Giuseppe Supino - Poesie

23 maggio 1992

Diretto
definitivo
tempestivo
il detonatore
spezzò
dilaniò
VITE

Il sogno di Giovanni Falcone
la fine del fenomeno umano
della montagna di merda
degli occultamenti
nell’acido
nel cemento

23 maggio 1992
una freccia scoccata
oltre gli anni
bocche cucite
e sguardi altrove

Un bisbiglio
nei giorni distratti

L’alito
che si risveglia nella cenere
e si fa brace

 

 

Fake news

Impudichi segnali dall’etere
seminano, blaterano, discordie
confondono autentico e falso
smarrire il senso
interferenze io penso
che siano e intercettano
l’equilibrio
e lo smembrano, dissolvono
annullano
per rendere umani frammentari
frammenti rari di vividi
sfilacciati eppure esistenti
nell’olocausto cerco un varco
un filo cui aggrapparmi
per discendere nel cuore della terra
e uscire finalmente dall’etere
forse il cuore dei ricordi
o fantasie inesplorate

 

 

Il vento di Marte

Il vento di Marte
fa un ampio giro nell’universo,
arriva sulla Terra e spazzola il prato
di quel monticello convesso,
solca il profondo Oceano e poi riparte.

Il vento di Marte
ristagna nelle otri di mondi ormai sepolti,
asciuga delle dee i capelli folti,
accarezza dei poeti le sudate Carte,
o pizzica le corde delle Lire
e disperde nei secoli le note
per poi ripartire.

Tra le stelle e i pianeti cammina lento,
non vuole che dell’alito lo Spirito
sia mai spento,
raccoglie i figli suoi sulla Luna
e una folla si aduna
di mesti canti,
di richiami gioiosi,
di eterni materni pianti
per figli sepolti sotto campi erbosi.

 

 

Inverno, primavera

Ingabbia ed ingrigia
lo sguardo

Nebbia

Vestigia
lontane smunte
improvvise nel dì tardo

Esili
imbrigliati in spettrali cordoni

Rami

piegati dalla nevosa tramontana
poi sostegni nel sole di fogliami
come reami
per piccole creature

Tra i germogli e le foglie
lucori
il tronco accoglie

Livori sulle cortecce
parti nel dì nascente
brecce su mura come di luce sprazzi

Intrecci di raggi in caldi arazzi

 

 

L’indesiderato

L’indesiderato
il non voluto
il non invitato
quello per cui se non c’è
è lo stesso
ma quello pure di cui ognuno parla

Il non risolto
quello per cui
tanto non si offende mai
il non classificato
il sale guasto della Terra
oppure quello
che è come una fossa nel terreno
un inciampo che ti fa bestemmiare

Il mio me a cui do un altro nome
un altro volto
il mio me che do in pasto agli altri
finalmente sollevato
dal bisogno di difendermi

L’indesiderato
avanza con occhi ferini
mentre noi marciamo
nel nostro solido tepore

 

 

Le case dei vecchi abbandonate

Le case dei vecchi abbandonate
hanno urla che nessuno può sentire,
pensieri su fronti solcate,
svanite.

Hanno buchi da cui puoi vedere,
come sole nascente,
sprazzi di luce su una bruna valle.

Hanno crepacci che come sentieri
conducono a scoperte
di ieri.

Oppure odore di pane
appena fatto
e di non confessati amori.

Dimentico di tutto, su questa scheggia impazzita,
ripenso a volte a quelle estati,
alle fresche primavere.

Le case dei vecchi abbandonate
hanno culle ancora dondolate,
pentole di rame che attendono
le domeniche affollate.

Sono il sogno nella reclusione
le case dei vecchi abbandonate.

 

 

Le case dei vecchi

Le case dei vecchi
sono come musei senza teche,
pezzi di passato riflessi negli specchi,
di rigattieri vecchie botteghe.

Nelle case dei vecchi correvamo atterriti:
erano giochi crudeli,
vestigia di nemici agguerriti,
armi delle credenze divenute cimeli.

Dagli assolati cortili
salutavamo i vecchi sulle soglie:
istanti di candori infantili,
linfa che nascenti irrorava le foglie.

 

 

 

