Giovanni Toglia - Poesie e Racconti

Il conforto

 

Per tanto tempo ho convogliato le mie amarezze

verso luoghi e stati d’animo appartenuti solo a me.

 

La sofferenza, più cruda dell’amarezza, dovevo

prenderla per mano e condurla dove facesse meno male.

 

Talvolta non riuscivo a portare quei mostri 

in altrove lontani e mi rimaneva solo il pianto.

 

Liberatorio e dolce.


Il risveglio 

 

Attraversa le tapparelle la

prima luce, si posa sugli 

occhi svegliandomi. 

Allungo una mano, 

trovo il tuo corpo tiepido, 

mi giro dalla tua parte, 

percepisco i tuoi odori

lievi, gradevoli; profumi 

che sole donne amate hanno; 

mi avvicino ancor più, 

ora tutto il mio corpo 

sente il tuo tepore e il respiro

soave mi conduce in paradiso. 

La dolcezza mi vince, 

m’azzanna il desiderio 

trascinandomi verso il tutto. 

Ma resisterò per scrivere 

molti altri versi di questa 

tenera poesia dedicata a te. 


L’ appello

 

Quando, fra non so quanti anni o più,

finirà anche il tuo tempo, anche tu

sarai chiamata all’appello e dovrai 

fra immensa folla rispondere:

Chi è stata amata tutta la vita fra voi?

Il tuo braccio si leverà perentorio. 

Fiera ti guarderai intorno, vergogna

e milioni di occhi chini, blu, azzurri, 

verdi di bionde, brune, rosse, tutte silenti.

Consumerai così la tua vendetta ricordando 

me grata che ti ho amato per tutta la vita.


La maschera

 

Non maschererò amore con amicizia,

perché dalle pieghe di quegli abiti

griderà potente la voce annientandomi.

 

Il desiderio impetuoso proromperà 

riducendo a brandelli seta e cotoni

e tante parole canteranno vittoria.

 

Giù per gote arrossate mille gocce

provenienti dal fondo degli occhi 

solcheranno felici il nuovo sorriso.

 

Un tripudio di lieti sospiri.

Un profluvio di promesse giurate e

indosserò finalmente, la felicità.


Laggiù

 

Laggiù dove dicono che riposano le anime,

troverai il mio dolore;

 

Laggiù dove lirica e poesia cantano drammi, 

troverai la mia tragedia;

 

Laggiù dove seppelliranno quello che resta di me, 

perché sei andata via.


L’incontro

 

Sul lungomare a scambiarci confidenze 

del nostro passato lontani l’uno dall’altra.

Mi fermo percorrendo la strada più breve 

verso la tua anima: gli occhi. 

Rubo il lieve tepore di te prendendo la tua mano 

nella mia e l’accarezzo. 

Mi avvicino con una scusa  

per sentire  il  tuo respiro leggero 

e ti accarezzo le labbra con le mie.

E vorrei rimanere per sempre confuso 

da queste tenerissime emozioni.


Tradimento

 

Ovunque guardo seccume:

cespugli di desiderio,

siepi di speranza,

distese incolte di domani.

 

In cielo nuvole di attese,

e tempestose delusioni.

Finalmente un po’ di calma,

e piove, migliaia di gocce

 

e l’amarezza mi lava l’anima 

sporcata dalla tua viltà;

piango e ripulisco anche

il viso dal tuo tradimento.


Avevi sedici anni Favola

 

C’era una volta una fanciulla bruna di sedici anni, occhioni scuri e sorriso smagliante, abitante in un paesino dell’Italia del sud. I suoi genitori, sebbene non fossero ricchi, le avevano assicurato scuole e libri adeguati alla sua voglia di apprendere. E lei ricambiava con diligenza e perseveranza l’affettuosità, ottenendo risultati ragguardevoli. Questo lo racconteremo un’altra volta; qui vi diremo come il Cielo si fosse innamorato del suo sorriso e di come il Sole si fosse innamorato dei suoi capelli neri.

Per comodità chiameremo questa fanciulla Assuntina (un nome immaginario). Costei ogni volta che rideva aveva il vezzo di tirare indietro la testa mostrando il suo sorriso verso il Cielo. Una volta, due, dieci, cento. Il Cielo non sapeva più fare a meno di quei denti piccoli, aguzzi, bianchissimi in quella giovane bocca contenta di mostrarsi così felice al mondo.

