anni prima, e anch’io ero ritornato indietro nel tempo. 

Ero di nuovo giovane, ma ricordavo tutto ciò che mi era accaduto perfettamente. Capii allora cosa intendesse farmi capire il venditore dei sogni: avevo di nuovo vent’anni, ma con in più la conoscenza degli episodi del futuro che, quindi, avrei potuto sfruttare a mio vantaggio. 

Avrei potuto rivivere parte della mia vita passata e ora futura, questa volta, però, già sapendo come comportarmi ed evitare di ripetere tutti gli errori commessi.

Chiamai Algaroth, per ringraziarlo di quanto aveva fatto per me, ma non c’era più. Così non persi altro tempo e mi diressi verso casa: avevo davvero molte cose da fare.

Le luci lampeggianti giravano freneticamente, rincorrendosi tra i verdi rami del bosco, mentre un vociare sommesso si confondeva nella tranquilla serenità del luogo. Un gruppetto d’agenti circondava un corpo senza vita che giaceva, come addormentato, nella vecchia sdraio sul terrazzo.  

Era stata la donna delle pulizie ad accorgersi del decesso dopo che, come ogni mattina, si era recata alla bella villetta.

John Malone aveva lo sguardo rivolto verso il lago, gli occhi sbarrati, così come le altre persone decedute in quella casa. Come per tutti gli altri Smith, il medico legale, stabilì che la causa del decesso fosse stato un arresto cardiaco e, come per gli altri, l’agente Cole non poté non notare quella espressione di manifesta felicità impressa sul volto dell’uomo.

L’ultimo ad abbandonare il luogo fu il vecchio dottor Smith, attardatosi ad ispezionare con interesse quel posto paradisiaco.

Andando via, gli parve di scorgere qualcosa che lo fissava dall’oscurità del bosco; giurò di aver visto qualcosa simile ad una civetta, ma non ci pensò più di tanto. 

Era appena arrivato in città ed essendo prossimo alla pensione aveva intenzione di trascorrere i suoi ultimi anni in un luogo confortevole ed immerso nella natura: quel villino avrebbe potuto fare al caso suo.

 

Dalla raccolta di racconti Percorsi nell’ignoto


 

Il corridoio

 

Il lungo corridoio pareva non avere fine: ad ogni passo le pareti, di un bianco puro ma impressionante, assumevano la prospettiva di un viaggio senza fine.

Non un rumore, se non l’eco dei miei passi che rimbombava nell’angusta corsia, mentre neon sempre più opachi e tremolanti riuscivano a malapena a mostrarmi il cammino. In fila indiana e parallela, su entrambi i lati del corridoio, sinistre porte color azzurro cielo seguivano il mio passaggio, come occhi indiscreti e curiosi.

Non ricordo come fossi giunto in quel luogo, e, a dire il vero, non so nemmeno cosa fosse quel luogo. Ricordo solo che, all’improvviso, come da un brusco risveglio, mi ritrovai solo, disorientato e spaventato all’estremità del lungo corridoio. Alle mie spalle, due pesanti porte scorrevoli di grigio metallo lucido mi separavano da quello che doveva essere un grosso ascensore, probabilmente è da lì che ero appena uscito, anche se non possono confermarlo i miei ricordi.

Cominciai allora ad incamminarmi lentamente verso una probabile, e solo probabile perché non visibile uscita. Bianchi termosifoni si alternavano sulle pareti, puliti e lucidi come se appena montati ma certamente non funzionanti, visto il gelo che permeava tutto l’ambiente. Tutto era così surreale: una corsia di ospedale, o qualcosa del genere; un edificio nuovo, a giudicare dall’odore di nuovo che ogni singolo oggetto emanava nell’aria. E così la gabbia contenente gli attrezzi antincendio, le porte che davano alle camere di ricovero, le panche di legno azzurro e alluminio appoggiate negli spazi più larghi delle pareti.

Ed un profondo, inquietante silenzio. 

Ero solo? Probabilmente. Ma, dov’ero? E, soprattutto, perché ero lì? Domande alle quali non riuscivo a trovare risposta, e, pur concentrandomi, non riuscivo a vedere dietro al minuto prima che ora ricordavo lì, con l’ascensore alle spalle.

Proseguii lentamente, guardando ora a destra, ora a sinistra, le porte delle camere: non vi erano numeri identificativi, tutto uguale, tutto immobile. Speravo che di lì a poco si aprisse una porta, che un infermiere, un medico, o anche un paziente mi venisse incontro. 

No, forse no, speravo che non avvenisse nulla di tutto ciò: ero impaurito, confuso.

