Giuseppe Dello Ioio - Poesie

E’ o blues

E’ o blues ch m’acchiappa all’improvvis’
mentr ca chiocca sto cumm a nu’ uaglione
che cu na cosa e nient’ sta felice
comm a ‘na corsa appriess’ a nu pallon’
o blues m’ port’ nda nu ddio e turmient’
m’ fa crescer’ na smania che nun ssaie
m’ par e piglià pal’ ogni mument’,
comm quann stai senz o’mbrell e chiove assai
m’ smorz ‘a voc ,e io ‘e chest ne mor ,
comm a nu purp ngann anghiapp e stregne ,
brucia, e cagn’ o culor re’ parol
e dint, o stommac’ e collera s’ regne
o bblues è nu cumpagn che t’ trov’
pur si a iss t’aviv alluntanat
t rice’ è nutil ca fui, e che c’pruov’
i song o blues e a te vogli esser sunat

 

E’ il blues

E’ il blues che mi prende all’improvviso
mentre di testa sto come un ragazzino
che è felice con una cosa da poco
come rincorrere un pallone
il blues mi porta in una grossa inquietudine
mi porta una smania che non so spiegarti
mi sembra di prendere colpi in ogni momento
come quando piove molto e non hai ombrello
mi smorza la voce ed io di questo ne muoio
come un polipo mi prende alla gola stringendola
brucia, e cambia il colore delle parole
e dentro di me lo stomaco si riempie di collera
il blues è un compagno che ti trova
anche se ti eri allontanato da lui
ti dice che è inutile che fuggi che ci provi
io sono il blues e da te voglio essere suonato.

 


 

Qui mi chiamano Dino

Qui mi chiamano Dino
Ma il mio nome è Abdul
L’ho cambiato un mattino
Lasciando Kabul
Lì ho una donna afgana
Che mi aspetta in chador
Qui una donna italiana
Che usa sempre j’adore

Sono anni un po’ duri
Lo sapevo di già
Quando dissi,io ora vado
Abbracciando Karà
Mi conforta il pensiero
Di tornare da lei
Per adesso lavoro
Dalle sette alle sei

Tutto il giorno in cantiere
E sto attento perché
Non ci sono misure
Che proteggano e
Metto insieme i risparmi
Ma non risparmio me
Troppo tempo son fuori
Ma non cerco un perché

L’altro giorno al mercato
-Non lavoro se piove
Scavando tra l’usato
-Non ho mai cose nuove
Mi hanno detto beduino
Torna via a casa tua
Torna lì al tuo destino
Volgi altrove la prua

Ma un signore distinto
Uno di settant’anni
Che vendeva vestiti
Che vendeva dei panni
Mi ha guardato le mani
Mi ha guardato il lavoro
E con gli occhi diceva
Lo racconto io a loro

Ad Amburgo era il gelo
Primi anni sessanta
Italiano del sole
Quanto fredda la stanza
Ricordavo i suoi occhi
La mia donna, Maria
Qualche volta la sera
Karen ,in pizzeria

La Germania ,od il Belgio
O la Svizzera amara
In quegli anni ospitavano
La nostra miseria
Sul ponteggio o in miniera
Spendevamo la vita
Chi chiamava di notte,
la Anna o la Rita

Il ricordo del vecchio,
voce che da lontano
porta mondi diversi
sopra uno stesso piano,
mi accompagna ogni giorno,
è una voce silente
che collega al passato
un dolore,il presente

Qui mi chiamano Dino
mulo ribattezzato
un cantiere di polvere
al posto del sagrato
penso spesso a Kabul
e ci ritornerò
per quel vecchio al mercato
Abdul tornerò

 


Non fermarti

Non fermarti continua a raccontare
Di come vedi le cose
volando sopra il mare
Di come vedi le cose lasciandole lontane
Da come mi racconti
mi sembra di guardare

Parlami e la mia mente
ti segue come occhi
cosi come la scia che mi descrivi in mare
Come le ultime rondini che chiudono lo stormo
e tracciano l’aria
sulla via del ritorno