Non ci mise molto il Sole ad accorgersi dell’affetto che il Cielo nutriva per quello splendore di ragazza e, appena ne ebbe l’occasione, esplose tutta la sua tracotante gelosia verso l’innamorato: Tu sei Cielo perché l’ho voluto io inondandoti di luce, come osi innamorarti di una mia creatura che solo grazie a me puoi vedere così bella e sorridente. Cosa aspetti che io rabbui tutte le cose per non farti più vedere il tuo amore? No! Ti prego, rispose il Cielo timoroso e accomodante, non nascondere la bellezza di quella fanciulla; lei non ha colpe di questi avvenimenti, si, se vuoi non la guarderò più. 

Si! E faresti bene perché anche io sono innamorato di lei. Qui dalle mie parti solo il biondo, l’arancione, il giallo contano ed io ne sono stufo; perciò quei capelli neri come la pece mi hanno toccato il cuore facendomi innamorare. 

Venne la sera e ambedue i contendenti andarono a dormire.

Il mattino successivo sia il Cielo che il Sole decisero di darsi battaglia per il sorriso ed i capelli di quella fanciulla. Il Cielo era così scuro che sembrava notte fonda, il Sole non ci pensava neanche a squarciare quelle tenebre coi suoi raggi. L’azione, involontariamente combinata dei due elementi, fece precipitare le temperature in tutto il mondo. Alle Canarie nevicava dall’alba, e non era mai successo negli ultimi diecimila anni. Tutto il nord Africa, dall’Egitto all’Atlantico era sotto una coperta di neve. Sembrava l’inizio di una nuova glaciazione. Se avessero continuato a darsele Cielo e Sole, l’umanità si sarebbe estinta in qualche mese. Dappertutto già si vedevano le prime isterie collettive con centinaia di migliaia di persone ginocchioni a pregare e recitare litanie e rosari.

Intervennero, con l’autorità che competeva loro, le stelle. Si riunirono tutte le più vicine al Sole: Sirio, Procione, Altair, Eridani, Gliese e Centauri. Conoscevano già gli accadimenti degli ultimi giorni e non potevano consentire che questa guerra continuasse. Discussero per qualche ora ed alla fine il loro giudizio inappellabile fu emesso: il Cielo doveva continuare a fare le cose che sapeva fare; vestirsi di azzurro per ispirare i poeti, ospitare milioni di uccelli, combattere con le nubi centinaia di battaglie quotidiane in tutto il mondo per consentire al Sole di inondare di luce le cose. Il Sole doveva illuminare il mondo e dargli calore, determinare le stagioni, favorire la crescita della vita dappertutto specialmente per piante, fiori, frutti ed animali. Ambedue furono invitati a non innamorarsi delle cose terrene dalla vita così breve come gli esseri umani. 

Intanto l’amore del Cielo e del Sole sarebbero stati affidati al primo giovane che avesse messo gli occhi addosso alla brunetta l’indomani.

Il giorno dopo il Cielo si mostrò azzurro come non mai, il Sole splendette come quello di luglio. La sorte volle che tale Giannino (anche questo nome immaginario) di diciannove anni passasse per la strada nello stesso momento che la brunetta usciva dal cortile per recarsi a scuola, perché aveva dormito dalla nonna. 

Ciò che avevano previsto le stelle avvenne! Giannino si innamorò di quella fanciulla quel mattino portando con sé quell’amore per i successivi 60 anni senza chiedere e ottenere nulla in cambio. 

Difatti pochi anni dopo la giovane brunetta si laureò in medicina, specializzandosi in ortopedia, poi conobbe un giovane ingegnere che la sposò conducendola nell’alta Irpinia, ebbero due figli; Giannino sposò una ragazza giovane e bella del loro quartiere che gli diede tre figli.

Sebbene vivessero lontani tanti chilometri e conducessero vite così diverse Giannino non smise mai di amare la sua indimenticabile brunetta. Difatti ad ogni occasione gioiosa si chiedeva se anche la sua amata avesse provato o stesse per provare quella gioia: con il primo figlio, con il primo giorno di scuola, il primo giorno di liceo, il primo esame di maturità, la prima fidanzatina, il matrimonio. Tutte le volte Giannino si interrogava se la sua amata si ricordasse di lui e del suo tenerissimo ma indistruttibile amore. E tutte le volte inviava verso quel cielo lontano la medesima preghiera: Dio fa che il suo sposo la ami come l’amo io e per sempre.

