Giulia Marchiò - Poesie

Parole tra amanti

Ci sono parole che non riesco a dire per paura di infrangerle, di infrangermi, di infrangerti. So che ti arrivo, tra questi fogli un po’ impacciati, con una scrittura poco elegante, so che tu riesci a sentirmi. E allora fallo. Sentimi, toccami, accarezzami. Ti racconto di me, di te, di noi. Ti racconto di quello che succede dentro di me, quando le tue dita toccano la mia pelle. Quando i tuoi occhi si incatenano ai miei, di quando il tuo respiro riempie i miei polmoni. Adoro ogni parola che non dici. Adoro quando mi guardi urlandomi contro senza emettere un suono. Adoro quando mi passi le tue angosce durante la notte. Impazzisco quando sento il tuo sguardo attraversare le teste degli altri per piantarsi nelle mie iridi, come se fossi la cosa più preziosa ma sconosciuta che tu abbia mai avuto tra le mani. Adoro quando mi chiedi scusa. Adoro quando ridi. Adoro quando mi fai ridere. Adoro quando ti esaspero. Adoro quando nascondi il viso tra i miei capelli, dietro la mia schiena. Adoro quando mi rispondi in modo selvatico, per poi darmi un bacio, chiedendomi pazienza e ancora dolcezza.
Ma non siamo facili. Non lo siamo per via dei nostri mondi un po’ diversi e costretti inevitabilmente alla collisione. Ci sono così tanti pezzi di puzzle così difficili da combaciare. Non ti so dire quando né come, non ti so dire con che modalità, ma lo troviamo il modo di restare uno di fianco all’altro. E non è facile accettarsi, lo so bene. Non è facile non giudicarsi, starsi dietro senza spaventarsi. Non è facile. Ma come te lo spiego che quando sono nuda davanti a te il cuore mi va in gola, che tra le tue braccia io mi sento protetta, che le tue mani si intrecciano così bene con le mie. Come te lo spiego che mi sei entrato dentro, così tanto in profondità in così poco tempo da perdere il controllo. Come te lo spiego che le tue paura, i tuoi vizi, i tuoi sbalzi d’umore anche se, a volte mi spaventano, non mi destabilizzano. Come me lo spiego che sei l’ingranaggio meglio incastrato con la profondità del mio essere. Come me lo spiego che non so più niente, ma con te è tutto più chiaro.
Ma posso spiegarti come non ti lascerò andare anche quando le cose saranno difficili. Anche quando non capirò, anche quando avrò paura. Non ti lascerò andare, perché tu vali la pena di essere toccato nelle corde più profonde della tua anima. E fai bene ad aver paura. Facciamo bene a temerci, perché dagli abissi non si torna più in superficie. Ti voglio nella mia vita con così tanta intensità, che non farò neanche un passo indietro. Diamoci la possibilità di essere complici in tutto quello che facciamo, di trovare il nostro equilibrio, diamoci la possibilità di camminare insieme, di costruire, di desiderare, di crollare, di sostenere, di guardare, di provare. Datti la possibilità di fidarti, di dividere quei pesanti fardelli con me, di sentirti protetto dalle mie attenzioni. Dalla mia delicatezza e dalle mie paure, dalle insicurezze. Prenditi cura di me. Scegli me. Non sarà facile, farà male. Ma sarà bellissimo. Ti ho detto tutto. E ora guardami e parlami in silenzio. Accarezzami, non serve altro. Ma non smettere.

 


 

Libertà

Se potessi scegliere un colore da associare alla parola libertà, sceglierei l’azzurro. Come il cielo e come il mare. Un colore tenue che sembra possa sbiadirsi da un momento all’altro proprio come la libertà: oggi c’è, domani potresti non goderne più. Sono nata a Genova, una città stretta e lunga, dove per molto tempo mi si è incollata alla pelle tanto da farmi sentire imprigionata. Dopo innumerevoli addii e fughe da quel luogo mi sono accorta che Genova, con il suo mare, i suoi caruggi e il suo odore di sale, è l’unico posto, in fin dei conti, dove mi sia sentita veramente libera.