Sento le tue parole
mi innamoro del suono
mi da colori immensi
colora il mio bisogno
continua a darmi ancora immagini e pulsioni
potrei perdermi se solo interrompi il mio volo

Non fermarti continua a raccontare
Di come vedi le cose
Volando sopra il mare
Di come vedi le cose lasciandole lontane
Da come mi racconti
mi sembra di guardare

 


 

Ti cercherò

Ti cercherò tra le pieghe di un giorno d’autunno
Scartando tra ottobre e novembre i miei giorni
Bagnandomi sotto i primi piovaschi copiosi
Asciugando i capelli al calore del fuoco

Rovisterò in fondo alle vesti dismesse
Cercando il profumo che portavi addosso
E odorando aria vagherò per le notti
Scavando i ricordi tra macerie fumanti

Scostando cartacce ingiallite dal tempo
Scorgerò le parole che scrivevi di getto
Prenderò i fogli stingendoli d’occhio
Seguendo il flusso di frasi incompiute

Allora, e allora soltanto, cadrò dai pensieri
Che sicuri ancorando il mio ego al mio sono
Mi davano un senso del tutto infinito
E volerò via sentendomi solo.

 


 

Solco nottetempo

Solco nottetempo il buio mar dei sogni
quelli che a modo loro, mi rendono i bisogni
attraversano il mondo, liberano la mente
contattando realtà ed uccidendo gente
Ne nascondono i corpi in terre sconsacrate
non sogno di loro per cento e più nottate,
poi d’improvviso, il filo è riannodato
da un sogno barocco, un pasto riscaldato
I sensi di colpa implodo da fuori
e quelle tombe spoglie ricopro di fiori,
così un risveglio amaro mi sorprende cattivo,
ammazzare i miei sogni, è il bisogno di un vivo.

 


 

RapSodÍa

Ora ascolta due parole, il tempo di un caffè, il tempo di parlare ,è giunto anche per me.

Accosta al tavolo, come fossi con un auto, spegni il motore ,
accosta l’orecchio, ma fallo in modo cauto, non durerà per ore
apri il biglietto scritto, che chiamano parole, leggilo d’un fiato
oggi sono in decollo, le parole restan sole, ed io lo sono stato
Disagio è stato il nome, caduta il suo destino, lascito il suo finale
nascosto dietro il tempo, sembra sempre un casino, ma la parola è un male
la strada solo asfalto, il segno è delle ruote, o benzina che cola
la via del tempo perso, e delle stanze vuote, e dell’anima sola
Percepisci il vacante, il nulla il vuoto, il domani che manca
se manca l’oggi ,ora lo so e lo noto, il domani arranca
la distanza aumenta, tra la vita e il destino, la strada non la vedi
non me n’ero accorto, non ci vedi il cammino, nemmeno più ci credi
Convinto fosse un gioco, e che le interruzioni, fossero niente ai buoni
ti ci sei perso le carte, e le buone intenzioni, asino in mezzo ai suoni
nemmeno sai perché, nemmeno sai da quando, ma son suoni stonati
quelli vengono addosso, e tu ti stai affannando, a recuperare dati
Ma non sempre le cose, sono quello che sembrano, a volte son diverse
ci cambi le iniziali, musica sfonda il timpano, significanze perse
cerchi un motivo vero, un accordo diverso, la nuova melodia
trovi tutt’altra cosa, recuperi un pò il verso, vai avanti e cosi sia
Non so se mi hai capito ,non so se mi spiegai, dicendoti di questo
Rimetti in moto l’auto, stacca dal tavolo, vai, fanculo tutto il resto.