Gita a Ficuzza

La Sicilia che ero curioso di esplorare non era quella costiera, quella
iconica dei declivi dolcemente adagiati sul mare con gli immancabili
aggregati di fichidindia qua e là nella rada macchia, che in questa parte
del Mediterraneo sembra come strappata o bruciata dal sole cocente; la
Sicilia che intendevo esplorare era quella interna, quella tristemente
famosa degli agguati, dei sequestri, dei ricoveri dei latitanti, latori di
pizzini, nascosti tra le pagine di un Testo sacro, oppure quella dei
pastori, dei mai risolti abigeati, dei casali arroccati sotto speroni affioranti
dai profili dei rilievi.
E questo mio proposito si è avverato casualmente, un caldo pomeriggio
di agosto, essendo stati invitati ad una cena, giorni addietro, da un
parrino di nostra conoscenza in un posto dal nome per me
assolutamente estraneo: Ficuzza. Così siamo scesi nell’ampia strada di
via Ausonia, Palermo, abbiamo imboccato l’autostrada
Palermo-Messina, siamo usciti a Villabate e poi su fino a Ficuzza. I
tornanti si susseguono in queste plaghe, costeggiano i versanti, talvolta
la strada si interrompe o segue percorsi alternativi, a motivo di lavori
interrotti da chissà quanto (in ogni caso troppo tempo), e quindi
mozziconi di ponti, avvallamenti verso il nulla. E poi c’è quel sole, il sole
imperiale della Sicilia, che ti insegue, ovunque, impone l’azzurro, vero,
assoluto, trasparente azzurro, tutto riflessi, bagliori; e spazza via, il sole
della Sicilia, ogni residuo di nubi, costrette quest’ultime in ritirata ad
asserragliarsi, estrema difesa, quasi impaurite, su qualche sparuto
cocuzzolo, quasi a formarne una vaporosa ghirlanda.
Si passa per Marineo, paese in festa (festa a venire o terminata, difficile
a dirsi), la festa del santo patrono, quella con le luminarie per le strade.
Si arriva, dopo tanti, troppi tornanti, dritti dritti nella piazza e qui i classici
crocchi in prossimità di una chiesa, una fontanella, una panchina, un
bar; crocchi di soli uomini, crocchi di ragazzini, quest’ultimi meno
compatti, data l’irrequietezza propria dell’età (ragazzini in bici, che si
rincorrono a piedi, e sempre sorridenti)…poche donne, forse qualcuna,
al fresco sul gradino di casa o alla finestra o a passeggio romantico con
lo zitu. Chiediamo ad alcuni la strada per Corleone. E uno impone la
voce sugli altri. Ci dice di seguire questa e questa strada. Quindi
ripartiamo, vediamo insegna Corleone. Andiamo. Tornanti e poi tornanti.
Ma si va in discesa. Un mezzo, davanti a noi, conduce, in una gabbia a
rimorchio, due vitelli, l’uno dal manto bruno, l’altro pezzato, più piccolo;
destinati, credo, al macello. Mia moglie mi dice, dispiaciuta, che il
pezzato ad una curva s’è rovesciato, poi rialzato, ritrovando l’equilibrio a
stento (la crudeltà del Creato mi stupisce sempre!) Una vettura, nera, ci
segue lentamente; sembra di essere scortati in una sorta di corteo
funebre. Ma poi la vettura, con uno scatto, ci supera e ci distanzia con
velocità abbastanza sostenuta.
Poi bisogna imboccare una stradina, asfaltata nel tratto iniziale, la mia
Punto bianca ne copre tutta la larghezza; il manto diventa terriccio dopo
un centinaio di metri, come divelto dallo sporadico ma incessante
passaggio delle vetture. Terriccio e asfalto si alternano, si fondono;
gobbe nel centro, buche, la Punto traballa, raschia il ventre, quasi si
trascina, sale e sale tra velami di polvere d’intorno. Vari bivi e svolte e
poi eccola, la meta agognata: una costruzione piuttosto ampia e
squadrata su un poggio ai piedi di una collina.
Ci fermiamo, scendiamo dalla vettura, salutiamo un signore di nostra
conoscenza. Ci indica un prato in cui sono parcheggiate altre macchine.
Mia moglie rimane sulla strada, con il signore. Io, con varie manovre, in
retromarcia, superando una cunetta, sottoponendo a sforzo notevole
motore e ruote, quest’ultime sradicando e silurando zolle, raggiungo il
prato-ricovero dei motori. Quindi scendo, mi stiracchio, saluto l’amico
con un sorriso e il classico bacio sulla guancia. Ci avviamo verso l’ampia
casa, ma in uno spiazzo incontriamo altre persone; alcune le conosco
già, ad altre mi devo presentare. Dico a mia moglie che mi intrattengo in
zona per scattare delle foto. Lei si incammina con gli altri verso l’ampia
casa. Mi avvicino ad una recinzione. Saluto una coppia che conosco,
intenta in vari lavori dall’altra parte della rete. La moglie sradica erbacce,
mentre il marito è in cerca di rametti per il barbecue. Mi informo sulla
vegetazione del posto. Fra i cespugli mi si indicano piante di oleandro,
alloro, gelso, ginestre, pungitopo; si distinguono sparuti piante di olivo e
bassi pergolati; e molto più in là boschetti di querce e cerri.
I due vengono interpellati da qualcuno sulla strada. Approfitto del
momento di solitudine per scattare foto. E la vista viene attratta da una
cresta che divide in due la valle, sembra il Resegone di manzoniana
memoria, solo meno ispido. Scatto diverse foto alla barriera di monti, ma