Oggi parlare di libertà, durante una pandemia, non è così facile. Sappiamo che l’unico modo per fermare la diffusione di questo virus è stare lontani e rinchiusi nei propri confini comunali. Forse per la prima volta le nuove generazioni hanno compreso, solo in parte, cosa significa non essere liberi. Non credo che si possa paragonare al concetto di privazione legata ad una forzatura fine a sé stessa, i governi ci chiedono di non muoverci per il benessere dei tanti e non dei pochi. Ma comunque, dopo un anno, un po’ privata del movimento mi ci sento. Una mia carissima amica un giorno mi disse che l’uomo non ha radici, ha piedi e, con quelli, va ovunque. Siamo nati per andare e poi tornare, ma sempre in movimento. Ed è una frase a cui sono molto legata vista la fortuna che ho di essere nata in Europa e, che sin dai primi viaggi non ho mai avuto difficoltà ad attraversare confini differenti da quelli italiani. Nel 2021, per assurdo, ci è stato chiesto più volte di non oltrepassare il confine della nostra regione, ed è da un anno che non usciamo dal nostro paese. Non so se questa condizione può rientrare nel concetto di privazione della libertà, ma sicuramente bramo da mesi la sensazione di poter decidere qualsiasi destinazione, senza dover presentare un’autocertificazione sulla ragione del mio spostamento.
Il concetto di libertà è tanto vasto e profondo quanto banale se non si gli si dà il giusto peso. Fermarsi e comprendere davvero il sapore di questa parola è forse la cosa più difficile che abbia mai fatto. Posso definirmi una donna libera, solo grazie alla fortuna di essere nata nel paese giusto, nell’anno corretto e nella famiglia moderna. Ho sempre avuto la libertà di scegliere chi essere, di potermi esprimere in ogni occasione. Libera di amare chi voglio, libera di viaggiare verso ogni meta. Ma forse la libertà è solo fortuna. Penso alla Palestina dove i giovani non sono liberi neanche di ascoltare generi di musica alternativi a quelli decisi dallo Stato, penso ai migranti in Bosnia che non hanno la libertà di entrare in Europa. Penso alle donne private della loro essenza e della loro voce, dalla propria famiglia e dai propri mariti. E penso a chi ha perduto il diritto alla libertà, solo perché di un’altra etnia, religione, orientamento sessuale o politico. In effetti credo che la libertà che godo sia solo fortuna.

Mi è stato insegnato a leggere e informarmi molto e, grazie a queste due semplici azioni, ho scoperto il significato della privazione, della chiusura, della paura e poi della riconquista della possibilità di scegliere. Quelle scelte che danno una svolta alla tua esistenza e alla consapevolezza di chi sei. Non è vero che la libertà è un diritto acquisito dalla nascita, dovrebbe esserlo, ma non lo è mai stato. E la storia ce lo ha sempre ricordato. Che poi quando sei libera davvero, neanche lo sai dove vuoi andare, chi vuoi essere, cosa vuoi pensare. Perché si sa che in una società con le sembianze di una gabbia, nulla fa più paura come la libertà. Penso ai detenuti che per anni sono rinchiusi in pochi metri quadrati, che bramano giorno e notte di tornare a vedere il cielo e non più cemento. Ma una volta usciti dalle carceri, una volta riconquistata la tanto attesa libertà, non sanno davvero che farsene. Quando ti insegnano a sopravvivere in una gabbia, nessuno ha il coraggio di vedere cosa c’è oltre, anche se indefinito e sconosciuto. Fa meno paura essere protetto dalle sbarre che dalla vastità del nulla.
Ma la riflessione sui detenuti è molto più ampia: combattiamo da sempre e, in tutte le parti del mondo, per liberarci da quelle sbarre, fisiche e non, che con il tempo, sono diventate anche catene. Lottiamo da così tanti anni che a volte non ci ricordiamo neanche più per cosa. E, alla fine, se si pensa alla libertà non si fa mai riferimento alle nostre vite, alla nostra quotidianità, ma a quelle degli altri. Ai personaggi dei nostri romanzi preferiti, ad alcuni dei nostri nonni durante la guerra, ai grandi leader della storia. Insomma, chi può definirsi davvero libero avendo chiara la definizione di tale concetto.

Mi sono interrogata per tutta la stesura di questo brano di cosa significasse per me libertà e alla fine mi è sempre tornato in mente un testo di una canzone famosissima di Gaber: La Libertà. Un testo che non poteva spiegare meglio questo diritto. La frase che mi ha sempre colpito di più e a cui sono molto legata è “la libertà è partecipazione” perché in fondo ci sarà sempre qualcuno che potrà minare la nostra libertà tramite restrizioni o violazioni, ma potrò ritenermi una donna libera finché potrò esprimere il mio pensiero e sentirmi parte di qualcosa, essere parte attiva sempre, anche quando ci sembrerà che stiamo subendo.