Ad ogni passo mi giravo alle mie spalle come a voler essere sicuro di allontanarmi dal freddo ascensore, avevo la sensazione di essere sempre allo stesso punto, come se il corridoio nelle sue immutabili forme si prendesse gioco di me scorrendomi di lato e anticipando i miei passi. 

Tutto uguale, dannatamente uguale.

Passo dopo passo percorsi diversi metri, a giudicare da quanto spazio mi divideva dalle porte lucide e pesanti; eppure non vedevo l’uscita. Cercavo di rassicurare me stesso ripetendomi mentalmente che di lì a poco avrei scorto lo stesso montacarichi, e che sarei sceso al pian terreno, dove qualcuno alla reception doveva pur esserci. 

O comunque una porta di ingresso (e quindi di uscita).

Sobbalzai! Nel silenzio assoluto il movimento di una maniglia rimbombò in modo innaturale, gelandomi il sangue. Due porte davanti a me, sulla destra; qualcuno stava per accedere al corridoio.

“Finalmente!” – pensai – “Finalmente posso chiedere informazioni!”. In realtà il cuore pareva essersi fermato all’altezza della trachea, aumentando il suo ritmo come tam-tam tribali.

La porta si socchiuse, poi si fermò. 

Un perfetto raggio di luce bianca tagliò trasversalmente il pavimento del corridoio di lucide piastrelle blu cobalto. Sostai anch’io, come in attesa di conoscere colui che aveva azionato la maniglia. Trascorsero interminabili attimi, come di eternità: nulla. Nessuno.

Cosa dovevo fare? Mentre la mente si sforzava a cercare una risposta razionale al mio quesito, il cuore aveva accelerato in maniera indescrivibile, come cercasse di schizzar fuori dalla sua sede e fuggire. Brividi freddi percorrevano l’autostrada della mia schiena.

“C’è qualcuno?” – chiesi. Questo fu il meglio che la mia mente mi suggerì. La voce confusa trapelava il mio stato interiore: paura! Percorse veloce il corridoio diffondendosi e rimbalzando sulle pareti come una palla impazzita che, dopo aver colpito ripetutamente e all’impazzata si perde nel vuoto di un’uscita invisibile.

Non ottenni risposta e, non so perché, me lo aspettavo. 

“Sto sognando” – fu allora il secondo, stupido sussurro a voce alta della mia mente. Ah! Quanto sa essere banale la ragione umana, specie quando cerca risposte a domande e situazioni indecifrabili!

“Fatti coraggio, e vai a vedere!” – una seconda voce nella mia testa mi suggerì. Fosse stata una persona fisica, avrei risposto a modo. Ma, ero solo. Maledettamente solo.

Sempre immobile sulla mia piastrella di osservazione, mi guardai intorno, a dire il vero senza sapere chi o cosa cercare o guardare. Poi scavai dentro di me per recuperare tutto il coraggio possibile e mi avviai, esitante, verso la porta socchiusa. E mentre la raggiungevo i miei occhi fissavano il raggio di luce come sentinelle atte a scrutare possibili ombre, movimenti, insomma, qualsiasi cosa desse prova di presenze in quella dannata camera. 

Niente.

Raggiunsi la porta e lì mi soffermai.  Le mie orecchie si concentrarono sul segmento di porta aperta come radar in attesa di un segnale aereo. Anche qui silenzio assoluto. Tirai un lungo respiro e, quasi in apnea, afferrai la maniglia. Il gelo dell’alluminio attraversò il mio braccio, penetrando nei più reconditi angoli delle mie ossa. Rabbrividii, un po’ per la sensazione di freddo, un po’ per la paura.

“C’è qualcuno? Chiedo scusa, ho visto la porta aprirsi e…” – non terminai la frase. Non ce n’era bisogno. 

La camera era perfettamente in ordine, tutto nuovo, nulla lasciava immaginare un utilizzo precedente di quanto presente. Pulita all’inverosimile, la camera era arredata in modo sobrio, come si conviene ad una camera di ospedale. C’era un lettino al centro della stanza, perfettamente sistemato in lenzuola, coperta di lana azzurra e cuscino bianco; sul lato, un comodino di legno blu ed alluminio lucido, in perfetta sintonia con tutto l’ambiente, interno ed esterno. Dal comodino un solido braccio metallico reggeva un vassoio rimovibile. Di fronte, un armadietto a due ante, anch’esso di colore blu, un tavolo ed una sedia. Sulla parete dove poggiava il letto un quadro comandi con alcune manopole e degli ingressi per tubi. Sulla destra dell’armadio, invece, una seconda porta, probabilmente il bagno. Tutto nuovo e pulito, messo ancor più in risalto dalla fortissima luce bianca che dei potenti neon sistemati al soffitto diffondevano nell’ambiente.

