Giuseppina Guarnera - Poesie

A MIO PADRE

 

Quanto tempo

mi separa dalle tue lacrime.

 

Di te

ho adesso

un solo ricordo:

quando ti vidi

per l’ultima volta

con occhi bambini.


A MIA MADRE

 

La tua assenza,

struggente presenza,

macigno invisibile

al centro dell’anima.

 

Ho ritrovato

ogni carezza,

ogni sorriso,

ogni lacrima

di cui

mi hai fatto dono

per farmi felice.  

 

Adesso, sarò io

a cullarti

nel ricordo del cuore.


A ENZO

 

Ricordo

la meraviglia

dei nostri giochi

mentre

nostra madre

ci chiamava.

 

Bello

il tuo sorriso

che attraversa

l’anima

mentre vivi

la tua sfida innocente.


MOMENTI D’AMORE

 

Vorrei

fermare  

quell’attimo senza difese,

quando il mio cuore

batte col cuore del mondo

mentre

ti amo.

 

Vorrei

toccare,

in un attimo eterno,

le pieghe solitarie

del cuore

quando ti guardo.

 

Vorrei

riposare

sapendo

di amarti

per sempre.


INCONTRI

 

Parole

senz’anima,

inutili specchi

ritornano,

come eco

del mondo.

 

Quando vedrai

l’urlo

del mio silenzio

saprai

leggermi il cuore.


FELICITÀ

 

Mute, le mie parole,

come neve

prendono

la forma dell’anima.   


 

NOSTALGIA

 

Dove sono

rimasti

i nostri giochi inventati,

dov’è

rimasta   

la bambina con cui giocavi

quando  

hai smesso di cercarla.


DOLORE

 

Silente nido non trova

l’amore del canto,

si sente soltanto

l’attesa.

 

Vertigine muta

d’ amore,

il silenzioso canto

del cuore.

 

L’amore  

del pianto,  

l’amore del riso,

soltanto.


ASSENZA

 

L’orizzonte dei miei occhi,

irraggiungibile nostalgia         

per queste mani

di nebbia.

 

Non hanno più

voce   

i miei pensieri      

di vetro.

 

Non ha più

colore

l’attesa                    

del giorno.

 

Questo amore,

neve sul mare,

bambino che inquieto si affida  

mentre              

mi prende la mano.


MATRIOSKA

 

Fermarsi…ascoltare il cuore così lontano, così diverso dal muto frastuono che dà il ritmo alle nostre giornate.

Nulla è però più difficile che riuscire a ridisegnare il proprio percorso, a rintracciare la propria memoria, a ritrovare tutti quei momenti che ci hanno , in qualche modo, definito.

Una bambina mi precede sempre, una bambina che ascolta troppo e si lascia fare.

Raggiungerla significherà riannodare le fila, ricomporre il presente, non avere rimpianti.

Rivedo la mia vita come sospesa nella ricerca di una collocazione, di una sintonia con la vita degli altri, e di essa, in parte, mi sfuggono i contorni, i significati; anche le case nelle quali ho trascorso la mia infanzia sono poco definite: rivedo solo i muri di certe stanze, un arredamento essenziale ma pieno di vita in alcune, più ricercato in altre, i giochi che facevo e, ovunque, una grande inquietudine che mia madre ricopriva di serenità.

Mia madre, una solitudine antica le fa cercare conforto in una bambina che non trova le parole. Eppure, di lei mi è rimasto il sorriso.

Andare indietro, in una sorta di matrioska di cui non si trova mai l’ultima bambola che si continuerà a cercare sempre.

I miei ricordi iniziano sulle scale di una villetta in periferia, da cui caddi per seguire mia madre. Avevo tre anni quando pronunciai le mie prime parole di conforto, incurante delle mie ferite. Da allora non ho più smesso. Mia madre comprese subito questa mia propensione e la utilizzò per tutta la vita.

A cosa devo le mie fragilità? Me lo chiedo adesso, mentre rivedo la mia ingenuità e l’altrui dolore, compagni di sempre. Ricordo che volevo quasi non esserci, per non essere, con la mia presenza, un ulteriore motivo di turbamento. I miei giochi erano quelli degli altri, di mio fratello, delle mie amiche.

Mio padre, ogni tanto, mi proponeva di trasgredire: non so se ciò accadesse nella ricerca di una strana alleanza.