 


 

 

Ascoltami

In Italia si parla poco di suicidi, un tema che viene affrontato raramente e con disagio. Anche se da qualcuno è visto come un atto necessario per mettere fine ad un dolore avvertito come impossibile da sopportare. Penso che sia davvero difficile descrivere quello che si prova pensando al suicidio, riuscire a immagine di andare contro il proprio istinto di sopravvivenza, pensare che la tua unica salvezza sia lasciare questo mondo.
Se ne parla poco di suicidi eppure nell’ultimo anno, in Italia ce ne sono stati circa 4000, mentre in Nord America, tra le popolazioni dei Nativi, solo nel 2018, il tasso di suicidio delle donne è aumentato del 139% e degli uomini del 71%. Nelle carceri, invece, nel 2020 si sono suicidati 61 detenuti. Ma quando parliamo di suicidi, parliamo di persone e delle loro storie. Parliamo di volti, profondamente segnati dal dolore e dalla paura. Così mi sono chiesta a che tribù appartenesse Rose, quanti anni avesse Carlo e il piatto preferito di Lucia. Ascoltami vuole essere un grido per chi la voce non ce l’ha più.

“L’Oakland non è mai stata casa mia, noi vivevamo nelle pianure dove le distese di terra ci rendevano liberi. Mia nonna mi raccontava sempre della caccia al Tatanka e della conciatura delle pelli. Dopo la morte di mia nonna nessuno mi raccontò altro. I miei caratteri somatici evidenziano le mie origini native, ma i miei vestiti e la mia lingua non sono mie, nostre. A scuola non ci hanno mai raccontato della resistenza del popolo dei Lakota, di Cavallo Pazzo e delle guerre vinte. A scuola non volevano neanche che mi facessi le trecce, le altre bambine potevano ma io no. Troppo folkloristico. Quando conobbi James non fu romantico, prima di diventare mio marito abusò di me mettendomi incinta. Io non lo volevo questo bambino e iniziai a bere, così lo persi. Con quel bambino persi anche la mia ultima briciola di libertà. Ho 35 anni, non ho un lavoro, non ho una famiglia e non appartengo più a niente. L’unica volta che provai a unirmi alla mia famiglia, alle mie origini, andai da mia cugina Jacqueline nel nord Dakota, dopo una settimana fu rapita e scomparve per sempre. Non c’è mai stato spazio per me in questa vita, in questo mondo. Me lo ripete ogni giorno James “non c’è spazio per tutti”. Eppure è il mio popolo che si è preso cura di questa terra per così tanti anni. Vorrei poterlo urlare a tutti che questa, prima di essere la loro terra, era casa nostra. Ma non ho la forza e nemmeno il coraggio, non mi resta altro che scegliere l’unione con il Grande Spirito. Non ne so molto di lui, me ne parlava spesso la nonna. Ho sempre pregato per lui anche se conosco solo preghiere occidentali, spero mi perdoni anche per questo.” Rose, della tribù dei Lakota. Suicida.

“Quando mi misero dietro le sbarre avevo appena preso il diploma, mia madre morì di crepacuore qualche mese dopo la mia condanna. L’unico figlio finito dietro le sbarre per corruzione e società a delinquere. Quando arrivai ero arrabbiato con Antonio quello stupido mi aveva venduto agli sbirri. A distanza di anni mi resi conto di essere l’unico colpevole. Ma l’ho capita poi troppo tardi forse. I primi anni in carcere non li ho vissuti bene le guardie ci riempivano di botte quando era notte, senza telecamere, dovevi stare zitto non dovevi farti notare. Ma tanto le prendervi uguale. Un po’ la sogno ancora la libertà, poter incontrare una donna e innamorarmene. Ma chi si innamora della feccia? A volte mi immagino di diventare papà, forse si vergognerebbe di me, io di me mi vergogno. Spesso penso di farla finita, occuperei un posto in meno in questa cella maledetta. La verità è che ci ho già provato ma Mohamed mi ha tirato giù da dove ero appeso, appena in tempo. Mohamed lo picchiano sempre solo perchè è nero. È un bravo ragazzo Momo ma è troppo abituato alle botte secondo me. Oggi sono arrivati nuovi detenuti ora in cella siamo in 4, i nuovi arrivati dormono in una brandina per terra. Penso che stasera sia il momento giusto, durante l’ora all’esterno. Lascerò il mio posto a Momo spero non se lo faccia fregare e che possa uscire il prima possibile. Non ho mai creduto in dio, ma spero di essere di nuovo libero.” Carlo, 42 anni, detenuto nelle carceri di Milano. Suicida.

