Giuliana Galletta

Racconti e Dipinti


Ultima lettera a mia madre

…Eppure mi manchi.
Eri lontana, perduta in un mondo strano, popolato di niente, scandito dal ritmo della tua mano sul bracciolo della sedia a dondolo: ta, ta ta, snervante, che spesso rimbombava dentro di me ingigantito dall’angoscia del tuo silenzio…
Eri lontana, triste e pensosa, ma senza pensieri, senza emozioni, senza interessi. I tuoi occhi erano fissi in un punto senza contorni, senza ritorno, mentre niente sembrava scalfire la tua solitaria indifferenza…
Eri lontana, così vicina ed ingombrante, con la tua presenza, il televisore ad alto volume nella stanza, perché Raffaella, la badante, neutralizzava così il tuo silenzio, il ferro da stiro sbatteva sull’asse e il vapore sbuffava con un sibilo, e il mio cuore si stringeva di rabbia e di dolore…
Eppure mi manchi.
Perché di tanto in tanto una luce di fierezza si accendeva nei tuoi occhi, uno sguardo tenero e dolce risaliva dalla memoria del tempo, un sorriso ridonava vita al tuo volto e il passato mi inondava di tenerezza, perché tu, mamma, eri lì, presente…
…con il tuo roast–beef eccezionale, che non mangerò mai più, tenero, rosolato, che tu esibivi in tavola con una finta noncuranza, ma a malapena riuscivi a mascherare l’orgoglio di una bravura universalmente acclarata!
…e i vestitini che cucivi per le bambole dei nipotini, le mutandine che infilavi ai pupazzi, per “decenza”…”E ch’ scostumatezza!”
E più indietro nel tempo, via Duomo, il negozio di accessori da cucito di Marino con le sue scatole colorate, le stoffe di Ritondale per i vestiti da far cucire da Maria Borgonzola (…era poi questo il nome della sarta?), per quel matrimonio, quella festa dove Maria Rosaria, la primogenita, doveva splendere in raso, velluto, o chiffon…mentre noi altre ci accontentavamo di un golfino nuovo, di una gonna nuova…
…”Lucì – diceva papà – tu si’ na femmina senza genio!”, ma si capiva che o’ genio per lui lo avevi, tanto da preoccuparti sempre di rendergli la vita facile e gioiosa, anche quando, di fronte alle cose nuove, strane e moderne che lui con entusiasmo ti mostrava, tu rispondevi che “ogni sturcio è novità!”, ma le tue osservazioni brillavano di orgoglio per questa roccia che costituiva la tua sicurezza, la fiamma che scaldava il cuore, il tuo riscatto per la tua famiglia d’origine che ti aveva relegato ad un ruolo secondario…!
Quante cose mi vengono in mente, quanti episodi che hanno segnato la mia infanzia, la mia giovinezza, la mia storia!
Quanto ti ho ammirato, mamma, per la tua forza mascherata da fragilità (…decide solo papà…), per la capacità di farci sentire continuamente presente un padre che ci amava, sì, ma inseguiva anche le sue ambizioni, con caparbietà, irruenza e sicurezza. Eppure per noi papà era quello che decideva tutto, era quello che consigliava e seguiva…mentre facevi e disfacevi tutto tu, negli studi, negli amori, nelle nostre nuove famiglie…
Ma la tua forza era lui, il tuo Guido, il più bello di tutti, quel ragazzo che le amiche ti invidiavano, tanto da mormorare che, forse, ti aveva sposato “per l’eredità Sparano…” e tu ne hai sempre riso, soprattutto quando papà pagava i pesi di quella famosa eredità…! E la tua storia è finita quando è finito lui, la tua vita ha cominciato ad arrotolarsi come si arrotola un tappeto, lentamente, ma inesorabilmente il tempo ha perso la sua dimensione e la tua strada è diventata sempre più stretta!
Poi, pian piano, tutti noi figli siamo diventati figure dai contorni sempre più sbiaditi, tu sei ritornata in via Anticaglia, con mammà e zizia… E le lunghe conversazioni con i morti, con tutti i morti che hanno angosciato la tua giovinezza e che solo l’esuberanza di papà era riuscita a far rifiorire…I morti assumevano sempre più spesso il volto dei tuoi figli, i miei fratelli. Marilena era Zia Amelia, Genni diventava Carlo (o viceversa…) e tutti noi che rabbiosamente cercavamo di trattenerti, eravamo impotenti di fronte alla nebbia dell’isolamento che s’infittiva e si ispessiva.
Perché, mamma, perché?
Perché la nostra chiassosa vicinanza, il nostro amore profondo espresso con sorrisi, con risate, e anche con urla, scatti, nervosismi, sì, ma tanta tanta tenerezza, perché non l’hai sentito? Perché non siamo riusciti a fermare il tuo cammino verso il niente, il tuo viaggio dentro te stessa, il tuo volgere le spalle alla vita, per non tornare mai più…?!
Non scorderò mai più il tuo sguardo disperato, quando nei tuoi ultimi giorni, volevi comunicare, volevi recuperare un tempo ormai inesorabilmente finito, volevi difenderti e ancora difenderci dalla paura della solitudine, dall’angoscia della morte, dal terrore dell’ignoto: stringevi forte le nostre mani, ma non potevi più parlare…E i tuoi occhi ci comunicavano il senso del distacco con la tenerezza materna ormai interamente recuperata…Noi eravamo tutti lì con te, mamma, perché tu volevi questo, ci hai dato in silenzio la tua ultima lezione, il tuo testamento spirituale, il tuo ultimo messaggio d’amore, reso ancora più struggente dalla tremenda consapevolezza della tua scomparsa ormai vicina…
Perché, mamma, perché?
Non riceverò mai una risposta, non potrò mai più parlarti, non ti rivedrò mai più…
E mi manchi tanto…

