Futuro anteriore
(al vecchio Maestro)
Quando sarà eseguito il compito mi chiamerai
e volentieri risponderò all’appello,
e sarà stato bello
salutare coloro che amai.
Dall’ombra della vita passerò all’oscuro
E tutto intorno ci sarà molta luce,
perché il sentiero che adesso mi conduce
sarà stato dolce quanto è stato duro.
Finito è ormai il tempo degli affanni
ora che avrò concluso il mio poema,
ora che la mia vita sarà piena
avrò scritto: – L’ombra non fa danni.
(2018)
Tre per te
Già te ne sei andata, mia adorata;
ieri appena ti dava una gran pena
staccarti dal tuo nido. Senza un grido
bassa volavi: volevi e non volevi;
poi l’altezza, col cuore che si spezza,
guadagnavi.
…………………….
Tu, ch’eri la radice,
sbadigli ormai tra gl’intricati rami
e ami il tuo passato senza amore:
fuggi la morte come puoi.
Tra noi
I nostri corpi non ancora spenti.
…………………….
Se tu
hai amato ed è rimasta
una piaga a ricordo dell’antica ferita;
se per te non è chiusa
la dolorosa partita,
non ti resta che incidere ancora
ed il sangue uscirà come a festa.
Quel ch’è uscito finora sarà
poca cosa
e la piaga sarà più robusta.
(1975)
I ferri del mestiere di poeta
per esempio, la Luna:
fredda, tagliente, interrogante
(il poeta-pastore le risponde
con la sua domanda)
la Luna che occhieggia,
ma non acceca come il Sole,
la Luna notturna
sullo sfondo degli astri (sidera)
luogo dei de-sideri
figli dei metalli
(con-sidera)
il Poeta è un Chirurgo-Pastore
(dell’essere)
lavora con le mani
e solitario, senza memoria….il cane.
(2000)
E venne il tempo del coronavirus……
La poesia dopo Auschwitz
La ben nota questione di Adorno sulla “poesia dopo Auschwitz” (che sarebbe “impossibile”) <<è stata spesso fraintesa come un “divieto” di ogni espressione del trauma storico; ma un silenzio che lo lasciasse precipitare nella dimenticanza e nella rimozione sarebbe altrettanto pericoloso del suo travisamento spettacolare. Adorno voleva dire che non è più possibile la lirica “musicale” della tradizione, e che ogni poesia deve portare iscritta dentro di sé la cicatrice, la distorsione, la durezza inespressiva del trauma, traducendo la dissonanza sul piano della forma: ogni espressione poetica “deve portare nella sua stessa fibra…la traccia della propria impossibilità”>>.
(Mario Pezzella, L’unicità collettiva che illumina la caverna del dominio, in il manifesto del 18 luglio 2018, p. 11)
20 giugno 2020 – Dialogando con Mariangela Gualtieri
e se invece fosse
(cara Mariangela)
che ci eravamo avvicinati troppo
(a meno di un metro eravamo
arrivati a toccarci, appiccicati come sardine,
quasi a pensare che i beni fossero comuni)
su questo globo ormai troppo piccino,
troppo stanchi, vogliosi di un nido
noi che eravamo sul punto di capire
la comune natura, la fratellanza
al di là dei furibondi litigi?
E siamo stati puniti.
Ma da chi? Dalla natura stessa
che ci vuole più adulti ancora,
più soli e più differenti,
che ci vuole bio-diversi
per evolversi ancora?
(o madre spietata che vuole
selezionare i più adatti realizzando
l’immunità di gregge, le difese collettive?)
Oppure da un sistema che ci vuole separati
per meglio controllarci, per farci stare
buoni di fronte alle patenti ingiustizie?
O forse hai ragione (Mariangela):
siamo stati noi stessi, insoddisfatti
di un’imperfetta precoce fratellanza,
a produrre questa orrenda congiuntura,
la disposizione al contagio che ci separa
per renderci più adatti, più coscienti
(più diversi, più forti e intelligenti,,,)
Ma è un altro o siamo noi stessi
il parassita che ci abita,
materia (quasi) vivente
che senza di noi non vive?
(di noi tutti impaurite gestanti
incapaci di partorire se stesse)
E c’è qualcosa di nuovo in questo
essere ugualmente altri
altrimenti uguali,
amici e nemici al tempo stesso,
oggi che non sappiamo
se l’altro sia un altro davvero?
E questo silenzio è davvero silenzio?
E questa recuperata lentezza
è lentezza davvero?