 


 

“La sveglia, il tram, quattro ore di ufficio o di officina, la colazione, il tram, le quattro ore di lavoro, la cena, il sonno…questo cammino viene seguito senza difficoltà la maggior parte del tempo. Soltanto un giorno si scorge il “perché” e tutto comincia in una stanchezza colorata di stupore.”
(Albert Camus)

 

La sveglia

L’ora solare mi lascia orfano di luce
abbandono il sonno in cerca di una voce
che mi dia sostegno che mi dia coraggio
che mi faccia agire, come se fossi saggio

Passo davanti al bar, curioso la vetrina
entro e scelgo dal banco melle alla gelatina
chissà dall’altra parte se la vita è assai diversa
veder entrare gente, in altre cose immersa

Offrire caffè caldi, cappuccini e aperitivi
miscelare cocktail dai nomi più esplosivi
battere alla cassa scontrini più chiamate
dire buongiorno a tutti, anche alle più arrabbiate

Smetto il pensiero assurdo, pago e lascio il locale
sono le otto e mezzo, stamane butta male
cerco la via del solito che mi porti al lavoro
come un canto automatico, al centro del mio coro

Sbrigo la mia giornata, solo tra altri soli
anche se all’apparenza siamo dei buoni muli
e tratteniamo il fiato per quasi otto ore
nati per altre specie, qui ci tarpiamo il cuore

Si trova la strada, come un tapis roulant
tutti fedeli al solito come novelli Kant
ma l’abitudine che abita in fitto le fattezze
ci cuce stretto addosso, un mondo di tristezze

Ancora avanti al bar, ma ora ha luci accese
mostra le proprie rughe dopo le ore spese
entro e scelgo dal banco melle alla camomilla
chiosano la giornata, fragile come argilla

Recupero il domicilio, riconosco l’odore
prelevo dal frigorifero stacco il centro sapore
spengo una giornata, a cui non chiedo altro
di confondermi tutto, e di non farmi scaltro

L’ora solare mi lascia orfano di luce
mi abbandono nel sonno in cerca di una voce
che mi dia sostegno, che mi dia coraggio
che mi faccia agire, come se fossi saggio

 


 

Ignacio

Entro. Lo sbalzo di temperatura mi ricorda quando ancora si entrava in un locale e li dentro si fumava. Cinema ,ristorante o bar che fosse, li dentro si fumava. Ignacio è li, seduto ad un tavolino sembra che mi stia aspettando, anche se, in realtà, in questo momento sarei dovuto essere a centinaia chilometri da qui, e così anche lui. Di guidare dopo un funerale non mi va.
Un cenno della testa a salutarlo, lo stesso da parte sua per salutare me. E’ stanco ed io sono il suo specchio, non abbiamo motivi per non esserlo. Non sei stanco se sei pronto a vivere quello che il giorno ti pone sulla strada, che incroci, con cui ragioni, con cui ti batti o ci giochi. Altrimenti, o sei.
Non scambiamo due parole da tempo, ma lui parla come se continuasse un discorso lasciato aperto da pochi minuti. Da fiato alla sua voce, bassa ma dritta come un fuso : “Ad un certo punto ci si incaglia nel vuoto che si crea tra il dolore del passato e la paura del futuro”.Mi guarda come se ,seguendo le linee delle rughe del viso , si stia accorgendo solo ora quanto la parola passato, sia presente.
“La realtà della vita prima la cavalchi con forza, hai tanta di quella energia dentro che nemmeno ti accorgi di quanto siano cattivi e continui gli ostacoli che trovi davanti .E li superi, salti i fossi, di qualsiasi natura siano, lo fai per te o per gli altri senza pensarci su due volte. E li superi, non ti accorgi dei segni che ti lasciano addosso. E li superi, senza aver memoria del dolore che in qualche modo ti procuri. E li superi.
Poi quella forza si affievolisce, all’improvviso una caduta, o anche solo un incespicare ti regala un dubbio, ti toglie quel mantello di sicurezza facendoti galleggiare nel vuoto, e il dolore del passato ti sorprende improvviso.
E arrivi a non avere più fiducia nel futuro o addirittura a non vederlo proprio, al punto, forse, di chiedere di averne almeno, in qualche misura,paura. Arrivi a chiederti come sia stato possibile scavalcare quello che si è trovato sul proprio tragitto. E ci si incaglia.”
Prende il soprabito che tiene li, poggiato su una sedia. Gli occhi lucidi, incontrano i miei che a fatica non esprimono lacrime. Avvicina l’uscita del locale, si gira allungando il braccio per fermare il mio movimento nel seguirlo.
“E’ l’incaglio depressorio quello che in barca fa toccare la carena sul fondale .La secca in cui si blocca la prua della nostra barca . Ora è cosi, magari ci si rivede”
Mentre esce mi giro di spalle per non fargli leggere la mia espressione da vecchio bambino.”Ciao Ignacio, alla fine ci si vede tutti.”