Giuliana

 


 

AVVOCATO – BENEDIZIONE – GIORNALE – PROCESSO – APPARTAMENTO

Mele marce

Aveva vinto la causa, al termine del processo, il verdetto era stato favorevole.
Ora poteva tirare un sospiro di sollievo: ancora una volta aveva dimostrato la sua bravura e la sua capacità di manipolare, sì era il termine esatto, manipolare gli articoli della legge per piegarli alla sua ricostruzioni degli eventi da giudicare.
L’avvocato sedeva alla sua scrivania, in quello studio di lusso, grande e spazioso. Come era diverso da quelle due misere stanzette al primo piano di quel quartiere di periferia, dove aveva impiantato la sua prima sede di lavoro agli esordi di una carriera che appariva difficile e incerta! Poi, all’improvviso, la svolta: il grande avvocato Panicucci, suo suocero, era improvvisamente morto e lui ne aveva ereditato lo studio, con tutti i suoi clienti.
Una vera benedizione!
A poco a poco si era liberato di tanti scrupoli morali e la legge per lui aveva smesso di essere al servizio della giustizia, ma era diventata soltanto la miniera d’oro a cui attingere a piene mani.
Ora lavorava in un appartamento di otte vani, in un palazzo storico al centro della città. Aveva due colleghi, quattro segretarie, una fornitissima biblioteca e giovani apprendisti che pendevano dalle sue labbra ed erano pronti a sobbarcarsi di tutte le incombenze burocratiche necessarie per portare avanti lo studio legale. Magari anche senza retribuzione, ma solo per fregiarsi del titolo di collaboratori di quello studio.
Aveva raggiunto una fama di avvocato invincibile e la sua clientela cresceva continuamente tra i ricchi e i potenti della città.
L’avvocato ancora una volta soffermò lo sguardo sulla sua scrivania, sul legno pregiato dei suoi mobili, sull’ordine e la pulizia dello studio che profumava di bergamotto, sui tappeti e sul divano di pelle alla sua destra, ma avvertì prepotente e inaspettato un senso di disagio.
Aveva vinto ma non era soddisfatto, sentiva in bocca l’amaro di una inesistente sconfitta.
Sul giornale che aveva acquistato nel chioschetto sotto lo studio – Avvoca’ complimenti! Ce l’avite fatt’ pure ‘sta vota – c’era il resoconto della sua causa. Nel commento del giornalaio aveva però avvertito una nota di rimprovero mista ad un’ammirazione per chi riusciva sempre a farcela anche senza rispettare del tutto la verità.
Sul giornale che aveva appena finito di leggere, però, il suo operato veniva chiaramente criticato e condannato come l’ennesima vittoria di una corruzione che dilagava dappertutto.
Aveva difeso il grande industriale, accusato di scarsa sicurezza sul lavoro, in seguito alla morte di un operaio di quarantotto anni, padre di tre figli e in attesa di un quarto, che aveva perso la vita perché il Tir che guidava sull’autostrada all’improvviso si era ribaltato. Aveva capito subito che la causa dell’incidente era da ascrivere ad un mezzo ormai obsoleto e mai controllato, ma come era stato bravo a cambiare le carte in tavola! La sua difesa si poggiava sulla imperizia più volte sottolineata di quell’autista che magari era stanco, era brillo, era incapace…
Ora gli tornavano alla mente gli occhi della vedova, quegli occhi scuri, asciutti, brillanti che non avevano mai smesso di guardarlo, dove aveva letto sofferenza, rimpianto, orrore e disprezzo per le sue parole.
Si alzò dalla scrivania e si avvicinò alla finestra. Non riusciva a reggere il peso dei suoi pensieri. Giù nella strada c’era un chioschetto di frutta e verdura e il gestore sistemava con amore e perizia la sua bella e colorata mercanzia: lo invidiò con tutto il cuore.
Nelle cassette a sua disposizione, lui aveva sistemato solo mele marce.