E davvero sappiamo cos’è casa,
quale sia il luogo del nostro restare?
Silenzio? Non mi pare. Un gran rumore
si associa a un’urgente frenesia,
all’attesa di un tempo migliore,
in questa allucinata fantasia.
E “niente sarà uguale”, o torneremo
al punto di partenza, alla movida, all’oro nero?
Ed “andrà tutto bene”, oppure
si approssima la fine nel caldo globale
nel solito spreco senza pensiero?
…………………………………
E intanto siamo tutti ammalati
nel mondo-ospedale inospitale
nella casa di cura
dove siamo mascherati..
E le nostre non cucite bocche
non danno più baci….
E gli abbracci? A distanza
con la tecnologia
col cuore e con gli emoticon
elettromagnesia,
Così vanno le cure
diffondendosi nel cosmo
siamo tutti fratelli
nel deserto o nel bosco.
E ciascuno sorride
dietro la mascherina:
il barista, l’impiegata,
il vecchio e la signorina
sono questi i doni, le pepite d’oro
che dicevi per la vita
nella poesia di ieri
Mariangela Gualtieri.
(10 marzo – 20 giugno 2020)
Il mio nuovo Maestro
Ho un nuovo Maestro. Si chiama Andrea. Nuovo nuovo: ha 11 giorni.
In poco tempo mi ha insegnato molte cose, con le sue posture rilassate (quando è rilassato), con il suo egocentrismo senza ego.
Sto spesso accanto a lui per riempirmi della sua grande sapienza, e talvolta ci guardiamo negli occhi (il suo sguardo è un po’ severo, perché ancora non ha ben realizzato che tipo di allievo gli sia capitato – allora mi morde, con la sua bocca sdentata, per vedere come reagisco); ma mi lascia anche molta libertà di movimento (ha ben altro da fare che occuparsi di me), ed è qui che mi accorgo abbastanza presto di avere già imparato a vivere meglio.
Il suo motto fondamentale è: “Rallentare: reagire di meno, agire di più’” (a partire da sé).
Così quando sono per la strada cammino molto lentamente per non affaticarmi, ma anche per non uscire dal mio centro, e osservo gli altri con molta curiosità, come se fossero anche loro nuovi nuovi. E in realtà lo sono, perché portano quasi tutti una strana mascherina che copre loro la bocca e il naso; e si tengono a distanza – e anch’io mi tengo a distanza, così posso osservarli meglio nelle loro posture e movimenti. E anche loro si muovono più lentamente di prima, e non solo per il caldo della stagione.
Ma spesso mi sembrano impazienti di riacquistare la velocità precedente, e di potersi avvicinare di più tra loro (e talvolta imprudentemente anche lo fanno), perché forse non hanno ancora capito quanto è bella la vita che m’insegna il mio nuovo Maestro. Nuovo nuovo. Stupito e stupendo, ma per niente stupido.
Il mio Maestro mi ha insegnato anche a rimanere immobile, come fa lui, quando medito, in piedi o sdraiato oppure anche seduto. Immobile ad ascoltare attentamente, come faceva Socrate prima di aprirsi al dialogo, i diversi messaggi che provengono dalla mia pelle, dalle mie membra e dagli organi interni: il caldo e il freddo (oppure il tepore), le contrazioni e le distensioni, i piccoli dolori, il solletico, i pizzicori….
Però Lui è fragile, e ha bisogno di cure. Gli piace avere gente attorno, che si occupi di lui, del suo nutrimento, dei suoi lavacri, dei piccoli e grandi fastidi che spesso lo tormentano, al di là della sua grande saggezza.
Ma anche in questi casi non smette di insegnare. Insegna l’energia e la delicatezza, e soprattutto l’attenzione e la compassione (o l’empatia). Insegna a variare la divisione del lavoro fra coloro che lo curano, attraverso l’osservazione e l’osservanza delle attitudini e dei talenti di ciascuno; ma senza che questo s’irrigidisca in vere e proprie specializzazioni, perché la cura dipende dal momento, dai bisogni che insorgono, dalle disponibilità di ciascuno, dagli umori….la Cura è olistica e situazionista, benché richieda sollecitudine e competenze, e perfino tecniche vere e proprie.
Così il piccolo Maestro m’insegna, c’insegna, a far comunicare tra loro le diverse parti dell’agire, c’insegna l’ascolto e il transito delle informazioni.
C’insegna il comunismo.
Sempre passando dal cuore.
(3 luglio 2020)