 


 

Dondolano i suoni nei vecchi saloni, curve le note accarezzano i tardi parati
e gli occhi seguono i passi che seguono musiche che seguono te
manca il carretto e anche l’uomo che grida gelati
ma anche ci fosse orberebbe il gusto che ti accosta a me.
Potremmo trovare l’accordo su cose che in sintesi diano l’antitesi che in noi invece c’è
tanto che alfine retorico sia, ed anche illogico, restare a parlare con te
oppure ascoltare il silenzio che spezza il momento che il fiato già corto ci dà
non chiedere ad altri l’assenso per dare al tormento una logica che proprio non ha.
Si perde il gusto rotondo che l’insieme impensato può dare se ancora si ferma a pensare
si trovano mille motivi per essere privi di spinte ideali e altri mille per ricominciare
oppure osservare che il buio alla luce c’è in ogni giornata e che è giusto accettare
che quello che in fede si assevera è dogma nel credo e che è vita nel fare.
Rimane un gusto un po’ perso e un senso che cerchi in continuo su note dolenti e stonate
rimane ancor l’eco di vecchie canzoni e di storie narrate di getto in antiche ballate
prospetti un’idea e la sviluppi attraverso fingenti alchimie che ampolle contengono appena
ma ancora una volta descritta l’ellisse ne perdi gli estremi che avallino la vera scena.
Allora infeconda si svela la trama di un viaggio che orfano rese il dio veritiero
e scendi dal tram che portava una storia su un mondo che sia vita sul serio.

 


 

 

Otto atti senza motivo

-1-
L’ufficio sembra essere stato usato per una seduta dell’anonima tabagisti. La ceneriera ricolma sembra frutto di un’opera metodica e non frutto di una mancanza d’accortezza. Fogli di carta con sopra accennati appunti che ad una prima scorsa sembrano senza senso, sono alla sinistra della sedia più grande, tabulati listini e depliant sono affastellati, come se chi li avesse posti in quel modo cercasse, rasentandolo, il punto di rottura dell’equilibrio, sfidando la fisica, variando il concetto di baricentro. Agende degli ultimi quattro anni su di una poltroncina che fa paio con una gemella posta dall’altra parte di un tavolino basso, un angolo probabilmente destinato idealmente a momenti di relax e che invece ora è un altro punto di accumulo di carte, buste, posta non interessante ma mai cestinata. Niente di diverso da uno dei mille uffici che riempiono la provincia mentale dell’economia giornaliera. La persona che mi ha aperto la stanza è rimasta sulla porta come a dissociarsi dal disordine, il suo sguardo segue il mio mentre guardo quell’ordine disastrato che è l’ufficio di Ugo Reggi, e quando mi rivolgo a lei la prima cosa che mi dice è :- “Non mi occupo io di tenere in ordine le cose del titolare, non vuole proprio”. Do una scorsa agli appunti:orari di appuntamenti di lavoro, il titolo di un libro con a fianco il nome dell’autore, una frase di una canzone d’autore, una commessa probabilmente raccolta al telefono, il numero di un cellulare con a fianco scritto “Giulio – direzione commerciale”.Mi avvicino alla porta per uscire, la tipa si affretta a scostarsi, come se temesse un contatto, mi rigiro a dare un’occhiata alla stanza e chiudo gli occhi un brevissimo attimo.”Grazie- dico alla timorosa – possiamo andare”.