Poi, passati tantissimi anni, come per tutti gli uomini venne anche per Giannino l’ultimo giorno. Si rese conto subito quella mattina alle quattro di quello che stava per succedergli. Ripassò come in un video tutti i suoi anni. Una vita tutto sommato come centinaia di milioni di altre vite: non bella, non brutta, senza notevoli scossoni. Il suo innamoramento per quella fanciulla era stata la cosa più bella che avesse avuto e tuttora immaginava che possedesse le belle fattezze di un tempo. Chissà com’era diventata. Chiuse gli occhi per alcune ore e sognò di scriverle con i nuovi sistemi informatici sui cellulari anche se nella vita reale a stento riusciva a fare qualche telefonata. Si scrivevano anche due volte al giorno, e durò per tantissimi mesi… nel sogno; così ebbe la possibilità di esprimere tutta la poesia che aveva in cuore per quel dolcissimo e indimenticato volto che aveva dovuto reprimere per tantissimo tempo. Lei con la consueta pazienza e intelligenza delle donne lo lasciava fare ben sapendo che più di quello non poteva dargli. 

A lui bastava! E si vedeva anche in quegli ultimi momenti perché un sorriso si disegnò sulle vecchie e rugose gote.

E piano piano passò dal sonno alla fine sorridendo alla sua Assuntina.


Appuntina Racconto

 

Qualsiasi riferimento a fatti e vicende realmente accaduti deve ritenersi assolutamente casuale.

 

A metà degli anni sessanta, in uno dei popolari quartieri ad oriente di Napoli, viveva la famiglia Trossini. Giuseppe era il capo famiglia 52 anni, Addolorata la moglie 43 anni, i figli erano cinque: Carla di anni ventiquattro sposata, Salvatore ventidue anni in procinto di sposarsi, Filippo sedici anni studente superiori, Anna dodici anni studente scuola media e Assuntina 7 anni prima elementare, per tutti Appuntina. La chiamavano così perché non riuscendo a dire correttamente la doppia esse per la caduta degli incisivi, per evitare risate e prese in giro aveva sostituito la doppia esse con una doppia “pi”. Straordinaria iniziativa per una di sette anni!

Giuseppe si guadagnava da vivere facendo il venditore ambulante di attrezzi agricoli. Utilizzava un carretto con un cavallo e girava per tutte le case isolate delle campagne spingendosi fino ai comuni al limite di Napoli: Cercola e Volla. La merce era sistemata su cassetti appositamente costruiti. La sera non c’era bisogno di scaricarla. Il carretto veniva rimessato sotto una tettoia in un angolo della quale c’era anche la stalla per il cavallo che serviva anche a Giuseppe per dare “un occhiata” al suo capitale. La signora Addolorata era bella con un corpo di sana e robusta costituzione; da mattina a sera lavorava solo per i figli e la casa dov’erano rimasti solo gli studenti perché Salvatore già dormiva nella casa ammobiliata che fra pochi mesi avrebbe occupato con la moglie.

La casa che avevano in fitto i Trossini faceva parte della stessa unità immobiliare del deposito di seicento metri quadri di proprietà dell’impresa Legni d’Italia il cui anziano direttore di vendita era stato messo a riposo per raggiunti limiti di età e sostituito con tale Aristide Belloni di 44 anni già direttore di vendita in Toscana per 20 anni. Con la sua venuta l’azienda pubblicizzò i nuovi legni sagomati per porte e finestre che in quei tempi andavano proprio bene. Il volume di affari superava spesso il milione di lire la settimana, e per Aristide c’era un margine del 10%. Ogni tanto il preposto chiedeva alla signora il lavaggio delle camicie e qualche piatto di pasta a pranzo in cambio di un foglio da cinque mila, quattro volte al mese. La prima volta che Aristide pagò, la signora voleva sapere quanto dovesse dare di resto e lui rispose: resto? Ma è tutta vostra quella cinque mila; per poco non svenne. Alla fine del mese aveva messo da parte quindici mila lire. Ma la parte che affascinava di più in Aristide era il dialetto toscano, cravatta e camicia sotto la tuta e il fatto che si faceva due docce al giorno.