da angolazioni diverse, per coglierne aspetti differenti a seconda delle
sfumature di luce nel sole calante. Mi siedo su una panchina per
esaminare il lavoro compiuto. Dopo qualche istante, un signore distinto,
in maniche di camicia, molto magro, i polsi a x poggiati sul ginocchio
sollevato, e seduto su un’altra panchina, dice trattasi di Rocca
Busambra, parte di una dorsale di 15 km.. Ad ornamento del sito, il
Bosco della Ficuzza, e in tal zona Ferdinando III di Sicilia fece costruire
una palazzina di caccia. Un signore tarchiato al suo fianco, dai modi più
rozzi, ma semplice persona del posto e di certo più gradevole, con voce
soffocata aggiunge particolari al racconto dell’altro, e talvolta rettifica, in
un dialetto arcaico, incomprensibile. Dopo breve dibattito tra i due, forse
in merito a date e nomi, mi si dice che, occupata Napoli nell’anno 1798
dalle truppe dell’Ei fu Napoleone, Ferdinando ripara a Palermo al seguito
dell’ammiraglio Nelson. Il buon Ferdinando, in grazia dell’azione
congiunta del Cardinale Ruffo e della Marina inglese, mandati via a calci
nel sedere i cugini d’Oltralpe, riprende poi la città partenopea. Ma le
ostilità con l’Ei fu non terminano e nel 1806, esautorato, fa ritorno a
Palermo. In ultimo, nel capoluogo siciliano, dovendo dividere il potere col
presidio britannico, è costretto a trasferirsi nella Real Casina di Caccia di
Ficuzza.
Terminata l’esposizione di carattere storico, i due riprendono la
consultazione; il signore tarchiato col mento quasi sul padiglione
auricolare dell’altro. Poi il signore distinto rimette i polsi a x sul ginocchio;
punta in ultimo l’indice su un luogo ben preciso della vallata, indice
accusatorio, che preme a più riprese come qualcosa di invisibile a
mezz’aria. Finalmente con sguardo duro e sofferente racconta che
laggiù, da qualche parte, in zona impervia raggiungibile da trazzere
invisibili che solo alcuni locali riconoscono, in una gola profonda, una
specie di foiba, sono state rinvenute negli anni diverse vittime della
lupara bianca; un ossario di pentiti, di chi ha parlato troppo, di picciotti
epurati nella perversa ronda dei regolamenti di conti. Non nascondo che,
per quanto esecrabile, ad un continentale la squallida narrativa della
mafia, vergata da decenni di produzioni cinematografiche, televisive,
letterarie, suscita non poche curiosità. Vorrei quindi chiedere altro in
merito. Ma non vado oltre: mai fare troppe domande ai siciliani su questo
male oscuro; non ne vogliono parlare o, se ne parlano, sono molto
vaghi, non per omertà ma, da quel che ho potuto intuire, per malcelata
vergogna.
Non sapendo cosa aggiungere o chiedere in coda a quanto mi è stato
detto, essendo un tantino imbarazzato, accolgo con sollievo il saluto
rivolto a me da lontano del parrino. Mi alzo, saluto i due signori della
panchina e vado verso il parrino. Questa sua proprietà, in cui sovente
organizza cene e ritiri spirituali, è anche una specie di azienda agricola
ad uso e consumo dei parrocchiani, occupati nelle soste di qualche
giorno in lavori vari negli orti e a prendersi cura di una piccola comunità
di asini; c’è pure un teatrino all’aperto con spalti a secco. Il parrino mi
accoglie con un largo abbraccio. Dopotutto proprio lui ha celebrato le
nostre nozze poco meno di un anno addietro. Dice a me e a mia moglie
di seguirlo nella casa. È molto contento e fiero di mostrarcela. La casa
ha un solo piano ma è molto ampia ed è affiancata da un grande
terrazzo. Mi incuriosisce una stanza piuttosto piccola ma adibita a
dormitorio, con diversi letti a castello assiepati lungo le pareti;
praticamente c’è spazio per il solo passaggio di non più di due persone.
Scendiamo a piano terra, dove è tutto pronto per la messa, che viene
celebrata sotto una tettoia addossata all’edificio e terminata da poco,
con le strutture portanti in legno massiccio. Gli elementi del rituale
adattati per l’occasione: così un lungo tavolaccio diventa l’altare,
rigorosamente ricoperto da una candida tovaglia ricamata e con tanto di
pizzo liturgico ai margini; le immancabili poltrone-sedie bianche e
panche al posto dei banchi. C’è un’atmosfera raccolta, di inizio messa,
piacevole. L’uditorio è formato da una trentina di fedeli, quasi tutti adulti,
pochi bambini e giovani; le donne a cercare un briciolo di refrigerio
coll’ininterrotto movimento meccanico di polsi e ventagli variopinti. Dietro
l’altare compaiono il parrino, proprietario della casa, più altri due parrini.
Baciano l’altare, quasi in contemporanea. Poi il parrino capo solleva le
braccia, i fedeli si alzano, inizia la messa. Si alternano formule, ripetute
in coro, preghiere e canti. Giunto il momento della lettura di un passo del
Vangelo, viene chiamata in causa mia moglie, che si posiziona dietro il
leggio. Legge non so quale passo in cui si sottolinea più volte di
accettare la Volontà del Signore. Noto che si emoziona un po’ e tende a
rallentare alla lettura di una determinata frase; poi riprendere
concentrazione e ritmo e giunge quasi tutto d’un fiato all’ultima parola del