Fuori dall’edificio l’aria sembra voler informare che la primavera potrebbe anticiparsi di qualche settimana. Un fine febbraio cosi caldo sembra invitarmi a vestire più leggero per poi sorprendermi con un repentino calo di temperatura come quello appena passato, ma ho deciso che quest’anno non mi farò fregare, cambierò l’assetto termico solo quando sarò sicuro di non farmi comparire i dolori del cambio stagione .Mi rimetto in auto con il finestrino aperto cercando di mettere su una immagine del tipo, prima che gli altri facciano a gara per riempirmi la testa con la loro personale lista della lavandaia. Riguardo mentalmente la stanza, quel suo “disordine ordinato” così simile a quello cha hanno in tanti, che mi fa essere pronto a scommettere che potrebbe trovare più velocemente un foglio in quel caos piuttosto che in un archivio tenuto alla perfezione da altri. Su di un mobiletto portadocumenti, solo ora metto a fuoco una scatolina che ho visto, cerotti alla nicotina, ma dalla condizione del portacenere mi sembra chiaro che l’auto sperimentazione dell’articolo, non sia mai partita .Ad occhio e croce un quadro d’insieme di partenza dell’insieme ce l’ho, o penso di averlo. Scommetto mentalmente con me stesso:una settimana di footing mattutino se sbaglio, una giornata senza contarmi le sigarette se ci prendo.
-2-
Solo fino a qualche giorno fa, la mia vecchia passione da investigatore era sepolta nelle vecchie storie dei vent’anni. Secoli erano passati da quando avevo restituito alla prefettura la mia licenza da investigatore privato. Erano stati dieci anni cominciati con la mia passione per i romanzi gialli, saltando da Poirot ,a Steve Carella dell’ottantasettesimo, con le ore passate alla televisione a guardare Humphrey Bogart ne “Il Falcone Maltese” che mi avevano spinto dapprima ad entrare in un istituto di vigilanza privata, per poi entrare nel mondo, che sognavo fantastico, dei “private eyes ”. Dopo qualche anno e tante disillusioni, una sera, aspettando in auto l’uscita da un portone dell’ennesimo amante dell’ennesima sfigata, pronto a fotografarlo per poi passare all’incasso, mi sentii come Giuda con i suoi trenta denari in tasca. Che c’entravano le storie di quella gente con la vita che Chandler mi aveva promesso? Niente! Scattai le mie ultime foto, incassai i miei ultimi denari, e consegnai la licenza barattandola con un pub, bancone ovale, freccette annesse e cosi via. Dal Falcone a Cin Cin.
Torno alla città sempre più di rado, un battesimo e poi una prima comunione di un nipote, un Natale con i miei, il minimo per farmi sentire fuori posto ovunque, nel giardino delle radici come in quello del tronco. Ora sto per parcheggiare la mia auto su una strada dove tanti anni fa accostavo in doppia fila, il tempo per citofonare e vedere Elisa scendere ansimante, per via di quella mania pseudo salutistica per cui quando si scende di casa le scale si fanno a piedi. Non si può dire che la città non sia cambiata, e anche di molto .Ogni volta che ci torno scopro nuove costruzioni, cambi di viabilità, e mi sorprendo malinconico a cercare degli angoli, dei negozi, che ormai non solo non esistono più fisicamente, ma non occupano nemmeno più molto spazio nella memoria delle persone. Ogni volta qualcosa mi porta a riconsiderare la faccenda sotto un altro punto di vista, a verificare che delle cose in una città, come anche nella vita di una persona, non cambiano mai :questa volta è la solita mancanza di posti per parcheggiare. Giro a vuoto per una decina di minuti, valuto la possibilità di vendere l’auto a quel tipo che, fermo sul marciapiede, sembra contarmi i passaggi a vuoto, all’improvviso vedo nel retrovisore una macchina che a frecce