Un giorno Aristide baciò Addolorata sulla bocca e lei reagì malissimo. Non sai baciare a quaranta anni, per questo sei arrabbiata. E lei non seppe rispondergli perché era vero. La sera andò dalla sorella più giovane per farsi spiegare un po’ la situazione è la sorella volle prima sentire il suo alito e superata la prova la istruì per bene -con sei fidanzati più il marito, la sorella poteva dare lezioni a chiunque-. Difatti quando dopo tre giorni Aristide si avvicinò a lei per verificare delle macchie che non erano andate via dalla camicia fu lei a baciarlo infilandogli la lingua in bocca frullando come un mulinello. Per la miseria, disse Aristide, sembri una sanguisuga. Dove hai imparato in un giorno solo? Andarono oltre ben presto perché era nato un amore fra due persone mature e frustrate. Lei con il marito che dormiva in una baracca; lui con una moglie che pesava quarantasei chilogrammi. Due mesi dopo il primo bacio Aristide a bruciapelo le disse: scappiamo insieme. Sei pazzo? Ma nel cuore di Addolorata la mamma e l’amante stavano combattendo una battaglia senza esclusione di colpi, all’ultimo sangue.

C’era per il direttore alle vendite una bellissima possibilità lavorativa in quel periodo. L’azienda per la quale lavorava di cui era anche azionista del 10% avrebbe inaugurato il mese successivo a Latina un mega store di prodotti per l’edilizia di proporzioni gigantesche; la Direzione Generale non era convinta a chi affidare la nuova struttura fra Aristide e un sessantenne lombardo che era azionista anch’esso al 10%. Ogni punto percentuale significava quattro milioni di lire di investimento. Aristide vendette una villa che aveva a Civitavecchia per dieci milioni e li investì nell’impresa passando al 12,5%. Dopo dieci giorni con un telegramma fu invitato a chiudere l’attività napoletana e trasferirsi a Latina.

Quella sera Aristide invitò Addolorata a venire nel capannone; c’erano più di trecentomila lire di prodotti che lei avrebbe potuto vendersi. Tutti questi soldi, e dove li metto? Addolorata già aveva messo da parte 150 mila lire con quello che le passava l’amante. Finirono l’inventario alle due. Lui le prese la mano e la condusse in un angolo poco frequentato del capannone, lì c’era una roulotte con un lettino e una doccia. Se le suonarono di brutto la prima volta in un letto i due innamorati.

Verso le sette si svegliarono e lui le disse: ti amo, anche io Aristide; domani vieni con me o non ci rivedremo più. Sei un infame le mie figlie insieme non arrivano a venti anni. Potrai portarle con te. Questo la convinse a partire.

Il giorno dopo avevano venduto tutto prima di mezzo giorno. Addolorata realizzò 340 mila lire più quello che aveva messo da parte precedentemente aveva quasi 500 mila lire. Due giorni dopo una macchina entrò nel deposito e ne uscì con una donna bionda con gli occhiali. Due ore dopo raggiunsero Latina, il megastore aveva una intera palazzina per la direzione. A piano terra abitava il capo dei guardiani; al terzo il direttore alle vendite. Un appartamento di 200 metri quadrati e un terrazzo di 120 mq. A disposizione macchina con autista, giardiniere e donna per gli aiuti in casa. 

Quella stessa notte tutti i figli e Giuseppe cercarono Addolorata per cielo e per terra senza trovarne tracce. In casa c’era tutto: quel poco di oro, quasi centomila lire, la biancheria era tutto al solito posto; mancava solo lei. Anna piangeva singhiozzando; Assuntina terrea ma senza una lacrima ogni tanto andava ad abbracciare il padre.

Il mattino successivo scoppiò la bomba in tutto il quartiere e di bocca in bocca qualcuno aveva azzardato una fuga in elicottero. Gli unici che si fregavano le mani erano gli addetti al gioco del lotto; non perché una fuitina fosse qualcosa di clamoroso da quelle parti; era, piuttosto, l’età dei fuggiaschi a sbalordire: la fuitina alla menopausa commentò qualcuno più cattivo degli altri. Alle ore 17 tutti i biglietti di 50 lire, cento lire e duecento lire erano esauriti; chi voleva giocare doveva sborsare da 500 lire in su. Le due ricevitorie chiusero in attesa delle nuove matrici il giorno successivo.

A poco a poco a Napoli il clamore e le file al banco del lotto erano scemate. Restava solo l’amarezza dell’abbandonato e la tenacia di Appuntina a rifiutare gli inviti della mamma. Ma la piccola non era tutta freddezza. Aveva preso l’ultima camicia da notte usata dalla madre, l’ultimo pigiama, lo scialle e li aveva avvolti in un grosso foulard a modo di cuscino e ogni sera si addormentava piangendo nel suo lettino abbracciando il suo ricordo di mamma.