Rivedo il mio sguardo triste di cinque anni in alcune foto che mi hanno spinto a ripercorrere il tempo; quello sguardo, quell’espressione sono la mia continuità. Qualcosa manca, qualcosa non c’è stata e la cercherò sempre. Vi sono esperienze non recuperabili, dopo.

Eppure, ero felice! Grande era l’amore da cui mi sentivo avvolta e dal quale non riuscii a sottrarmi fino all’età di ventitrè anni; grandi erano l’abnegazione di mia madre e l’intuito di mio padre, interessanti, per me, la spensieratezza, la leggerezza di mio fratello. Ciò

che ci è appartenuto nell’infanzia ci apparterrà per sempre, in una realtà senza confini e senza regole.

Sono diventata grande quando si è dissolta l’aura di serenità, di festa, di sicurezza, di sospensione quasi, attraverso cui i miei genitori mi avevano, comunque, protetta, anche nei momenti più difficili. Queste fasi si sono presentate diverse volte nella mia vita, dai sette anni in poi, ma ho guardato veramente la vita con la malattia e la morte di mio padre.

L’immagine che noi abbiamo dei nostri genitori dipende dalla loro capacità di proteggerci, così pure la profondità e la complessità del nostro legame con loro. I miei genitori  mi protessero anche quando non ne erano capaci, o meglio, cercarono sempre di farlo; cercarono sempre di “ proteggermi” anche da loro, dalle loro fragilità e debolezze di cui sembrava, quasi, si scusassero. Questo me li ha resi particolarmente cari.

Una mattina di ottobre decisi di allontanarmi da quella che era la mia vita riflessa, o, almeno, ho creduto di farlo.

Un vecchio album di fotografie mi ha riportato, adesso, dove non avrei mai pensato di tornare; a tutti quei momenti di vita che mi sono sfuggiti,  che non ho compreso pienamente. La figura dolente di mio padre predomina nei miei ricordi; dolente di un dolore tanto grande quanto inconsolabile, senza tempo e, da me bambina, confuso con la normalità della vita.

Ma questo era solo un aspetto della sua personalità: vi era anche quello giocoso, fanciullesco che spesso approntava per noi bambini, senza far capire se gli costasse o se, per lui, fosse naturale.  

Mio padre mi portava spesso con sé all’istituto di Medicina Legale:

rivedo le sale, i corridoi immensi dell’Istituto, i colleghi che io avvertivo ostili, mentre sorridevano a me, bambina. Anche mio padre ricordo sorridente in quei momenti che dovevano essere, per lui, non privi di tedio ed amarezza. Adesso rileggo le dediche di alcune foto in cui si vede mio padre sognare un futuro che è già passato, ma non per me; rivivo i suoi stati d’animo, le sue aspettative, le sue speranze, le sue sconfitte: sento che sono un po’ le mie.

Una mattina, forse per non  coincidere con una vita in cui non riusciva ad esprimere tutto di sé, mio padre, anziché a scuola, mi portò al mare. Avevo sei anni, mi resi conto solo in parte che avevamo modificato il percorso: me lo rivelò la mia meraviglia quando, improvvisamente, vidi il mare. Era primavera, il sole regalava una luce nuova a quella distesa che mi apparve immensa, avvolgente; non riuscii quasi a parlare, né ricordo cosa disse mio padre, ricordo solo la felicità di quel giorno; mi sentivo quasi importante per quella trasgressione in cui mio padre mi aveva coinvolto. Ricordo, di lui, questa inquietudine triste, ma positiva, questo andare oltre le difficoltà e le grettezze di ogni giorno, col cuore: era la sua unica ed estrema difesa.

I pomeriggi, la domenica, erano animati dalla radio di mio padre: era lui che non la spegneva mai camuffando la sua tristezza con l’allegria costruita di quei suoni. Così gli anni ’50 furono, anche per me, rappresentati dalla radio, fino al ’56, anno in cui nella nostra casa giunse, regalo inatteso e contrastante, la televisione; ma la radio di mio padre non si spense mai, fino alla sua morte; si aggiunse, semmai, un nuovo suono, in opposizione al non detto, al reale “ silenzio” che copriva ogni cosa.     