 


 

Il proprio luogo del cuore

La grande villa

Era situata ai piedi del Vesuvio. Quel vulcano, simbolo di potenza ed irruenza, custode silenzioso di Napoli e dei napoletani che vivono alla sua ombra, mi faceva sentire a casa ogni volta che lo guardavo.
Grande e spaziosa, a due piani, circondata da un giardino pieno di rose di tutti i colori, aveva alle spalle un orticello coltivato, a seconda delle stagioni, a pomodori, cavolfiori, finocchi e altra verdura. Da alcuni alberi rigogliosi pendevano limoni, arance, manderini e in estate albicocche dolcissime.
Lì, tra quelle mura, c’erano tutte le mie certezze.
Al di là della recinzione c’era ancora la lava dell’ultima eruzione e per noi sorelle, toccare quelle pietre, camminarci sopra senza avvertire gli spuntoni, anche a piedi scalzi, era come entrare in un mistero e farne parte.
Eravamo otto fratelli, di tutte le età e lì passavamo tutta la primavera e l’estate, ritornando a casa, in città, solo agli inizi di novembre.
La casa custodiva la nostra infanzia e i nostri sogni. Ognuno di noi aveva trovato lì all’interno il proprio spazio e costruivamo storie e fantasie con legnetti, pietre, giornali: di volta in volta la casa si affacciava sul mare, saliva in alto sulla montagna, diventava campagna verde e solitaria, poi, quando salivamo sul grande terrazzo, si trasformava in astronave per farci giocare con le nuvole.
Al piano inferiore c’era un grande salone, il cui ingresso era indicato da alcune colonne basse di marmo rosa; proseguiva poi con una sala da pranzo arredata con una tavola rettangolare dove pranzavamo in dieci nelle giornate piovose.
C’era, poi, lo studio di mio padre, uomo di cultura, che era quasi proibito a noi bambini, ma lì forse è dove abbiamo giocato di più, tra quei libri enormi, trafficando nei cassetti della scrivania pieni di matite, gomme, penne rosse e blu e mille articoli che accendevano la nostra fantasia.
La grande cucina azzurra, sempre con un fornello acceso sotto una pentola con qualche pietanza saporita, si affacciava sulla terrazza al pianterreno. Lo spazio era enorme: c’era un salottino di vimini, due tavolini, un’altalena che andava sempre avanti e indietro, un tavolone grande per pranzare, giocare, fare i compiti, e poi, orgoglio dei nostri genitori e nostra gioia infinita, un grandissimo tavolo di ping pong, dove ci alternavamo a giocare tutti e le partite non finivano mai.
Al piano superiore sei camere da letto e un immenso vestibolo, poi la balconata e infine quella scala a chiocciola che portava al terrazzo superiore. Quante notti abbiamo passato noi sorelle su quel terrazzo, quando il caldo delle stanze era insopportabile! Contavamo le stelle, inventavamo storie, raccontavamo i nostri sogni e cercavamo le stelle cadenti affinché i nostri desideri si avverassero.
Poi, più niente.
La vita che non fa mai sconti, alla morte dei nostri genitori, ha spinto i miei fratelli a venderla, forse per liberarsi di quel tempo che non sarebbe mai più tornato, mentre io al contrario, non volevo venderla, per tenere stretto quel tempo che non sarebbe mai più tornato.

 


 

 Animazione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

Doppio Vesuvio