“Mi fa schifo. Il polpettone di mia nonna dico. Lo odio, è mollo e flaccido come me. Più lo mangio e più mi verrebbe da cacciarlo. Ho promesso a mio padre che non l’avrei fatto, non stasera. Sono due giorni che non riesco più ad alzarmi dal letto, ma nonostante questo cerco di aprire e chiudere le dita dei piedi, lo faccio da stamattina. Mi sembra di smaltire. Ieri ho vomitato tre volte, mio padre è esploso a piangere, mi ha detto che sono quasi sparita, ma magari lo fossi davvero. Da quando mamma non c’è più siamo rimasti io e lui. È la sola persona a cui tengo, per questo penso che senza di me vivrebbe molto meglio. Ho provato ad impegnarmi, a smettere di vomitare e dimagrire, ma non ce la faccio, il mio corpo che assomiglia tanto a quello di mamma io lo odio. Vorrei che mi abbandonasse come ha fatto lei. Ho provato a parlare con qualcuno ma tanto loro non mi capiscono e io non capisco loro. Non voglio far spendere a mio padre tutti questi soldi. Ogni tanto vorrei essere diversa, bella e leggera. Ma sono pesante per me e per gli altri, ci ho provato davvero ma la mia malattia è più forte di me, lo è sempre stata. Io sono una debole, Lei invece è forte. Mi dispiace non riuscire a mangiare il polpettone della nonna, so che mi piaceva tantissimo qualche anno fa, ma ora lo detesto, è pesante nel mio stomaco e lo odio. Sono arrivata anche ad odiare l’acqua, è pesante pure lei. Ho iniziato a prendere gli antidepressivi ma non funzionano sui miei 30kg. Vorrei vedere sorridere mio padre, di nuovo, ma sono come mia madre gli ho tolto tutto, anche la gioia di una figlia sana. Mi dispiace così tanto, scusami papà ti voglio bene.” Lucia, 23 anni, malata di anoressia. Suicida.

 


 

 

Ci vuole tempo per naufragare

Che cosa c’è dopo? Dopo quando?
Forse domani, o tra cinque anni, magari tra un mese.
Non lo so quando, non conosco il dopo.
È strano non avere progetti o rendersi conto che non sei tu il padrone del tuo imminente futuro. Non sei tu, perché non dipende da te. Per due mesi, ogni giorno mi svegliavo alla stessa ora, per fare le stesse cose e nello stesso modo. Per due mesi mi sono fermata, ibernata e atrofizzata. Era un desiderio in realtà, quello di fermarsi, ne sentivo l’esigenza da un po’ di tempo ormai. Penso dovesse essere più graduale, il tempo dico. Per apprezzare di più le ore che potevi dedicare alla stabilità delle cose, delle persone, della terra. Ma forse è stato giusto così, in fin dei conti le opportunità non bussano mai alla porta, passano dalla finestra e arrivano sempre in forme inaspettate. Ingenuamente pensavo che mi bastasse più tempo per capire, ma non è mai così. Quando ti trovi dentro alla situazione in cui vorresti essere, si ribalta tutto, ancora più confuso di quanto non lo sia mai stato. Perché la verità è che non siamo mai pronti ai cambiamenti radicali, non siamo mai pronti a rimetterci in gioco un’altra volta. E così ti trovi ad attraversare l’oceano senza sapere quale possa essere davvero la tua meta.
Volevi solo navigare, scoprire nuove terre, scappare, ritrovarti o tornare?
Cos’è che vuoi davvero? Non lo so.
Non sai molto di cosa hai bisogno, che può renderti davvero felice, che ti dia equilibrio. E non puoi fare altro che navigare, seguire il vento, a volte contrastarlo e spesso essere dirottato verso un ignoto ancora più sconosciuto. Non so quanto tempo ci voglia per riuscire a capire la direzione giusta da prendere, ma so che adesso ci vuole un tempo immisurabile per ritrovare equilibrio, per perdere di vista quelli che definivi gli obiettivi principali, per volere quello che non vuoi, per lasciar perdere quello che volevi. Ti lascerai trasportare dalla corrente fino a smarrirti totalmente e, solo quando il tuo equilibrio sarà abbastanza forte da non naufragare, avrai capito dove puntare la tua bussola.