Chissà perché ho trascorso la vita cercando di percepire l’animo degli altri; allora, dei miei genitori e di chi li circondava. Rivedo la sincerità dei loro gesti, delle loro parole, rivivo i loro ingenui tentativi di difesa, che io, bambina, percepivo come inutili. Allora  volevo diventare forte per loro, ed i miei occhi diventavano sempre più grandi per “vedere meglio” e poterci essere. Sentivo come miei i loro errori, le loro debolezze, le loro fragilità di cui ero consapevole, ma da cui, allora, non sapevo difendermi; loro, loro si, cercavano, come potevano, di difenderci dalle loro insicurezze. L’amore, però, è anche maldestro ed, a volte, può essere distruttivo. E’ anche questo senso di sconfitta che mi porto dentro, ciò che rivedo ripercorrendo la mia infanzia. Vorrei riuscire a ricostruire i mille episodi che vedono me bambina, osservatrice esterna, ma intimamente coinvolta.

Le case che ho abitato, tranne nei momenti più difficili in cui eravamo ospiti, sono state sempre molto grandi, sempre con del verde attorno. Io mi ci perdevo dentro, ma mi sentivo sicura, avvolta in una dimensione che sfuggiva al mio controllo.

Probabilmente i miei genitori non hanno mai dismesso l’abitudine della precarietà che è propria dei periodi bellici, né quel bisogno di affidarsi, di credere negli altri sentendosi accomunati nell’uguale destino che è tipico dei momenti di grande e costante pericolo; così, infatti, hanno trascorso tutta la loro vita, senza riuscire a partecipare al boom economico, senza riuscire a trasformarsi negli italiani rampanti che il nuovo periodo esigeva.

La tragedia del fascismo e della guerra li aveva toccati e definiti profondamente, e la loro umanità, priva di corazza, non è riuscita a prescindere più da quelle esperienze estreme. Così hanno trascorso una vita in emergenza, in balia degli altri che invece sì, si erano corazzati, ricostruendo se stessi, anche senza tener più conto delle esperienze vissute. Noi figli, con loro, abbiamo percorso la loro fatica di vivere in una realtà che in fondo non accettavano, che si rifiutavano quasi di comprendere.

Forse, questo particolare e doloroso percorso della mia formazione ha fatto di me, apparentemente, un’osservatrice un po’ distaccata, quasi aristocratica, di ciò che si agita attorno, pur mentre ne sono profondamente partecipe.

 

La donna esce da casa, si allontana, mentre la bambina assiste impotente a qualcosa di “inatteso” accettando la conclusione del dolore, di un dolore a lei noto, che le scavava l’anima.

Forse bisognerebbe sempre piangere le proprie lacrime perché riaffioreranno dopo, quando non riusciremo a spiegarle. Bisognerebbe di più comprendere il significato del pianto per venir fuori dalla casa degli specchi con cui spesso coincide la nostra esistenza. Invece del pianto si ha quasi vergogna, né si ha tempo per il pianto. Le lacrime nostre e degli altri ci sorprendono sempre, ci trovano sempre impreparati ad accoglierle e, forse, incapaci.  

Adesso non ricordo tutte le mie lacrime infantili, ma solo la mia tristezza felice che, oggi, mi commuove. Dovremmo coincidere di più con i nostri sentimenti, senza difenderci, come i bambini, per comprendere il senso di ogni cosa. Coincidere con   i sentimenti ci consente di esprimere con leggerezza l’essenza del nostro esistere, all’infinito.

Ho imparato per tempo a sopportare e “spiegarmi” dolori troppo più grandi, a sostenere fatiche troppo pesanti; adesso l’abitudine a sopportare e comprendere fa parte di me, è la mia quintessenza e ciò spinge gli altri a non pensare che io possa avere le loro stesse esigenze.  

 

L’uomo rincorre la donna, la raggiunge impedendole di ribellarsi e porre fine alla sua angoscia. Il giorno dopo tutto ritorna come prima, non si parla di ciò che è accaduto, si torna a rincorrere la quotidianità nascondendosi nella quotidianità dei gesti.

Quanto tutto questo abbia inciso in ciascuno ed in che modo, è difficile da stabilire; sicuramente, da allora, tutto è stato meno chiaro e definito per tutti.