testo. Nell’omelia, che precede l’Eucaristia, il parrino invita a conservare
per tutta la durata della vita l’atteggiamento contemplativo e lo stupore
nei confronti dei doni del Creatore, peculiari dell’età infantile. Credo che
Pascoli avrebbe apprezzato. Ripete questo invito diverse volte, anche a
termine della funzione. Ed io, da buon devoto, fanciullescamente,
continuo nella mia ricerca-scoperta del posto. Comincio a percorrere un
sentierino che si perde presto nei cespugli, punteggiati da piante di gelso
e alloro. Il sentierino si inerpica su un’erta; invito mia moglie a seguirmi
ma lei preferisce rimanere a più bassi livelli del terreno. La raggiungo e,
oltrepassata la statuina di una Madonna quasi nascosta nella macchia,
prendiamo a seguire un altro sentiero, che costeggia il teatrino all’aperto.
Vediamo il parrino nei pressi di una recinzione, a una ventina di passi da
noi; decidiamo di raggiungerlo, e nel fare quel breve tratto siamo scortati
da un cane mansueto, con la lingua penzoloni, come affaticato anche lui
per via del caldo. Dal recinto il parrino con versi e fischi richiama
l’attenzione di alcuni asini che, impauriti, si nascondono dietro un
gruppetto di alberi. Uno dei tre prende coraggio e, camminando
lentamente e fermandosi ogni tanto, viene da noi. Assiste alla scena
anche il cane, che si è accucciato ai mei piedi. Ambrogio, così si chiama
l’asino, con gli occhi socchiusi si lascia accarezzare sul capo e lungo la
bassa criniera, mentre cerca in tutti i modi di scostare un nugolo di
mosche fastidiose con rapidi scatti delle orecchie e della coda.
Una voce femminile da basso ci informa che la cena è pronta. Salutiamo
Ambrogio, che rimane col muso appoggiato sul bordo della recinzione, e
raggiungiamo il cortile antistante la casa. È già buio. Nell’arco di pochi
minuti l’altare è ridiventato un tavolaccio ad uso conviviale e la tovaglia
con pizzo liturgico sostituita da più piccole tovaglie cerate e variopinte. In
un angolo del cortile si consuma l’atto liturgico del barbecue: i celebranti
riforniscono regolarmente di rametti il cratere di brace che s’è venuto
formando, mentre la sinfonia di scoppiettii e sfrigolii è seguita da eruzioni
di fumo nero e denso; dintorno si diffonde odore di arrosto. Siamo tutti
radunati intorno alla tavolata. Tutti cordiali, sorridenti, sommersi in un
piacevole chiacchiericcio. Come in obbligo ad un comando telepatico,
occupiamo i posti, più nessuno in piedi in una manciata di secondi. E
cominciano a volteggiare pietanze sui nostri capi; in ordine sparso:
caponata di melanzane, parmigiana di melanzane, salsiccia, sfincione,
olive in abbondanza, il gelo di melone (dolce di Ferragosto), e per finire
torta con crema e caffè; il tutto accompagnato da birre, bibite gassate e
alcuni vini siciliani. Prima dell’inizio della cena, preghiera collettiva e
ringraziamento. Per un buon quarto d’ora si mangia in silenzio. Poi il
parrino capo prende in mano il microfono e racconta una barzelletta; per
non essere da meno, l’altro parrino raccoglie il testimone e con voce
amplificata ne racconta un’altra; e un’altra ancora, finale, la meno
divertente, viene detta da un parrino piuttosto anziano… così scopro che
esiste una qualche attinenza tra umorismo pretesco e umorismo inglese.
Ridiamo tutti alle loro battute e c’è anche un timido applauso.
Tra un boccone e una chiacchierata, la cena volge al termine. Andiamo
via un po’ prima in quanto Palermo non è proprio dietro l’angolo. Tutti
salutano con affetto, con pacche sulle spalle, baci e abbracci, i novelli
sposi. Raggiungiamo il prato in cui riposa la Fiat Punto, prato
completamente al buio. Non è proprio agevole raggiungere la strada ma
con un po’ di manovre riesco in poco tempo. Poi giù verso il capoluogo.
E devo stare molto attento in quanto si tratta di tracciare un percorso
nella notte per nulla lineare. Infine si raggiunge uno stradone che porta
dritto fin dentro l’autostrada. Si intravedono, lontane, le luci di Palermo.
In quella zona so orientarmi abbastanza bene, così posso abbandonarmi
alle impressioni e alle considerazioni della serata. Il silenzio di mia
moglie che sonnecchia al mio fianco mi è, in questo, d’aiuto. Quindi
rivedo la vallata al tramonto, quella che si presenta al visitatore dalla
dimora montana del parrino nostro amico, che accoglie Rocca
Busambra, il Bosco e la Real Casina di Caccia di Ficuzza… poi si
insinua, orribilmente immaginata e ineluttabile, come memento
nell’affresco della Terra del Sole, fatto di immenso azzurro, fragranze di
limoni e arance, nespole e mandorle, e poi la sciara dell’Etna e di
Stromboli, Orlando e Rinaldo, Templi, Greci e Normanni, e stupor mundi,
la Santuzza e Sant’ Agata… dicevo s’insinua la terribile macchia, la
fossa comune, l’inferno, il male ineliminabile nell’animo umano; e rifletto
sul fatto che su questa magnifica isola è tutto così estremo, non c’è
spazio per le mezze misure. Dopo tutto, come diceva Goethe, “la Sicilia
è la chiave di tutto”.