 


 

 

Valladolid

È arrivato il momento. Quell’esatto momento in cui ripieghi i vestiti e li infili in modo innaturale dentro a quelle valigie sempre troppo piccole per tutto quello che hai. Pensi a come potrà stare tutto: calcoli stagioni, gradi e precipitazioni, perché lo sai benissimo che il cambio armadio non sarà una motivazione valida e sufficiente per tornare. Così inizi a mettere sottovuoto tutto quanto: vestiti, ricordi, pensieri, paure e ansia; aspiri tutto con l’aspirapolvere e li sigilli dentro una valigia che non dovrà superare i 20kg. Impacchetti tutte le tue cose, come sei abituata a fare da anni e ti rendi conto di quanto alla fine niente sia così importante da portare con te tranne che delle foto usurate, la tua tazza preferita, un buon libro, la dichiarazione dei diritti dell’uomo, una sua maglia, una lettera e i tuoi post-it. Tutto quello che ti serve per sentirti a casa a migliaia di km di distanza.
Io l’ho capito solo ora cos’è che davvero fa male prima di una partenza. Non è la paura di perdere persone: sono anni che sono abituati a vedermi partire, anni che subiamo i cambiamenti della vita, anni che, nonostante tutto, non abbiamo mai perso la voglia di stare insieme. Non è neanche la paura del cambiamento, sì quella c’è, è reale, ma in fin dei conti quante volte ci siamo già trovati a questo punto? Quante volte ce l’abbiamo fatta? Può fare paura, ma gli strumenti ci sono e sappiamo come usarli. La vera tortura lenta e costante, è l’attesa.
Ogni giorno ti svegli con meno ore a disposizione, che separano te dall’imminente partenza. Ogni ora in meno che hai ti sembrano pietre che cadono sui tuoi piedi, pesanti e appuntite. Senti le gambe gonfie e la schiena rigida. Ogni abbraccio, ogni bacio, ogni “ci vediamo presto, andrà tutto bene”, rendono tutto più difficile, più spaventoso. Ed è così che ti sembra davvero impossibile chiudere quella valigia, infilare lo zaino e prendere quell’aereo. Ti sembra così difficile che inizi a boccheggiare, a percepire il vuoto intorno. Hai la sensazione di cadere e non riesci a vederla quella fine.
Ma poi, la sveglia suona, prendi coraggio e parti. E le pietre diventano passi, l’aria leggera, non senti più il vuoto. Senti che ce la puoi fare. Sei viva e andrà davvero tutto bene. Supererai anche questa, non sarai sola. Non lo sei mai stata. Lo devi un po’ a te stessa e un po’ a quella persona che ti ha stravolto la quotidianità, aspettandoti e, quando l’attesa sarà troppa, accorcerà la distanza che vi separa. Ed è così che affronti le tue sfide, con l’adrenalina a mille, ma mai così sola come pensi.
Mi ricordo 4 anni fa quando lasciai casa per la prima volta per così tanto tempo. Fuori pioveva, faceva freddo e sarei finita in un paese ancora più freddo, ancora più grigio. La seconda volta invece, mi sentivo solo molto sola, ma in cuor mio sapevo quanto fosse necessario quel taglio netto con la mia città. Questa volta è diverso. Ho un po’ imparato a gestirla meglio, i saluti sono stati più dei ciao piuttosto che dei goodbye. Sono partita per l’ennesimo test a cui sottopormi, che in fin dei conti so che supererò. 15 settimane lontana da casa, lontana da te, 15 settimane di crescita, 15 settimane di cambiamenti. Poi i miei piedi, instancabili, torneranno dove potranno finalmente riposarsi per un po’. Sempre frenetici, ma un po’ più leggeri.

 


 