La mia vita è stata in parte un’attesa, un’attesa di mio padre, pur se presente, un’attesa “di tempi migliori”.  “Quando saremo più tranquilli” era questo il refrain con il quale si tacitava noi bambini finché, da grandi, abbiamo iniziato a sfatarlo.

In estate andavamo in campagna dove abbiamo trascorso il periodo più particolare, quasi magico perché troppo diverso dai contesti usuali della nostra vita, in una casa rustica che per anni ho sognato e dalla quale settimanalmente guardavo giù, lungo il sentiero per scorgervi, in lontananza, un puntino avanzare, finché diventava una sagoma a me cara; era quasi un rito, io attendevo questo momento e, soprattutto, quello della trasformazione; era quasi una magia annunciata nel mio cuore bambino, come pure era un rito l’attesa della conclusione del percorso, dal rivelarsi al giungere.

Oggi mi chiedo come mia madre attendesse questi ritorni, con quale stato d’animo, con quale amore. Anche questo era sospeso nell’aria e mi ha trasmesso una grande inquietudine frenando la fisicità dei gesti.

Le nostre vacanze estive si prolungavano in montagna, nella casa dei nonni materni, la sola che ci ha trasmesso il senso della continuità delle cose semplici. Mia nonna era una vecchietta silenziosa, di lei ricordo la figura, la muta presenza che ti scrutava dentro senza invaderti, finché si ammalò. Mio nonno era un nonno” fanciullo “,

sempre allegro, sorridente con quella sua sedia ad inseguire il sole sulla strada. Una figura esile ma forte, positiva, che raccontava con il sorriso, con lo sguardo, una vita; un’anima contadina capace di affrontare serenamente ogni avversità, in perfetta simbiosi con la natura di cui egli faceva parte.

Così  è morto, dopo aver chiesto una minestra alle quattro del mattino: non un lamento, ma solo un “grazie” ed un saluto, regalandoci il sentimento della vita.

Non ho conosciuto mio nonno paterno se non attraverso una fotografia dei primi del ‘900 che lo ritrae con mia nonna, allora quindicenne, ed i ricordi di mio padre, bambino solo, che non è stato

aiutato a crescere e che conservava di lui un’immagine pura, dolce, struggente.

Mio nonno paterno era un agrario, un possidente illuminato e paterno con i propri braccianti e servitori, tutore della propria moglie- bambina che tale rimase per tutta la vita, anche da vedova.

A volte andavamo a trovarla nel suo palazzetto patrizio al centro del paese, testimonianza ormai fatiscente dell’antico potere, del casato, del nome.

Ricordo il disordine, la trascuratezza che regnava ovunque in quella casa troppo grande per una donna sola, sempre gestita, e senza più domestici. Io mi ci perdevo quasi dentro e fantasticavo nelle sue cantine dove rivivevano, attraverso i racconti di mia nonna, fantasmi dei secoli passati, ancora presenti, e che io amavo andare a sfidare; in particolare un antico cavaliere del ‘600 sembrava non avesse accettato di buon grado di dover lasciare quelle mura.

Tornavamo per tempo, al rientro dalle vacanze, per riprendere le precedenti abitudini; tornavano i riti che mia madre allestiva, tutta compresa della improrogabilità di ogni scadenza che riguardasse l’organizzazione delle nostre vite. “Sembri un ragioniere perfetto e completo”, era solito dirle mio padre. Questa frase, pur nella sua apparente ironia, veniva da me percepita, in parte, come un rifiuto, anche se preferivo attribuirle il primo significato per non scoprire il limite di quel rapporto.

Eppure, le nostre giornate erano piene di impegni “per gli altri”, le nostre vite comprendevano la presenza, anche fisica, dei bisogni degli altri. Una signora, in particolare, ha costituito quasi un riferimento, per noi tutti.

“Sono Ulla”, dall’altro capo del telefono una voce mi riporta indietro, bambina in un tempo immobile che solo certe case di periferia con il cortiletto fiorito, l’orto-giardino degli anni ’50, il cancello, la costruzione bassa, sanno fare rivivere.