Intanto a Latina, Aristide si rese conto che “l’italiano” di Addolorata era terribile. Chiese aiuto alla cugina di sua madre a Livorno, la chiamavano tutti zia Elsa che in sette otto mesi insegnò mille cose ad Addolorata che doveva uscire da sola a fare la spesa perché il territorio doveva insegnarle il dialetto toscano. Qualche mese dopo il bel faccione di Addolorata era noto a tutti i commercianti e la sua risata grassa e forte metteva di buon umore uno stand completo di pesciaioli. Quando Addolorata rientrò a Latina zia Elsa ci rimase molto male.

Filippo più volte aveva cercato di convincere Appuntina ma più grande si faceva, più argomenti aveva per vincere la sua causa. La famiglia Trossini, o quello che ne rimase, dormivano in tre posti diversi: Appuntina con la nonna, Filippo in una casa affittata appositamente con tutto quello che era rimasto dopo la fuga, e Giuseppe che aveva venduto cavallo, carretto e mercanzie e aveva adattato alle sue modeste esigenze la stalla. Sebbene piccola Appuntina tutti i giorni si recava dal padre a portargli da mangiare; piccola, magrolina, con qualunque tempo la vedevi arrivare con un fagotto col desinare in una mano e con l’altra un vecchio ombrellino. Da bere ci pensava il fratello più giovane di Giuseppe che insieme al cognato facevano una ventina di quintali di vino. Per il vecchio genitore quella ragazzina coraggiosa -aveva saputo anche lui delle pressanti richieste di Addolorata- era la sua luce. Un anno dopo anche Filippo raggiunse la madre che usava, era ormai evidente, la posizione dell’amante come una clava. Ma Appuntina era forte come il suo vecchio, ora stava in quarta elementare, pronunciava il suo nome correttamente e ingaggiava battaglie con tutti quelli che la chiamavano in maniera scorretta. Ma le battaglie diventavano furiose quando qualche malcapitato l’appellava figlia di zoc. Un maschio di quinta credendo di fare il gradasso rivolto ad Assuntina le disse: Tu sei quella che da cazzotti se la chiamano figlia di zoc. Non fini la frase è ricevette un diretto destro sul naso svenendo. Assuntina ancora arrabbiata si fece due passi sul suo corpo inerme andata e ritorno. Era il terzo maschio che finiva in ospedale dopo i massaggi di Appuntina.  In quinta già era una bella signorinella e si era guadagnato il rispetto di tutti gli scolari a suon di sberle.

La nonna le aveva promesso di farle tagliare i capelli dal parrucchiere prima dell’inizio della scuola media. Difatti a settembre venne giù anche Filippo che gli portò un regalo di Anna un regalo di Addolorata ed un regalo suo. Tre oggetti d’oro uno più prezioso dell’altro per il taglio delle trecce.

Il primo anno Assuntina fu promossa a giugno con ottimi voti, e così fu per gli altri due anni di scuola media. Ogni estate si dedicò al padre facendogli un bagno ogni settimana e il vecchio, per scherzare, le disse: Assunti ma sei sicura che la pelle con tutti questi bagni non si consuma? Poi gli tagliò i capelli e due volte la settimana la barba. Quando finiva c’era sempre il figlio di Luciano che la veniva a prendere, Ferdinando. Questi un giorno si fermò e chiese di poter parlare con Giuseppe. Già ho capito che vuoi, Assuntina è ancora piccola. Dopo la terza media se ne parla. Ma oggi sono tempi difficili per chi è sola, disse il ragazzo. E tu falle compagnia, te la conservi proteggendola ma non sei ancora il fidanzato. Sette anni dopo Assuntina si sposò con Ferdinando. Ebbero due figli, si amavano teneramente, sembrava che anche per lei ci fosse la felicità. Ma il destino talvolta si presenta assai più infame degli uomini. Era in agguato per Assuntina. 

Ma non ne aveva subite già tante la nostra piccola eroina? 

Per il crudele destino no! 