 

 

 

La guerra delle rane e delle trote

Ecco quanto nelle righe che seguono riesco a ricordare di una gitarella
nella contrada Fonti, tra i comuni campani di Padula e Sala Consilina,
intrapresa col proposito di vedere con i nostri occhi quel che di mirabile
in tal punto si trova, il Battistero di San Giovanni in Fonti.
Nell’anno domini 2018, precisamente sul limitare del mese di agosto, noi
due novelli sposini, appena arrivati al battistero, ammiriamo e
commentiamo l’amenità del luogo. E nel gironzolare a casaccio prima di
entrare nel massiccio complesso in laterizi, gli elementi più in vista
vengono immancabilmente immortalati con i nostri dispositivi, così pure i
nascosti: cipressini sentinelle schierati alla rinfusa sul versante del colle;
più distanti filari di viti; quella particolare pianta che si abbarbica con le
radici tra le pietre di un muro, come sul punto di fuggire dal cortile di una
prigione; un gatto grigio con striature nere che ci insegue e sembra
quasi che con espressione allarmata e miagolii insistenti voglia metterci
in salvo da qualche sortilegio!
Oltrepassiamo la staccionata in legno, poi una piccola radura, superiamo
un arco in mattoni e un portico, infine raggiungiamo un ponticello che
conduce quasi nel centro, sotto la volta del battistero a struttura
quadrangolare e sopra le acque freschissime provenienti da una
sorgente, dove sciare indaffarate di girini si spostano e si scontrano in
tutte le direzioni.
Nella didascalia del tabellone si dice a noi visitatori che questo era un
edificio pagano, divenuto cristiano nel IV secolo con il nome di Battistero
di San Giovanni di Marcellianum, in onore di papa Marcello; furono poi i
benedettini a dare il nome attuale al luogo di culto.
In basso, nel tabellone, è presente in scrittura minuscola uno stralcio
dalle Varie di Cassiodoro: giammai catturare i pesci dalla fonte, si dice
nello stralcio, se non si vuole incorrere nella vendetta divina! E più in
basso, sempre nel suddetto documento, si narra che si svolgeva in
zona, nel sobborgo di Marcelliano, la fiera annuale di San Cipriano.
La cerimonia battesimale, durante la notte di Pasqua, è testimonianza
dell’elemento altamente ieratico caratterizzante le funzioni all’epoca: il
sacerdote sull’altare pronunciava la preghiera e l’acqua, obbediente ad
un precetto umano e divino nel contempo, saliva e riempiva la vasca.
Una folla di pellegrini proveniva da quasi tutto il meridione ogni anno per
assistere a tal prodigio.
Trascorso alquanto tempo nella lettura delle didascalie, raggiungiamo un
giardinetto dall’altra parte della staccionata e ci sediamo su una
panchina riparata dal sole da una fila di alberelli. Appoggio poi la testa
sulla spalla di mia moglie, allungo le gambe e chiudo gli occhi; in questa
comoda posizione, col favore del silenzio e di un venticello carezzevole,
il sonno non tarda a venire.
Mi sveglio nel cuore della notte proprio nel luogo in cui mi sono
addormentato. Avvolto nella cappa per ripararmi dal freddo, mi volto d’un
tratto, attratto da uno strano bagliore. Trattasi di una debole luce, come
di esplosione continua che palpita tutto intorno al battistero. Allora mi
alzo, prendo da terra bordone e bisaccia, mi porto nei dintorni del
complesso. Sento urla e colpi, e fiammelle fuoriescono dalle fessurine.
Ma cosa succede in questo posto? mi dico. Non posso non buttarci
l’occhio.
Impenitenti piedi, incuranti del mio povero e pavido cuore, che mi bussa
violento nel petto in cerca di una via d’uscita, si inerpicano sulla breccia
nel muro del battistero.
Raggiungo il varco e osservo uno scenario a dir poco singolare: lungo la
vasca sono state scavate delle trincee, più in fondo si elevano catapulte
e torri di avvistamento; più in fondo ancora, a protezione dell’area,
cavalli di frisia e reticolati di fili spinati. Vedo rane dagli occhi mandorlati
che fanno doppi e tripli salti mortali e raggiungono le postazioni nemiche
e scoccano frecce da infallibili balestre; e vedo trote a decine che,
infilzate, si dimenano, boccheggiano; altre, serrate in schieramento
“inquadrato”, si fanno sotto le palizzate nemiche, lanciano dalle fauci
granate che raggiungono le catapulte e le torri, talvolta prendono al petto
gli anfibi, che si esibiscono in un estremo, funesto salto all’indietro.
-Quanta miseria! Quanto dolore! Quanto pianto!- dice una voce.
Una rana gigante in panciotto e papillon e con baffetti imperiali,
appollaiata su uno scoglio affiorante dalle acque, estrae dal taschino un
orologio argentato a cipolla, fa scattare il coperchio, avvicina all’occhio
sgranato il quadrante.
-Mmhhh, troppo tardi…- dice dopo aver sbuffato fumo da narici e labbra,
serrate su un lungo bocchino. -Sicuramente lei non hai mai visto una
roba del genere: vertebrati d’acqua dolce che si scannano tra loro!
-Perchè tutto quest…?
Prima di terminare la domanda, odo un’esplosione, mi volto e vedo una
torre di legno prendere fuoco, poi cade su un gruppetto di case rurali di
paglia, e gruppi di rane saltano impaurite e urlanti di qua e di là.
-Si contendono la vasca del battistero: offre refrigerio in estate, l’acqua
non eccessivamente fredda in inverno; per non parlare delle scorte di
cibo, che qui si trovano in abbondanza- spiega in un timbro soporifero, e
intervalla le parole con sommerso gracidio e sbuffi di fumo.
-Ma la vasca è grande! Potrebbero vivere qui tutte insieme!
A queste mie parole, la grande rana, per via di un’improvvisa emozione,
gonfia i sacchi vocali a dismisura e io mi faccio da parte temendo che
possa esplodere. Ma poi si rilassa, si sgonfia, i sacchi ridiventati
innocue palline.
-Sono state in pace tante volte. Ma poi rinascono i rancori, sciocchine
che sono!- dice piagnucolando.
Osservo la vasca con espressione di rammarico, poi noto un ribollir delle
acque vermiglie avvicinarsi a noi.
-Cos’è quell’onda che vien su?- chiedo e mi nascondo con spavento in
un anfratto.
-Un esercito- gracida la rana.
Osservo meglio e vedo questa fiumana di girini e piccole trote che
guizzano e saltano allegri.
-Un esercito? Già così piccoli impegnati nelle ostilità?
-Vedi, si addestrano tutti i giorni per taaaante ore di fila- risponde e si
gonfia inorgoglita nel vedersi circondata dai suoi innumerevoli festanti
allievi.
-Piano, piano!- fa la rana ridendo, poi prende tra le dita l’orologio a
cipolla e osserva il quadrante. -Leggermente in ritardo oggi, birichine!
Bene, ora andate nei vostri posti ché inizia l’appello…
Mentre si succedono nomi e cognomi, seguiti da guizzi e salti, avverto
una leggera carezza lungo la spalla.
-Andiamo, tua madre ci aspetta per il pranzo- dice la voce di mia moglie.
Abbagliato dalla luce meridiana, non riconosco in un primo momento il
luogo in cui ci troviamo; poi pian pianino mi tornano alla mente la visita
al battistero e i particolari del sogno.
-Ti racconto una cosa…- dico a mia moglie e ripenso al campo di
battaglia con le sue piccole catapulte, le trincee le torri le palizzate, e
ripenso alla rana maestra e ai suoi allievi.
-Cosa?- mi chiede.
-In un’altra vita ero un pellegrino e ho assistito alla guerra delle rane e
delle trote.