spente esce dallo stallo. A marcia indietro mi accosto, pronto a sconfiggere le forze del male che probabilmente mi appariranno sotto le spoglie di un’auto che mi disputa il pareggio del marciapiede, guardo l’utilitaria in partenza che va via, e meravigliato, parcheggio senza dover litigare a nessuno il posto auto. Spengo il motore e mi rilasso, uscire dall’auto senza aver fatto evaporare l’energia messa insieme per la discussione da concorrenza del parcheggio, potrebbe essere pericoloso per qualsiasi interlocutore. Spendo un minuto per finire la sigaretta oraria(mi sto imponendo di non fumarne più di una all’ora),poi con calma esco dall’auto, mi guardo intorno, chiudo la centralizzata, attraverso la strada, raggiungo il marciapiede di fronte.
-3-
Mi aveva sorpreso al banco del pub mentre litigavo con un ragazzo poco più che ventenne sulla prospettiva da dare alla lettura di Montalban ne “Il quintetto di Buenos Aires”.Non mi innervosiva tanto il fatto che lui avesse un’opinione diversa dalla mia, quanto la sicurezza nelle sue parole. Riconoscevo in lui l’inevitabile forza della sua età, ed il contrasto con i dubbi che gli anni spesi mi avevano portato in dote facendomi sentire come Corto Maltese ne “La ballata del mare salato” ,inadeguato al ruolo del cattivo. Avevo subito riconosciuto la sua voce nonostante fossero anni che non la sentivo, mi informò che mio cognato le aveva dato il mio numero e che aveva un piacere da chiedermi. Il marito all’improvviso era diventato fumo, scomparso, mi chiedeva se ero disposto a cercarlo per lei. Le autorità di polizia si erano convinte di una sparizione volontaria, dato che aveva prelevato più di duecentomila euro dai conti bancari nelle ultime settimane, ma lei non ne era convinta. – Te lo chiedo in nome della nostra vecchia amicizia-era la frase con cui mi aveva messo al muro-solo pochi giorni, poi se anche tu sarai convinto di quanto mi dice la polizia potrò mettere l’anima in pace, in quel caso non voglio nemmeno più cercarlo.” Riattaccata la cornetta del telefono avevo guardato il ragazzo sicuro di se che finiva la seconda birra ed intratteneva gli occhi sul seno di una tipa che mi stava chiedendo se fosse troppa grazia poter ordinare. Doveva essere lì da un po’,ma la telefonata mi aveva totalmente preso, non fosse altro perché inaspettata. Avevo passato l’ordinazione alla “terza c” che fingeva di non notare lo sguardo del ragazzo, ma che in realtà ne andava giustamente fiera, e cominciai a mettere mentalmente in ordine le cose da fare per poter partire nella mattinata dell’indomani. Avevo guardato con la coda dell’occhio l’orologio del retro banco, ancora due ore e avrei fatto scattare l’alt alle operazioni di lavoro … poca gente in giro quella sera, aumentai i consumi, una birra anche a me.
-4-
E’ incredibile accorgersi come i portieri degli stabili assomiglino ai monumenti, passano più di vent’anni e li trovi sempre allo stesso posto, non sembrano nemmeno invecchiare. T’incutono sempre lo stesso timore che ti porti da quando, ragazzo, schiamazzavi per le scale o premevi tutti i tasti del citofono in contemporanea, per poi scappare divertito da quanto ti rendesse ilare fare stronzate simili. Sono come cavie da laboratorio, fino a quando occupano la loro gabbia non variano morfologia né reazioni a qualsiasi agente esterno, poi una volta in pensione, è come se cambiassero ambiente atmosferico, invecchiano, s’ingrigiscono, avvizziscono in poco tempo. Mi avvicino alla guardiola e chiedo di poter citofonare ad Elisa, Il Caronte di turno mi chiede chi sono. Quasi quasi mi offendo, potrebbe riconoscermi, non sono cambiato di molto, anzi. Poi penso che se non lo vedessi li potrei non ricordarmene nemmeno io, e che forse, il non essere cambiato molto è solo una mia illusione ,e gli do il mio nome.