Mi chiese d’incontrarla, mi disse che suo figlio ci aveva rintracciati, tramite Internet, sul sito della Regione Siciliana, di cui mio fratello era in quegli anni deputato. Venne così a casa mia: fu accolta festosamente da tutti come se tutti l’avessero conosciuta quando ero bambina. Non fu così per la famiglia di mio fratello. Solo lui la incontrò; stessa sorte fu riservata a Nello, il figlio, docente di chimica presso l’università di Monaco, quando ci invitò a pranzo.  Non c’era una famiglia disposta a condividere il suo passato, i suoi ricordi, le sue emozioni, bensì a separarlo da essi, quasi dovesse vergognarsene, in una sorta di strano pudore . Ulla, grande osservatrice, donna di forte tempra e molteplice esperienza, sottolineò quest’assenza con un sorriso misto di profonda amarezza e comprensione, il sorriso di cui sono dispensatrici le madri in presenza di grandi delusioni.

La sua vita s’incontrò casualmente con quella di mia madre che non perdeva occasione d’immedesimarsi negli altrui dolori, incurante dei propri. Ulla era originaria di Patrasso; la seconda guerra mondiale le aveva disperso la famiglia e lei si salvò divenendo, non si disse mai a noi bambini attraverso quali traversie, l’amante di un soldato italiano, disperso in guerra. Il figlio, frutto di questo amore, divenne l’unico scopo della sua vita, delle sue scelte, del suo nuovo “arrangiarsi” facendola diventare “amica” di un anziano possidente, nostro vicino di casa e  padre adottivo del bambino.

 

Gradualmente si stabilì una corrente di simpatia, di profondo affetto che spinse Ulla a divenire sempre più “di casa” da noi, e le consentì  di abbandonare la precedente “sistemazione” per una famiglia che non le chiese nulla in cambio , dandole affetto, protezione, appoggio.

Oggi Ulla vive in Germania, ha l’età che avrebbe mia madre se fosse in vita, ma ha conservato tutta la sua intensità, profondità di sguardi e di parole, vivacità che le hanno consentito di adattarsi attraversando, senza condizioni, ogni momento della vita e di comprendere così ciò che è giusto.

E’ stato un regalo, di cui le sarò sempre grata, il volermi incontrare donandomi  un po’ della mia infanzia, dei miei genitori, del loro vivere, comunque, con meraviglia.

Oggi ho sempre più bisogno della consapevolezza delle mie origini, di ciò che sono diventata e perché, consapevolezza che non avevo più cercato; la vita mi ha portato a scegliere, a decidere, ad uscirne, apparentemente, fuori, pur mentre ero consapevole di quanto esse fossero importanti. Forse devo a questo senso d’incompiutezza, d’interruzione, quasi, l’essere improvvisamente travolta da un pianto inarrestabile. E’ come se avessi la sensazione di aver fatto, in parte, dare agli altri i contenuti della mia vita concedendo poco a me.  

La donna lo chiamò con voce stridula ed arrogante, l’uomo sembrava non sentisse , la bambina comprese, senza darlo a vedere, che egli fingeva a causa della sua presenza: si sentiva quasi colpevole o comunque fuori posto,- voleva essere altrove, non esserci, per non creare imbarazzo; l’uomo la lasciò sola ad aspettarlo…; ancora la voce aggressiva della donna la colpì e lei sprofondò nei suoi sogni, nel suo mondo distante da una realtà sempre e comunque sgradevole . Cosa volesse quella donna lei lo sapeva: glielo aveva detto sua madre mentre lei continuava il suo girotondo senza riuscire a fermarsi.

Chissà perché, a volte, non vogliamo riconoscere l’evidenza, non trovando più la via per uscire dal cerchio. La bambina taceva, per  lei parlava la vita degli altri che ella reinterpretava in mille modi, dandole sempre un significato, una motivazione, una scusa.

Ogni giorno si alzava dal banco su cui era seduta, attraversava il corridoio tra i compagni muti, attenti, sbigottiti, andava fuori sulla veranda fiorita. Il gelsomino sulla ringhiera sembrava l’aspettasse: era il suo momento, la  fiaba di ogni giorno a cui non poteva rinunciare vivendo tenacemente i propri sogni.

La solitudine, compagna di sempre, la segue. Anche adesso. Come allora, nulla è cambiato. Sembra di poter ritrovare la vita passata, non è possibile averla perduta: sente le voci, i colori, gli ambienti, quel senso di provvisorietà che il padre le ha regalato per tutta la vita. Ha imparato molto presto ad ascoltare gli altri, quasi un istinto come il camminare, il nutrirsi, il dormire. Ha capito, così, che ciascuno conduce un po’ inconsapevolmente la propria vita e che essa non è veramente compiuta senza il perdono.