 

 

 

La villa dei mostri

Dalla Palermo-Messina si prende l’uscita per Bagheria, un tempo zona
di villeggiatura per la nobiltà palermitana, ora intricato groviglio urbano in
cui è difficile stabilire una distinzione netta tra le varie aree: si è costretti,
percorrendola in auto, ad entrare e uscire nel e dal centro; così in breve
ti ritrovi in una delle vie principali su cui si affacciano negozi e uffici e
l’attimo dopo, presa una traversa o sbucato da una rotondina, sei in
questa stradella che serpeggia lungo un muretto a secco da cui pendono
a mo’ di grappoli le pale sbilenche dei fichi d’India. E poi di tratto in tratto
si affaccia, sull’erta cespugliosa odorosa di gelsomino e balaustra
sull’infinito Tirreno, qualche villetta in stile barocco, ricovero estivo di
titolati o della ricca borghesia. Villa Casaurro o Villa Cirincione, sono
tante, un tempo come in competizione tra loro impreziosivano la costa,
ma ora in abbandono, scalzate da nuovi e più volgari e variopinti idoli
della villeggiatura, squadrati caseggiati con paratie da sole, sprezzanti
confini e riparo da occhi e chiacchiere indiscreti.
La nostra meta è una piazzetta circolare con fontana nel centro, a
ridosso della quale vi è un piccolo parcheggio.
Io e mia moglie troviamo facilmente posto. Scendiamo e richiama subito
l’attenzione, in quanto elemento estraneo nell’arredo urbano, questo
cancello aperto delimitato da due alte colonne, a fianco delle quali,
sinistre sentinelle nane che preannunciano le cose mirabili di là da
quello, due bizzarri pellegrini guerrieri dell’oriente dall’aria beffarda,
pietrificata ed eterna sulle cavalcature motorizzate dei millennial.
Oltre il cancello, si percorre il viale con doppia fila di bassa vegetazione
mediterranea (agave, cycas, gardenia, zucchina centenaria), poi il
trionfale ingresso con palme ai due lati e aquila imperiale sulla sommità
del frontone.
L’invisibile Negromante ti accoglie con i suoi singolari compagni in
calcarenite, simili in figura allo sgraziato principe dai modi finissimi e
gran filantropo. Musicanti e mostri soldato sulla sommità del muro di
cinta come estrema difesa dall’avanzare dei secoli con le sue flotte:
quasi a ridosso del confine, spettri pirateschi crocefissi sui pennoni
dall’alito mortifero di bucato.
-Anche voi invitati al gran ballo?- ci chiede uno sdentato mendicante di
pietra mentre si sventola con un canovaccio per la grande arsura.
-Bedda matri chi cavuru!- riprende una scimmia e nel contempo una
testa equina nitrisce.
-Siamo qui solo per una visita- dico guardando verso l’alto con palpebre
socchiuse per riparo dal disco infuocato.
-Qui si tiene la festa in onore del dio Mercurio- sussurra e sghignazza un
moro dopo essersi prodigato in un inchino.
-Una festa di fantasmi- aggiunge un gobbo parandosi la bocca con il
palmo, poi fa una pernacchia e tutti ridono.
-Fantasie, solo fantasie- dico a mia moglie. È un po’ spaventata, così le
stringo la mano e ci allontaniamo dai mostri parlanti per completare la
visita. Ma intanto che camminiamo quelli parlottano e ridono alle nostre
spalle.
-Ué guagliò! – sento dire. Mi volto e vedo Pulcinella fare segno.
-Statt accort, bell’e buon quelli t’acconciano- sussurra il contadino
abbronzato e fa risate da pazzi e un balletto saltellante.
Un po’ sorpresi per questa strana accoglienza, ma per nulla scoraggiati,
raggiungiamo l’edificio ed entriamo poi in una saletta, in cui sono
raffigurate alcune delle fatiche di Ercole.
Un maggiordomo filiforme e nasuto, in divisa militare azzurra, spalanca
con mazza cerimoniale le ante di una porta e davanti ai nostri occhi
stupefatti si apre un varco nella sala tra due file di comparse dai sorrisi
mostruosi; alcune si inchinano con la fronte fin quasi al ginocchio, alcune
lanciano baci. D’intorno marmi e busti in pose importanti di dignitari e
illustri antenati.
Incalza musica indiavolata di un quartetto, due ragazzi e due
ragazze, The Monkeys : un pezzo punk, God Save the Queen dei Sex
Pistols.
Fantasmagoria moltiplicata nella proiezione strobosferica del soffitto. Noi
col viso all’insù. A guardarci all’insù.
-Orsù, chi è costì!- sentiamo d’un tratto urlare dalla zona riservata lungo
la parete di Mezzogiorno, e musica e musici s’arrestano.
-Noto un che di singolare nel salone delle feste!
Baffuti giocatori, ufficiali sottufficiali nobiletti, brandenti lunghe stecche,
accompagnati da dame ingabbiate in guardinfante e panier e con
maestosi copricapi, si fanno sulla porta dalla saletta del biliardo.
-Mio illustrissimo Signore, qui in villa siamo avvezzi a presenze
singolari!- fa il Negromante dal suo scanno nobiliare, per placare le ire
del dio Mercurio.
-Vuol insinuare che le sue bizzarre figure hanno eluso la sorveglianza?
In tal caso: taglio all’altezza della giugulare, immersione in olio bollente o
patibolo e cappio per fare in breve… Quale pena si usa in questa plaga
di Sicilia?
Io e mia moglie ci guardiamo spaventati; le prendo la mano per correre
oltre una delle porte aperte.
-Inutile cercar la fuga: le mie personali guardie già all’erta sulle porte!