Tutto scorre inevitabilmente senza di te

Dicono che chi parte è quello che soffre meno. Destinato a cambiar vita, reinventandosi e rimettendosi in gioco e che non abbia tempo di voltarsi indietro. Io penso che questa sia la migliore tra le ipotesi.
Chi parte ha quasi sempre paura. C’è anche la frenesia di scoprire cos’ha in serbo per lui quel nuovo luogo. Ma spesso ha paura, una paura che scorre sempre più densa e nera nelle tue vene, arrivando prima al cervello e poi al cuore, rendendolo pesante, soffocante e duro. Quando decidi di salire su quel treno lasciandoti dietro la certezza di quello che hai, non lo fai a cuor leggero. Ci sono volte in cui sono partita con la consapevolezza che avevo trovato la mia via di fuga e, ce ne sono state altre, in cui dentro a quelle valigie c’erano macigni, non vestiti. Sai benissimo che una volta oltrepassata quella linea gialla di quel binario, ancora una volta, tutto andrà avanti senza di te. Tu non ci sarai ad assistere a quei cambiamenti, minuscoli e impercettibili ma che raccontano storie, di cui tu inevitabilmente non ne farai parte. Di cosa hai paura? Qui è sempre tutto uguale. Ma la verità è che ho una paura smisurata di perdermi momenti banali ma felici, una festa di compleanno, una serata con più cose da raccontare che mai. La tua amica che inaugura casa, una rimpatriata tra vecchie glorie, un evento nel posto che ti piace tanto. E non c’eri neanche quando la tua amica è stata lasciata, o quando un’altra ha incontrato un nuovo amore. Non ci sei neanche per quella mostra che tanto avresti voluto vedere. E tutto scorre inevitabilmente intorno a te, sopra di te, senza toccarti mai.
Poi più di tutto ho paura di dimenticarmi il colore dei tuoi occhi, del tuo sorriso, del tuo sguardo. Ho paura di dimenticarmi dei tuoi baci al gusto alcol e sigaretta che tanto mi fanno impazzire. Ho paura di non riuscire a ricordarmi che effetto mi fanno le tue braccia intorno al mio corpo. Ho paura della tua assenza, che è così stridula da farmi perdere il sonno.
Ho paura che al mio ritorno tu possa guardarmi strana come se non fossi io, come se ti dovessi riabituare a me, come se, in fin dei conti, sei andata via tu e gli altri si sono dovuti adattare, giostrandosi tra una routine dove tu non ne fai parte. Forse sei più confusa di tutti. Vivi in un’altra città che per sentirla tua ci hai impiegato tanto, ma in che fin dei conti non sarà mai come casa. Ma poi, al rientro nel tuo nido, ti accorgi che tutto è diverso. Persino casa tua. Quando ti siedi al tuo posto ma è stato apparecchiato per un altro, dove le tue cose in camera sono state spostate per mettere nuova roba non tua. E ti serve tempo per acquisire di nuovo il diritto di far parte della tua città, delle persone, di casa. Tutto quel tempo investito a ristabilire un ordine di cui sei dipendente e, quando finalmente è tutto al suo posto, tu sei costretto a partire di nuovo, lasciando ancora una volta la felicità più intima dietro le tue spalle, ormai stanche di voltarsi di nuovo.

 


 

La mia ombra e poi la luce

Sto traslocando e ho la gola secca. Sapevo che Padova sarebbe stata una tappa a tempo determinato, sapevo che sarebbe finita più prima che poi. Ed ero contenta: l’ho odiata così tanto. Una città che avrebbe dovuto ospitarmi solo il tempo di studiare, che più di tanto non avrebbe fatto parte della mia quotidianità. Me lo avevi promesso, mi avevi detto che sarebbe stata solo di passaggio. E invece, senza che fossi pronta, senza che lo volessi davvero, Padova ha creato un’altra me, un’altra vita, un altro percorso, altre radici. Sono stati creati legami di una profondità viscerale, ho scoperto qualcosa di me che non avrei mai capito a Genova. Ho capito che il sole fa sempre luce anche quando, pigro, si nasconde dietro le nuvole. Ho imparato che crollare in frantumi non ti dà altro che la possibilità di costruire in modo più attento e forte. Ho capito che ho ancora tanti limiti da superare e che altri li devo rispettare. Ho imparato che non devo per forza reggere e che a volte posso concedermi il lusso di essere retta. Ho imparato a ricominciare da me anche quando non avevo idea da dove ripartire. Ho toccato una fragilità che non pensavo di avere e l’ho scheggiata e incollata così tante volte che non credo neanche stiano più insieme quei pezzi.
Ora che sto smontando le mie cose, i miei quadri, le mie foto, i miei post-it, ora che sto svuotando la mia stanza, mi chiedo se rimarrà qualcosa di me in questa città. Mi chiedo se sarà lo stesso svegliarmi senza le lampadine del bagno bruciate, la vista che ricorda Pripyat dell’84, le scale, la cucina sgangherata, la lavagna con più disegni che appunti utili. Il materasso duro, le coperte calde, gli spifferi odiosi, lo specchio inutile in camera mia, il terrazzo. La gola è secca e il cuore è pesante. Perché Padova, questa casa, e le persone incontrate, più di tutto, mi hanno fatta rialzare, ancora una volta, togliendomi da quell’angolo dove non riuscivo più a difendermi, dove ancora un altro pugno e forse sarei andata ko. Mi sento pesante, esattamente come quando sono arrivata, ma in modo diverso. Consapevole che davanti a me ci sono così tanti cambiamenti che devo imparare ad utilizzare gli strumenti acquisiti in questo tempo che mi è stato concesso.
Si dice che l’inverno, ghiacciando i rami, dà spazio alle nuove primule che sbocceranno in primavera. Le foto dei professionisti immortalano questo processo in un modo quasi romantico, bellissimo; ma nessuno si chiede che fine abbiano fatto le primule vecchie, quelle che sono riuscite a resistere a tutte le intemperie dell’anno passato, attaccate con forza al loro rametto. E lo so che il mio inverno sta finendo e presto ci saranno altre primule sul mio ramo, ma io quel fiore me lo voglio tenere stretto. Quel germoglio di un colore timido, ma che anche alla fine dei suoi giorni fa più luce degli altri, io quel fiore non lo scorderò mai.
Mi hai tolto tanto, mi hai dato tutto e, per questo, te ne sarò eternamente riconoscente.