Visitare il giardino del dolore non è dote diffusa. Il dolore dilata il tempo. I confini della coscienza, dei ricordi appaiono sempre più sfumati, inafferrabili e rimane solo la perdita di sé.

La memoria della propria coscienza, di ciò che è stato per noi, ci caratterizza rendendoci unici. La via Pietro Novelli viene da me particolarmente associata a sensazioni di piacere e di dolore insieme, di spensieratezza e consapevolezza di accadimenti più grandi di me, che, in quanto riguardavano i miei genitori e la loro relazione, venivano da me accolti, non giudicati, subiti.

Così la felicità di dormire con nostra madre è stata sacrificata dalla frequente assenza di mio padre, – e quello che per un bambino è tra i più grandi desideri per me era anche motivo di turbamento, di ansia, di parzialità del sentimento. Conservo in me la mia storia, solo in me, pochi gli oggetti attraverso cui è possibile ricostruirla, rintracciarne la memoria.

 

La casa era priva di movimento, con del cellophane trasparente alle pareti, fino a metà, che trasmetteva una sensazione di vita fermata per sempre, mai compiuta. Eppure era la sua vita quella, o lo era stata. I suoi genitori erano lì, muti, ma vivi come sempre, insieme a lei che si chiedeva perché.  

La casa è il luogo del ricordo, senza di essa ci si sente esuli, defraudati, sospesi, ma proprio per questo, forse, più capaci di andare oltre, di cambiare, non senza sofferenza, ricchi dell’essenziale.

Vi sono luoghi che, come i ricordi, il tempo, dispensatore di futuro, modifica o logora. Così non ritrovo più molte tracce del mio passato, per quanto le cerchi: non ho ritrovato, fra le altre, la casa in cui mio fratello, bambino, si recava per accudire una vecchietta. Che ne è stato di lui, di quella sensibilità che mia madre ha sempre coltivato? E’ sicuramente cresciuta con lui, ma senza che io ne abbia potuto vivere l’evoluzione apprendendola solo attraverso le sue esternazioni pubbliche.  

 

Aveva 4 o forse 5 anni quando le si mostrò una bambola, formato naturale, chiedendole di raggiungerla: l’avrebbe ottenuta in premio.

Non voleva più camminare e fu quello lo stratagemma utilizzato per attivare la sua volontà. La bambola non le venne regalata, ma la bambina non ha smesso di credere nei sogni, nelle parole, nelle promesse, nella sincerità degli altri anche mentre nutre dei dubbi.

Le domande che ci portiamo dentro sono le ispiratrici del nostro percorso: siamo tutti un po’ incerti nel nostro vivere.

Vi sono situazioni, adesso, in cui ho smesso quasi di credere, di cercare risposte e ciò è fonte di un dolore indicibile. Mi sento spezzata, senza una direzione, un centro che unifichi le mie sensazioni, le mie scelte, e le motivi.

Perdere la fede, è questo l’evento più disgregante della nostra individualità. Per vivere bisogna credere.

Ho un macigno dentro, sempre presente, che opprime il mio cuore. E’ così facile perdersi, e ciò accade quasi a nostra insaputa.

Vi è un evento che scoperchia il nostro vaso di Pandora nel quale solo l’amore può entrare ridandoci la speranza.

Lei entrò, silenziosa, nella camera buia dove, in penombra, vide la sagoma triste di sua madre: dormiva, le mani intrecciate, strette da desiderare di sciogliere quell’inutile spasimo. Conosceva da sempre quel dolore, allenando così la consapevole pazienza del cuore, così utile alle donne per educarle all’attesa.

Al fratello, difeso finché fu possibile da oneri non “sopportabili per un maschio”, tutto venne rivelato all’improvviso. Ciò causò nel ragazzino una reazione immediata di fuga, di chiusura, come ad esorcizzare la sofferenza, in una sorta di evitamento dei sentimenti più profondi e dolorosi che avrebbe, in parte, caratterizzato la sua vita futura.

Non pensava di certo, allora, che avrebbe ripercorso alcune tappe, un dèja-vu della propria vita.

Solo chi ama, comprende il dolore.