Il padron di casa cerca un rimedio.
-Ma perdoni, perdoni! Non si potrebbero mettere alla prova in modo da
dimostrare la loro innocenza?- dice facendoci l’occhiolino.
-E in qual guisa?- risponde iroso il dio.
-Non potrebber’essi prodigarsi in effetti singolari come per l’innanzi quei
quattro giovinetti musici con musica dal futuro? Pottebber’essi sortire
gran sorpresa nei vostri divini ricevimenti! Nessun ostacolo da parte mia
in quanto a prestito e restituzione.
-Potrebbe darsi. Non nego!
Il Palagonia con volto benevolo si rivolge a noi.
-Mie care creature, vogliate far la grazia di presentarvi al dio Mercurio e
far mostra di qualche vostro mirabile prodigio?
Io e mia moglie diciamo che siamo solo due turisti di passaggio,
desiderosi di scoprire le meraviglie di quest’angolo dell’isola.
-Cos’è quello strumento che sembra una piramide con due punte? – mi
domanda imperioso il dio.
Mi tolgo il cappello e lo rigiro tra le mani.
-Questo, questo… – comincio a dire, guardandomi intorno, e noto che
tutti gli invitati si stanno avvicinando e stanno formando come un piccolo
cerchio intorno a noi.
-È un cappello! – fa mia moglie e lo guarda dritto in faccia. -Un cappello
di paglia!
Il dio ci considera con aria canzonatoria.
-E, e, e quelle strisce corte sfilacciate sopra le ginocchia?…. Ma che
orrore alla vista!
Mormorii e risate.
-Pantaloni- dico.
-Panta?…
-… loni – completa il Palagonia.
-Orbene, quei vetri, quei vetri appesi, appesi sulla tela con i fiori della
signora?
-Questi sono occhiali e questa non è una tela, ma un vestito!- risponde
contrariata mia moglie.
Gli invitati si avvicinano e allungano le braccia: vogliono toccare con
mano gli oggetti di cui siamo portatori. Allora io sfilo dal colletto della
maglietta i miei occhiali da sole e li porgo a quello a me più vicino, un
vecchietto con occhi volpini e orecchie a sventola e folti capelli bianchi.
Li tiene sui palmi con occhi meravigliati che gli brillano. Passa con
cautela al suo vicino. Questi allarga in modo poco avveduto le
stanghette.
-Piano, sono delicati!- rimprovera mia moglie. Allora l’uomo passa al
Palagonia, a suo fianco. Il Negromante esamina le lenti azzurre, che
riflettono per un attimo il riverbero del soffitto.
-Come vede, mio Signore, portano oggetti rari, direi sublimi, come Marco
Polo alla corte di Kublai Khan. E gli ospiti vanno trattati con rispetto.
Nel dire questo il Palagonia mi consegna con fare sussiegoso gli
occhiali da sole.
-Non sono persuaso!- riprende Mercurio. -Dove sono i prodigi di cui si
parlava? Io vedo qui solo inutili oggetti di poco conto… E poi, dite, dite
da dove venite e chi siete…
-Allora, per farla breve, sua Altezza- comincio io col cappello sul petto.
-Per farla breve, le dico che io e consorte veniamo dal XXI secolo,
precisamente dal 2020.
Tutti, a questa mia affermazione, scoppiano in una fragorosa risata. Ma
ci pensa il Palagonia a ridurli al silenzio con un semplice cenno della
mano.
-Volevate un prodigio? Non è forse il più mirabile prodigio la presenza di
due testimoni del futuro?- urla a braccia allargate per convincere
l’importante ospite e le sue parole echeggiano respinte dagli specchi.
-In tal caso mostrate i segni del progresso che inevitabilmente l’umanità
apporta nel volgere dei secoli!- incalza Mercurio.
Io e mia moglie ci scambiamo uno sguardo d’intesa. Le stringo la mano.
A quel punto prendo il cellulare dalla tasca, traccio le due linee che
sbloccano la schermata, vado nelle impostazioni.
-Potete ammirare a breve un raggio che da questo strumento
raggiungerà gli specchi lassù!
Detto questo, punto il dito sull’icona della torcia e subito dopo il cellulare
in direzione del soffitto a specchi. Immediatamente un bagliore si
diffonde e con esso un ohh di generale meraviglia.
-E questo non è nulla!- fa mia moglie.
Prende dalla borsetta il suo cellulare.
-Con questo si possono fare delle foto, dei selfie!
-Cheee?!
È la risposta di tanti.
-Venga qui- invita mia moglie.
Mercurio, un po’ titubante all’inizio, dopo ulteriore invito del padron di
casa si allontana dal posto d’onore e si avvicina a noi.
Si posiziona alle nostre spalle e mia moglie scatta la foto. Subito la
mostra al dio che spalanca occhi e bocca all’inverosimile.
Gli ospiti, incuriositi in modo esponenziale, fanno una gran calca.
Sentiamo i loro corpi che quasi ci travolgono. Presi dal panico, tentiamo
di fuggire. Ma il Negromante con considerevole fatica finalmente impone
l’ordine.
-Va bene, va bene, sono convinto- dice Mercurio con sorriso benevolo.
-Nessuna pena capitale!
Un applauso e diversi Urrah! Alcuni si avvicinano e si complimentano
con noi.
The Monkeys riattaccano con Spirits In The Material World dei Police.
Balli sfrenati di conti con due teste, duchi con equine teste, marchesi con
lucertolate code, ufficiali centauri, semidei dai piedi alati; addito a mia
moglie un Pegaso che volteggia a mezz’aria, un Icaro che galleggia a
pochi centimetri dal pavimento. Poi noto con stupore che il maggiordomo
che ci ha fatto entrare nella sala è stato trasformato in un telamone che
sostiene l’architrave con i palmi sollevati.