 


 

Le stazioni raccontano di te

Sono le 6.45 e fa freddo. Sta arrivando l’inverno, il buio, la pioggia. Sono le 6.45 e sono in stazione. Sembra di essere al cimitero, in realtà. I treni non si muovono, la poca gente che passa si stringe nei suoi cappotti, troppo assonnata e infreddolita per interagire con lo spazio esterno. Ho sempre pensato che i finestrini fossero una visione davvero dettagliata dei particolari di cui spesso non ci accorgiamo. Sono tre anni che vedo attraverso i finestrini dei regionali. Ci sono volti che non ho mai più rivisto e altri che mi è capitato di rincontrare, ci sono le stazioni di sempre e quelle fantasma. Ci sono i panorami mozzafiato e ci sono fiumi. C’è la fretta, dio quanta fretta che ha la gente. Ci sono i saluti, la mia parte preferita. In stazione non è come in aeroporto. In stazione c’è più speranza di rivedersi presto, ci sono le lacrime e i baci. I baci degli innamorati, che si promettono il “per sempre” senza dirselo. Perché la verità è che già difficile arrivare al prossimo incontro, così separati, così lontani. Ci sono i baci dei genitori che vedono partire i propri figli verso un nuovo nido; troppi anni sulle spalle per non commuoversi. Ci sono i baci degli amici, che con fierezza ti vedono spiccare il volo, con la consapevolezza che non sarà mai un addio il vostro. Ne avete passate troppe per separarvi davvero.
Mi piace pensare che le stazioni, con tutti quei fili e quelle rotaie, siano la connessione prolungata di tutta quella gente che sta partendo. Piccoli frammenti di noi che vengono trasportati per tutte le fermate in ogni dove, senza mai perdersi, senza mai trovarsi. Vaganti, senza una meta, nell’attesa di essere visti, di essere percepiti.

 


 