I collegi, al loro interno, colpiscono i sensi per il loro nitore, assenza quasi di vita, che dovrebbe fungere da stimolo ad una vita ordinata, senza scosse e turbamenti.

Su una grande panca levigata, fornita di schienale, aspettavo che qualcuno venisse a prelevarmi per rientrare a casa. Queste attese,  sempre molto lunghe, venivano da me vissute con un misto di vergogna, nel rimanere sempre l’ultima, e di accettazione della “ normalità” di quanto accadeva.

Forse non pensavo di meritarmi un trattamento uguale a quello degli altri bambini perché non riuscivo a vedermi “ altro” rispetto alla vita dei miei genitori ed ai loro disagi. Così mi sembrava giusto che mi “dimenticassero”.

Quell’ordine, quel nitore di cui parlavo contribuivano anch’essi a farmi accettare la mia differenza.

Questo è un tratto che non ho più dismesso, così è facile, quasi naturale accettare tutto dalla vita degli altri, anche la sofferenza, vivendo in una sorta di trance che ho creduto di scegliere.

La mia prima battaglia, per quello che io ritenevo irrinunciabile, la condussi ad otto anni contro mio padre per poter continuare a frequentare la scuola. Egli, ancora memore dell’educazione paterna, che vedeva le donne di casa in una condizione comunque subalterna, intendeva forse porre così una sorta di suggello alla differenza tra i sessi. Forse furono le argomentazioni molto precoci che produssi, forse il sostegno da parte di mia madre, mio padre desistette presto ponendo fine a quel breve periodo di vacanza e di studio casalingo che mi costò comunque un anno scolastico.

L’anno successivo dimostrai che facevo sul serio recuperando e sostenendo brillantemente gli esami di quinta elementare.

Ricordo di quegli anni le mie riflessioni sul senso della vita, che non comprendevo perché stupissero tutti, e le mie improvvise paure nell’affrontare la quotidianità. Mi soccorse una volta mio fratello salvandomi dal bulletto di quegli anni che infastidiva me e le mie compagne all’uscita da scuola ,  divenendo ,così, l’idolo di tutte.

Una volta raccontai a mia madre della paura che in me destava, lungo il tragitto da scuola a casa, una sorta di castello incompleto che si trovava lungo il percorso, il castello di via Leucatia: glielo comunicai tranquillizzandola, come ero solita fare, e tenendo per me l’inquietudine e l’ansia.

Quella bambina così forte e fragile mi commuove ancora.

Non so, però, se ci sia ancora o si sia arresa perché il dolore degli altri, le loro difficoltà rischiano di travolgerla e lei non ne regge più il peso.   

 

Il centro di Catania, “la Civita”, ci ha riportato, negli anni ’60, a vivere nella strada e nella casa dalla quale mio padre, negli anni quaranta, scorse per la prima volta mia madre, sua dirimpettaia. La vicinanza di queste due abitazioni contrastava con la distanza delle loro esperienze e delle loro vite, ma loro non lo sapevano, né furono disposti a considerare importante questo elemento.

Mio padre, figlio di un notabile forzese, viveva allora, per studiare, con degli zii paterni, scapoli e professionisti in Catania. Il suo esilio forzato era iniziato sin dalla più tenera età ed egli lo aveva subito come una violenza, dato l’allontanamento dai suoi affetti più cari che ne era scaturito. Ciò, pare, lo avesse segnato per sempre, spingendolo a cercare per tutta la vita un amore che non avrebbe mai più ritrovato, né potuto più vivere, in una sorta di inquietudine che avrebbe segnato e travolto, in futuro, tutti i suoi affetti. Delle proprie origini nobiliari egli viveva tutte le contraddizioni, consapevole ormai dei tempi mutati,  comunque propenso alla benevolenza ed all’affetto profondo verso i propri simili, e di ciò egli recava il segno attraverso una personalità complessa e sofferente.

Mia madre, di umili origini contadine, si trovava in città per proseguire i propri studi universitari, ignara, nella sua semplicità, di quanto potesse essere imprevedibile  la vita.

La casa, nella quale abitammo per alcuni anni, venne affittata a mio padre da uno dei suoi due zii, medico, sopravvissuto alla guerra.

La “ Civita” conserva oggi, come allora, in una sorta di tradimento, solo il nome delle sue antiche origini essendo una tra le zone più fatiscenti e degradate della città, se si eccettuano alcune zone, oggetto di nuove speculazioni immobiliari.