Mi avvicino al Palagonia che sorride compiaciuto per la buona riuscita
della festa.
-Mi scusi- chiedo a voce bassa, con certo timore reverenziale.
-Dica, dica pure.
-Ma quel, quel signore, il maggiordomo…
-Ebbene?
-Noto, noto che…
-Che?…
La meraviglia del prodigio mi impedisce di continuare.
-Trasformato in calcarenite di Aspra!- esclama il padron di casa con aria
di trionfo.
-Ma perché?
-Ah, non lo chieda a me! È Mercurio che si diverte in simili giochi.
Avvicina bocca e palmo al mio orecchio.
-Ma credo che sia contrariato con lui- sussurra. -Vi ha fatto entrare… e
non eravate nella lista degli invitati. Sa, è un dio molto puntiglioso…
-Quindi, questo vuol dire che anche noi…
Il Negromante allarga le braccia, a significare che non può conoscere
quali siano le intenzioni del dio. A questo punto, convinto ormai di fare la
fine dei mostri della villa, corro da mia moglie e sovrastando la musica le
dico urlando che dobbiamo andare via.
Mercurio ci vede correre verso la porta aperta e tuona incomprensibili
comandi dal suo scanno.
Prima di oltrepassarle, le ante si accostano, si serrano; noi ci voltiamo e
vediamo la divinità sollevarsi in tutta la sua imponenza e guardare iroso
verso il quartetto. Le ultime note, che precedono il silenzio tombale,
stridono durante la trasmutazione in pietra.
-Ma che rumore infernale!- urla il dio. -E questa sarebbe la musica del
XXI secolo!? Possibile una tale involuzione!? Sarà un mondo all’insegna
della volgarità ordunque?
Proprio in quel momento mi balena una felice possibile soluzione.
-Eccellentissima divinità- cominciò a dire. -Mi permetto un piccolo
appunto: quella proposta dal quartetto, sebbene non comprensibile per
voi uomini del ‘700, posso garantire che è ottima musica. I ragazzi non
meritano questo trattamento!
Mi considera con aria sorniona lisciandosi la barba.
-Date la possibilità ai Monkeys di esibirsi in un ultimo brano- riesco a dire
pur avendo un nodo alla gola, con i pugni serrati, per tema di regalare
due esemplari alla collezione del Negromante .
-Se il brano sarà di suo gradimento o, addirittura, riuscirà a
commuoverla, verrà ricordato come un dio magnanimo, amante delle
arti. Non vuole acquistare meriti presso i posteri? Meglio essere
ricordato come un dio burbero e dispotico?
-Toh, il signore è furbo e vuole prendersi gioco di me! Ma ci sto! Mi
piacciono le sfide! E poi è una festa, la mia festa! È un modo non
previsto e originale per intrattenere gli ospiti!
Frullo d’ali ai piedi, descrizione di figure nell’aria con le dita, luce
rossastra alle sue spalle! e la magia è fatta: The Monkeys in carne ed
ossa che si guardano tra loro, increduli!
Immancabile applauso e qualche fischio, il Palagonia in visibilio…
-Bene, bene, eccovi di nuovo tra noi! Il Negromante ha avuto la brillante
idea di farvi esibire in questa serata in mio onore!- esclama il dio
Mercurio con pungente ironia guardandosi intorno, e gli invitati
sghignazzano sommessamente; si siede sullo scanno, intreccia le dita.
-Ma vi prego, continuate: in ogni festa che si rispetti la musica è
indispensabile.
I Monkeys allibiti si considerano a vicenda. Dopo circa un minuto di
consultazioni, riprendono a suonare ed è la volta di Stairway to Heaven
dei Led Zeppelin.
Una luce iridescente dagli specchi segue le volute sonore del brano. Noi
alziamo il capo e vediamo disegnarsi uno scalone a doppia rampa. In
cima allo scalone due colonne laterali di tufo che sembrano proiettarsi
all’infinito verso la volta azzurra, ma due capitelli dorici ne delimitano
l’altezza, sormontati da metope e triglifi, e poi il frontone. Una concordia
di edifici tutt’intorno prende forma, da un lato e dall’altro, in perfetta
simmetria di proporzioni. Sempre a seguir l’incedere del brano ecco la
saturazione, da edificio a edificio, con tappeti di ninfee in vasche di
pietra, e sentierini affiancati da piante esotiche e medicamentose: l’aloe
vera, la calendula, l’antropomorfa mandragora. Seguendo un percorso in
salita sotto un pergolato di viti si giunge nell’estasi di una terrazza e,
oltre, lo sguardo si perde in un infinito di azzurra fusione di acque ed
etere. A ridosso di una roccia rinfrescante, piastrelle in ceramiche
vietresi riccamente decorate con il giallo dei limoni, blu cristallino e verde
costiero; e a prender ristoro, intorno a bassi e tondi tavolini, dame
sorridenti in abiti leggieri e con ventagli di pizzo riproducenti l’incanto del
luogo. L’assolo di chitarra ti conduce nei regni sovrapposti del marmo,
dell’alabastro, del travertino: strade, piazze, fontane istoriate, cattedrali
adornate con i riflessi delle vetrate e dei mosaici. Appare Venere sulle
note finali, nel punto centrale del soffitto, e disperde i suoi raggi in spirali
concentriche.
Dissoltosi il bagliore, più nessuna traccia della festa, solo noi due e le
nostre espressioni incredule negli specchi; e così finalmente
abbandoniamo con passi celeri e risonanti la villa dei mostri.
-Fantasie, solo fantasie- dico poi a mia moglie mentre corriamo nel viale
verso il cancello, incalzati da risolini e sussurri.