Abbandonai la stanza, rincuorato dal non aver incontrato nessuno, confortato dalla normalità di quella camera, uguale a tante altre camere viste in altre strutture sanitarie. Uguale? Eppur qualcosa stonava in quella camera. Lì per lì non ci feci caso.

Tornai al corridoio, guardando su entrambi i lati quasi stessi attraversando una strada molto trafficata. Ma lì c’ero soltanto io. Confortato dalla precedente ispezione, decisi di visitare altre camere.

Una dopo l’altra, tutte le camere erano perfettamente uguali: nessun segno di vissuto, nessuna differenza di arredamento né di colori. Poi, dopo l’ennesima esplorazione, mi accorsi del particolare che fino a quel momento mi era sfuggito: le camere non avevano finestre! 

Abbandonai la camera con una sensazione di inquietudine e tante domande senza risposte. Una su tutte: dove diavolo mi trovavo?

Ritornato al corridoio, cominciai a proseguire con passo spedito, abbandonando l’esplorazione e decidendo di giungere quanto prima ad un qualsiasi tipo di apertura verso l’esterno. Il corridoio proseguiva, sempre più: pavimento blu cobalto, pareti bianche, porte azzurre, panche in legno ed alluminio in tono di colore e arredamento. 

Giunsi finalmente alla fine del corridoio: due grandi porte grigie di pesante metallo, l’ascensore che tanto aspettavo! Mi affrettai a raggiungerlo, ma subito notai un particolare: non vi erano interruttori di chiamata! “Come diavolo si aziona questo dannato ascensore?” – altra domanda a voce alta e senza risposta. 

Poi l’intuizione. 

Poggiai entrambe le mani sulle fredde porte, anch’esse gelide come tutto il resto in quel dannato ospedale e, facendo leva su tutte le mie forze, e soprattutto sul senso di inquietudine sempre più crescente, spinsi verso l’esterno le pesanti barriere metalliche. Lì per lì non successe nulla, poi, lentamente, sentii le porte cedere alla mia spinta crescente fino ad aprirmi finalmente un varco su… un altro corridoio, esattamente uguale al precedente!

Trasalii, cominciando a sudar freddo di fronte a quel blu, quel bianco, quelle dannate panche, quelle porte come tasti neri di un pianoforte verticale infinito. Tutto identico, anche le camere. Tutto perfettamente, dannatamente uguale. 

Non persi tempo e cominciai a correre: nel lungo corridoio il mio respiro sempre più affannato, accompagnato dal sordo rimbombo dei miei passi pesanti e veloci. Porta dopo porta, panca dopo panca, raggiunsi un nuovo varco, sempre difeso dalle due pesanti porte metalliche. Le spinsi come non mai, mosso dalla speranza di trovare una qualsiasi cosa diversa, temendo, invece, di ritrovarmi ancora in un corridoio uguale.

Così avvenne. Termosifoni, settori antincendio, panche e porte si alternavano danzando freneticamente mentre correvo sempre più veloce. Sempre più disperato. Correvo e mi chiedevo dove mai mi trovassi; correvo e speravo che di lì a poco riuscissi a svegliarmi. Correvo, correvo…

Altre porte di ferro, altre panche, altre porte, altro blu, altro bianco. Sempre lo stesso, sempre lo stesso…

Non so quanto tempo era trascorso dall’inizio di quell’incubo, ma a me sembrava un’eternità. Quanti corridoi avevo percorso? Dieci, venti, cento, o sempre lo stesso? Ormai mi ponevo domande, ad alta voce, lasciando che le mie parole mi facessero compagnia mentre rimbalzavano di parete in parete, rotolando verso l’ennesima porta metallica.

“Ah! Ah! Ah!” – cominciai a ridere di gusto, di fronte all’ennesimo varco metallico.

“Vedi che ora ti svegli”. 

“Perché sei sicuro che è un sogno?”

“Un incubo!”

“Sogno o incubo, qual è la differenza? L’importante è svegliarsi al più presto. Quando racconterò ai colleghi questo sogno, oh scusa! Incubo. Ah! Ah! Ah! Loro mi prenderanno in giro e mi chiederanno cosa ho fumato ieri sera”.

“Ieri sera? Sai da quanti giorni è che corri?”.

“Giorni? È un’eternità! Ah! Ah! Ah!”.

“E’ solo l’inizio…”

Mi sedetti su una panca, fredda ma comoda. O almeno così doveva essere vista la stanchezza che ormai attraversava le mie gambe.

“Bravo, riposati. Devi essere tonico, c’è da correre per l’eternità…” 

 

Dalla raccolta di racconti Percorsi nell’ignoto