-5-
La porta dell’ascensore si apre sul pianerottolo buio, sembra l’atrio della casa delle streghe dei lunapark. Ricordo che all’interno del tunnel al parco giochi, c’erano dei fili appesi al soffitto per sorprenderci ed impaurirci col loro contatto improvviso, e per riflesso viene da abbassarmi. – “Terzo piano”,mi aveva detto con un’espressione incuriosita il guardiaporte dopo avermi annunciato al citofono, e il suo sguardo aveva seguito i miei passi verso l’ascensore .Mi sentivo divertito per l’attenzione che gli suscitavo. Sicuro che stava cercando di ricordarsi dove mi avesse già visto, e nel farlo annotasse mentalmente il mio passo, il modo di muovermi..… tempo perso, la maggior parte delle volte che mi aveva visto aveva potuto guardare un ragazzo correre, non un uomo camminare. –“Interno sette”gli sentii aggiungere a voce alta mentre l’ascensore mi stava inghiottendo. L’interno sette davanti a me, vent’anni e più dietro. La casa dei genitori era passata ad Elisa, chissà se il divano del salone è altrettanto comodo, se non proprio lo stesso. Mi apre lei, mi saluta con uno sguardo tra il triste ed il lieto, chissà quale delle due reazione le suscito io. Mi sembra quasi identica all’ultima volta che l’ho vista, una bella ragazza diventata una bella donna. Entriamo in salotto, mi chiede se prendo un caffè sapendo che è solo retorica, non ho mai rifiutato un caffè in vita mia, a sud del Tevere.
-6-
Da dieci minuti abbiamo aggiunto una tacca alla scala di consumo di caffeina della giornata, e lei comincia a parlarmi di quello che ha fatto negli ultimi anni. Sposata felicemente, un marito affettuoso anche se non sempre presente, due figli,Stefano il più grande, venuti al mondo ,una sana vita di provincia con i tempi scanditi dall’orologio della normalità. Poi ,d’improvviso, lo sposo è scomparso senza lasciare tracce. Zero, niente, come d’incanto. -“ E’ successo un mese fa, trentasette giorni, per la precisione. Ho pensato a te già da tempo,-aggiunge con un sorriso accennato-non penserai mica che ti abbia cancellato dalla mia memoria.”.Cerco di assumere il tono più amichevole possibile e mi accorgo che non mi devo sforzare molto. Le chiedo cosa lei pensi che possa essere successo, per smontare quel quadro familiare che mi ha appena dipinto, cosa possa essere successo, in ogni ipotesi, al marito.-”Ha problemi con il lavoro?”,le dico concludendo il mio panegirico. Mi risponde come risponderebbero la metà dei partner in questo caos che è la via crucis di tutti noi, ognuno mette e leva chiodi alla sua croce. –“Non credo, ma non ne sono sicura, mi racconta parecchie cose, di sicuro non tutto, se ha problemi li tiene per se”.Eppure c’era stato un tempo in cui non c’era nessuna moglie di fornaio che non avesse la veste imbiancata di farina, e dove la moglie del medico sapeva quale era il rimedio per tutti i mali che il marito sapesse riconoscere.
-7-
Continuiamo a parlare e senza volerlo ci ritroviamo anni addietro, non per le cose di cui parliamo, ma per il modo di farlo. Sembra che il legame fortissimo che avevamo sia sempre lì, e che la mancanza di frequentazione avuta, lo rafforzi, come a ritrovare una persona di cui ci si può fidare, da cui non si è divisi dai doveri del quotidiano, dalle pur importanti regole della convivenza, dalle leggi della sopravvivenza, dal futilmente importante. Ha lo sguardo verso la finestra, la luce grigia che entra a quest’ora tarda del pomeriggio le scurisce gli occhi. Vedo la sua espressione cambiare, qualcosa le sta dando colpi violenti allo stomaco. Serra le mascella, resta un attimo con le palpebre strette, poi si gira ,mi guarda e con un velo umido sugli occhi mi dice –“Hai ancora un pò di tempo?”