Ferdinando una sera diede di stomaco, il giorno dopo per impegni di lavoro non andò dal medico, ma durante la notte lo portarono in ospedale. Una tac all’addome rivelò l’amara sentenza: un tumore al fegato piuttosto avanzato. Due mesi, forse tre di vita con le chemio. Assuntina se non avesse avuto i due bambini si sarebbe buttata giù il giorno della sua morte. Ma i ragazzi erano troppo piccoli per rimanere soli. Un giorno vollero andare dal padre. Fu uno dei momenti più strazianti della giovane vita di Assuntina. Da allora andava avanti e indietro come un automa. Il giorno che Fernando la lasciò vedova lei era andata un attimo in bagno, era lì da sei ore, e quando rientrò e se ne accorse proruppe con una bestemmia e poi: “manco o tiemp pe ghi a piscia’ me rate” (neanche il tempo per andare a fare la pipi mi hai dato). Si sedette gli prese la mano ormai fredda e le lacrime, finalmente scesero abbondanti. Dopo i funerali, che pagò la ditta, ricevette la liquidazione di quindicimila euro. Avevano un gruzzoletto in banca ma ne era rimasto meno della metà, altri seimila. La prima cosa da fare lasciare subito la casa che abitavano; erano cinquecento al mese, i servizi altri centocinquanta, trovò una casa più piccola dove abitava da bambina ma si vendeva. Il proprietario ne voleva trentaseimila, scese poi a trentadue commosso dalla tragedia. Assuntina chiese aiuto a tutta la famiglia. L’importo più cospicuo arrivò da Latina: dodicimila euro. Più mille euro i due fratelli, più duemila euro i cognati; totalizzò trentasettemila euro. Il proprietario gli fece un ulteriore sconto di cinquecento euro se lei non avesse rimosso una piccola edicola che aveva costruito il figlio morto tre anni prima in un incidente.

Rifece solo il bagno e una sola parete della cucina. Vendette tutti i mobili che non entravano nella casetta e realizzo altri trecento euro. Fece tutti i contratti e sul conto rimasero settecento euro. Erano passati già due mesi dalla morte del marito; all’inizio del terzo mese traslocò. Con quattrocentoquaranta euro al mese di pensione con due bambini non vai lontano. Trovò un lavoro a ottanta euro a settimana cinque ore la mattina in una farmacia. Molte volte il dottore le consentiva di fare due ore la mattina e tre il pomeriggio. Andò avanti per due anni con la farmacia poi trovò di meglio in una concessionaria a cento euro a settimana ma il lavoro era molto pesante. Ogni mese metteva da parte centoventi euro con la tredicesima raggiunse duemila euro il primo anno. 

La figlia era diventata signorina, non era bella come lei ma si fidanzò con un bravo ragazzo prestissimo; questi lavorava in un negozio di calzature e ogni paio di mesi portava a casa modelli fuori moda per pochi euro al paio. Assuntina ogni tanto prendeva un paio di scarpe e le regalava alle cognate.

Erano dieci anni che Ferdinando li aveva lasciati, il figlio Luciano aveva diciassette anni e cinque mesi e voleva prendere la patente per guidare i camion la CQC Merci occorrevano un paio di migliaio di euro per tasse e scuola guida. Assuntina contando anche sull’aiuto della figlia sostenne le aspirazioni di Luciano. Il ragazzo al compimento del ventunesimo anno era in possesso della patente CQC Merci. Siccome fra ventisei esaminati fu il migliore, fu assunto in una ditta di spedizioni come secondo autista per due anni e primo autista per quattro anni. La paga di secondo autista era di mille ottocento euro al mese. Il primo stipendio regalò cinquecento euro alla mamma e alla sorella. Dopo il terzo stipendio si presentò a casa con una ragazza. Buonasera mamma ti presento Matilde. Assuntina l’accolse fra le sue braccia le diede due bacioni come benvenuto. Nel giro di tre anni si sposarono tutti e due. La figlia rimase con lei, il figlio prese in fitto una casa da seicento euro al mese, se lo poteva permettere. Frattanto era anche arrivato il primo nipotino che nonno Giuseppe fece appena in tempo a vedere.

Una donna per quasi quaranta anni da sola aveva portato avanti la sua famiglia inizialmente in maniera dignitosa per finire in maniera brillante.

A conclusione di questa vicenda umana ci sentiamo obbligati a ringraziare questo fulgido esempio di virtù e di tenace fermezza verso la madre in errore e verso l’avaro destino. 

Grazie Assuntina di essere vissuta nello stesso tempo in cui siamo vissuti noi; grazie per averci indicato la strada di come ci si rimbocca le maniche senza piangersi addosso, per averci dimostrato che la fame non è sufficiente a vendersi al primo cretino venuto, grazie preziosa gemma di queste povere strade e poverissime teste.


 

Vorrei

 

Vorrei accarezzarti il volto,

le guance, il naso, le labbra

vorrei annusarti i capelli,

e poi reclinar la tua fronte

fra il collo la faccia e la spalla,

per sentire i tepori più dolci

della bocca, del seno, del viso, 

e godere dei mille profumi 

sia tenui che quelli decisi.