Ci sono radici e ci sono rami

A Genova ci sono le mie radici. Sono incastrate sotto il cemento che si fanno spazio ingombranti e vecchie. Sono ben salde ad un terreno attraversato da carrugi stretti e corrose dal sale. Ci sono le mura, dentro le quali sono custoditi i tuoi desideri più intimi, un taglio di capelli venuto male, i primi baci, le prime sbronze con gli amici. Ci sono colline, dove vedi tramontare il sole con colori indescrivibili. Ci sono i ristoranti preferiti dove conosci i menù a memoria. C’è la lanterna che ti fa luce nelle notti più buie. Ci sono i vicoli dove nonostante tu ci sia nata e cresciuta, ancora fatichi ad orientarti. Ci sono gli amici di sempre, quelli a cui non devi più spiegare nulla, perché sanno già tutto. C’è la famiglia e c’è la tua stanza: il trampolino di lancio verso la vita. Quella stessa stanza che ti ha sentito gridare a pieni e brucianti polmoni e poi visto fare l’amore a cuore aperto. Quella che ti ha visto partire per poi tornare. Ci sono foto e ci sono quadri. Ci sono i tuoi diari dove sono custoditi i progetti più grandi e i sogni irrealizzati. Ci sono i libri che ti hanno cambiato la vita e ti hanno cullata nei momenti di solitudine. C’è il mare, che ti fa sentire viva ogni volta che poggi il tuo sguardo tra le sue onde. Ci sono i km che, per così tanti anni, hai percorso a volte in lacrime, a volte delusa, spesso spensierata. E c’è la sensazione che tutto questo ti stia stretto. Ma è quando passano i giorni, i mesi e gli anni lontano da qui realizzi che, a stare così stretti si riesce a sentire solo più calore.
E poi ci sono i rami. Posti che ti rimangono dentro diventando, alla fine dei conti, un prolungamento della tua anima. Padova è il mio primo ramo. Tutto lì è diverso. Ci sono piazze larghe, ci sono strade piatte, non c’è il mare e neanche le montagne. Ci sono più lacrime amare, c’è la nostalgia di casa, del tuo nido caldo. Ci sono i treni, i flixbus in ritardo, corse contro il tempo per non perdere i cambi. Ci sono valigie sempre pronte e mai disfatte. C’è la bicicletta, compagna di avventure. C’è il bar, l’unico di fiducia. Non ci sono ristoranti preferiti. Ci sono le biblioteche dove passi tanto di quel tempo che perdi intere giornate circondata da luci artificiali. Ci sono le feste in casa e le corse all’università. Ci sono i nuovi amici, che quasi ti sembra di conoscere da sempre, che diventano la tua nuova e sgangherata famiglia. Ci sono i progetti di una ragazza diventata ormai donna e c’è la speranza che i tuoi sforzi vengano riconosciuti. C’è la voglia di lottare, ci sono le vecchie canzoni e ci sono nuovi libri, nuove foto. E le senti crescere dentro all’anima quelle foglie attaccate ben salde al tuo rametto. Foglie che nonostante tutto hanno superato la solitudine dell’inverno e una primavera troppo fredda. Sempre più verdi. Ancora attaccate. E durante una banale domenica mattina di novembre, ti accorgi che la tovaglia che hai scelto per il tavolo della tua cucina, il rumore della moka che ti avvisa che il caffè è salito e, quelle due lampadine bruciate da tempo nel bagno, sanno di casa tua.

 


 

Senza il sole non puoi esistere

Hai mai provato quella sensazione di avere un macigno sul petto? Di sentirti soffocare anche se non c’è niente ad ostruirti le vie respiratorie. Di non provare più nulla se non dolore. Un dolore che non riesci a localizzare nel tuo corpo. Che senti crescere dentro insistente, profondo, agguerrito. Ti senti dilaniato, ma non ci sono ferite. Hai la continua sensazione che da un momento all’altro tu possa smettere di respirare: di camminare, di vedere. Pensi di non riuscire più a filtrare la luce, di non sentire più gli odori. Le tue gambe sono così pesanti, che ti sembra di avere delle catene legate intorno alle tue caviglie. E ti scendono solo le lacrime, finché avrai finito anche quelle, ed è in quel preciso istante che, senti la tua anima frantumarsi in mille pezzi. E tu ci provi disperatamente, con la poca forza rimasta, a raccogliere quei pezzi e riattaccarli su di te, invano. Così, non hai altra scelta che accogliere tutto quel dolore, quel vuoto, quella mancanza di ossigeno, e sperare che finisca presto. Hai bisogno di sentire qualcosa, di sentirti riscaldato anche solo per un momento. Perché tu, tutto quel freddo, non riesci più a gestirlo. E i secondi ti sembrano giorni, le ore settimane, e i mesi anni. Non ti capaciti di come tu, che sei sempre stata luce, ora sei buio. Sei fredda. Sei vuota. “Finirà, devi solo aspettare” ti ripeti davanti allo specchio, ma fatichi a riconoscere anche la tua immagine riflessa. Vorresti urlare, ma i polmoni bruciano, e la tua voce è incastrata nella profondità della gola. Ed è vero, non c’è una via d’uscita, una scorciatoia per arrivare a quel fatidico momento in cui un tiepido raggio si fa spazio in quel cielo così nero. Devi aspettare. Fin quando riuscirai a percepire di nuovo il vento che ti accarezza i capelli, la pioggia bagnare il viso, e il sole riscaldare la tua pelle ormai bianca e secca. Non so se il tempo che ci vuole è uguale per tutti, probabilmente no. Io ci misi un anno e tre mesi e, poi d’un tratto, in un giorno come un altro, tornò la luce.