-8-
Chino lo sguardo verso il portaoggetti dell’auto distogliendo per un attimo gli occhi dalla strada, rallentando. Recupero un cd di De Andrè e lo inserisco nel lettore…Il salone di bellezza è in fondo al vicolo … rimetto la macchina ad una velocità decente, meno di tre ore e sarò a casa, i ragazzi non avranno ancora chiuso il pub. Un’ora prima Elisa mi aveva improvvisamente vomitato addosso il colore della sua anima .Si era alzata in piedi, due passi e mi era vicina, si era di nuovo seduta, questa volta accanto a me. –“Eravamo insieme al cimitero, nella cappella di famiglia, io e Ugo. All’improvviso abbiamo cominciato a discutere, no, non a discutere, proprio a litigare .L’ultima volta che abbiamo litigato. Non c’era un motivo preciso, ultimamente lo sentivo lontano, eravamo nervosi, ma in tanti anni è stata la prima volta che abbiamo litigato in quel modo. E’ stato come se come se avessimo un’improvvisa, contemporanea, crisi di nervi. Ci siamo detti cose che neanche pensavamo, credo, ed io per la prima volta nella vita gli ho dato uno schiaffo. Mi ha preso per le spalle, me le ha scrollate con rabbia, non ci era mai successo prima, e poi mi ha spinta via, forte. Mi ha detto che non sarebbe tornato a casa. Eravamo nell’interrato .ha guardato verso di me ed ho capito che nemmeno mi vedeva, mi ha dato le spalle, ha cominciato a salire su per le scale strette ..… Non l’ho tirato forte. Ho afferrato la manica del cappotto ,ma solo per trattenerlo, volevo che si fermasse. E’ scivolato indietro. Sembrava un Pinocchio di legno, per quanto era rigido mentre cadeva. La testa ha battuto forte sul marmo una prima volta, poi è scivolato giù battendo sugli altri due gradini, del sangue è venuto subito via, tanto .Gli occhi gli sono rimasti aperti, ho capito subito cosa era successo, non riuscivo a muovermi verso di lui né a guardarlo, mi sono girata di spalle. Sono stata lì per più di mezz’ora, credo.” Aveva detto tutto come in apnea, di seguito, senza pause, e ora aveva uno sguardo diverso, pieno di dolore ma nello stesso tempo più leggero. Aveva inspirato forte e ripreso –“Non so perché non ho chiamato subito qualcuno, sono uscita dal cimitero senza incrociare persone. C’era un vento gelido in quei giorni, in giro poche anime vive, e una volta a casa ho cominciato a bere qualcosa di forte pensando a chiamare non so chi, la polizia, o Franco, il nostro medico, o mia sorella a Genova. Avevo voglia di gridare, di piangere, di gettarmi giù da una finestra e di sedermi qui contemporaneamente, ma all’improvviso Stefano è rientrato e mi ha chiesto dove fosse il padre. Gli ho risposto che non lo sapevo, proprio così. Ho senti la mia voce dirgli … Non lo so..E da allora sono stata zitta. Zitta. Per più di un mese, trentasette giorni, oggi. –“ Si era alzata e, arrivata alla porta l’aveva aperta –“Grazie, ora potrò mettere le cose al loro posto, il tappo è saltato via.” Ci siamo salutati con uno sguardo ,senza parole, un attacco di malinconia mi ha fatto venire in mente un pezzo dei Pooh, forse perché mi era venuto in mente che a lei piacevano o forse perché non riuscivo a mettere insieme niente di sensato. Mentalmente ho pensato “ ..abbi cura di te, pensai da solo…”. In strada ,avevo aperto la portiera dell’auto, inserito le chiavi nel cruscotto, spento una sigaretta accendendone un’altra senza badare al mio impegno di non fumarne più di una ogni ora ,prendendo subito la via dell’autostrada. Non c’è traffico, andrò direttamente al pub, oggi è mercoledì’ : poca gente in giro, i consumi di birra saranno bassi, li aumenterò io.