Ciò che affascinava me bambina, in quella casa, era l’interno con i suoi mobili ottocenteschi che vennero restaurati, i suoi quadri-ritratto degli antenati, a parete,  la sua libreria con libri d’epoca; in ricordo materiale di quel periodo conservo un vecchio pianoforte appartenuto ad una mia zia paterna, sorella che mio padre adorava.

Furono quelli gli anni in cui mio padre continuava a coinvolgermi nel suo lavoro, nelle sue attività, attraverso la dettatura delle sue relazioni medico-legali da cui non mi facevo impressionare, dato ciò che rappresentavano per me sul piano emotivo: la complicità con mio padre. Spesso con la mia fantasia viaggiavo indietro nel tempo con i personaggi dei ritratti, cercavo d’immaginare le loro vite in un’epoca a me sconosciuta, oppure rivedevo i miei genitori, spiarsi per la prima volta.

Da lì venimmo sfrattati, per motivi d’interesse, dalla convivente del mio prozio e ricominciò così il nostro peregrinare, che ci vide approdare  in una casa, questa volta in periferia, una villa della quale noi occupavamo un appartamento.

Furono quelli gli anni in cui le difficoltà economiche di mio padre, strutturalmente incapace di gestirsi, raggiunsero l’apice, nonostante gli sforzi di mia madre per impedirlo. Fu così che per un breve periodo fummo ospiti di una famiglia amica con la quale si creò un saldo e sincero legame , almeno così ricordo.  

La mia adolescenza, con i suoi primi turbamenti, è trascorsa, in parte, in una piccola casa sorta nel boom edilizio degli anni ’60 in una delle periferie della città; dai suoi balconi  lo sguardo poteva ancora abbracciare gli orti sottostanti che costituivano, insieme ai loro abitanti, una sorta di “fuga segreta” dalla mia quotidianità.

Il sonnambulismo di quegli anni forse era un segnale della mia inquietudine più profonda. Passò anche quello, venne” resettato” , come si direbbe oggi, soprattutto da me che ricordo ancora quegli stati di dormiveglia durante i quali desideravo che qualcuno mi notasse.

Furono quelli gli anni in cui decisi , con maggiore consapevolezza, di sostituire mia madre nelle faccende domestiche per alleviare le sue fatiche.

Vi è un periodo di cui ricordo poco, forse per il sentimento di vuoto  che esso mi produceva: i nostri genitori si assentavano spesso, noi accettavamo queste assenze misteriose senza protestare, né indagare, continuando a svolgere i nostri compiti, quasi a dare una parvenza di giustezza e di normalità a ciò che tale non era.

Rimaneva in noi ferma la certezza che qualcosa non andasse ma che noi dovessimo comunque contribuire a mantenere salda la loro unione e supportare la loro fatica.

In quel periodo abitavamo in via Costanzo, una strada del centro, in una casa-ammezzato che non mi è mai appartenuta.

Accadde poi un incontro.

Mio padre era solito dispensare i propri pareri sanitari, se richiesto, senza formalità, né anticamera, per puro spirito missionario o per passione che  aveva coltivato sin da bambino; così, quella di medico, per lui non era una professione intesa anche come lavoro da cui trarre il proprio sostentamento, bensì un proprio modo di essere; egli non distingueva mai, atteggiamento di cui  molti approfittavano e, peraltro, si immedesimava totalmente nelle difficoltà economiche dei propri pazienti, vere o presunte, come pure in quelle psicologiche di accettazione e di contrasto delle patologie, divenendo quasi uno psicoterapeuta.     

Fu così che conobbe una professoressa in pensione che si offrì di aiutarci nelle nostre difficoltà. Quali fossero stati gli accordi presi io lo ignoro, so per certo che la relazione fu tanto lunga quanto travagliata e contraddittoria: durante questo periodo noi abitammo in delle case che ci vennero affittate, suo tramite.

La penultima di queste case, in via G. Borrello,  fu quella dalla quale i miei genitori andarono via dopo la morte della professoressa e l’inizio della malattia di mio padre, per andare a vivere, da genitori ormai assistiti da noi figli, in via Ughetti .   

La casa di via Borrello è quella nella quale siamo cresciuti trasformandoci in studenti universitari ed adulti.