Ilaria Dascola - Poesie

MI ISPIRI POESIE

 

Mi ispirano poesie i tuoi occhi fugaci

che abbassi distratto per il troppo imbarazzo.

Somigliano a steli d’erba che si inchinano al vento,

così simili ai miei,

un’isola nocciola tra gli attracchi delle ciglia,

piccole imbarcazioni alla riva delle palpebre,

in attesa di salpare.

Hai le spalle curve, come un ramo carico di frutti,

ed il ramo sono i tuoi pensieri

ed i frutti sono i tuoi dolori,

che se assaggio con un morso sporcandomi le dita

ne colano poesie,

come polpa succosa che mi sporca la lingua.

Bevo

dalla tua pelle color della neve,

di un bianco vivo, come granelli di sabbia

e la spiaggia sono le tue guance,

con le impronte che lascio di tenui carezze ,

e gli scogli sono le tue labbra,

dischiuse leggere in una curva serena.

Somigli a te stesso, nella forma più pura,

vestito di fiato soltanto, senza ricordi,

soltanto il rumore della tua voce

che sale sottile, fin oltre il presente.


 

 SE TI INCONTRASSI ANCORA

 

Se ti incontrassi ancora vorrei che fosse di Maggio,

con veste turchina di seta leggera

ed i petali di rosa ad incontrare il vento.

Inseguirei la tua ombra, come da bambina

toccando con gli occhi il tuo corpo celeste

con le mani di stelle ed i capelli di luna,

ad adornare di luce il contorno della tua bocca.

Se ti incontrassi ancora spenderei i secondi

ad ascoltare il tuo fiato ,come vento di pace

che attraversa il costato e mi giunge come voce

stendendo il mio cuore come panni al sole.

Rincorrerei il tuo tocco lasciato nel mondo,

coi tuoi passi di aria leggiadri e sicuri

che disegnano linee tracciando parole.

E’ così che immagino il tuo corpo,

di latte e di luna, di volta celeste,

di lucciole che danzano rotonde colando dalle dita

che somigliano al mare, liquide e scomposte,

senza forma umana,

perché tu sei oltre, disteso in verticale

a scomporre le linee che costringono il tempo.

Se ti incontrassi ancora non ti chiederei nulla,

nessun desiderio da realizzare,

leggerei il tuo sguardo sussurrando il tuo nome,

sbagliando pronuncia, come quando rimani senza parole.

Sentirei la mia lingua incollata al presente,

in un attimo di sogno che mi ricorda il Natale

o la pioggia d’estate che mi bagna i capelli,

somigliando ai tuoi tratti disciolti dal pianto.

Ti rivivrei felice, sottile come un foglio

adornato di inchiostro che canta i tuoi versi.

Ti scriverei sulla schiena partendo dal basso,

per risalire sul collo di curve odorose

che raccontano la tua presenza,

scesa dal cielo, per incontrarmi di nuovo

in un giorno di Maggio.


 

 QUANDO MI E’ CADUTO IL CUORE

 

Quella volta che il mondo è crollato per terra

era estate ed i ciliegi perdevano i petali

dissipando di rosa i viali roventi.

Ho sentito un rumore, così simile al dolore,

come uno sparo di luce che mi ha tolto la vista.

Sembrava cadermi il cuore dentro le lacrime,

attraversandomi l’anima come chicchi di grandine

Ma poi il domani è arrivato ed io ti ho relegato,

cucendoti i bordi nei miei ricordi,

dimenticandomi di segnare, mentre mi ripulivo

a che paragrafo eravamo arrivati del nostro presente fuggito.

C’è meno luce nel sole, ma brilla comunque,

penetrandomi dentro come i petali di ciliegio

che quel giorno attraversavano i viali.

Non ho capito ancora, sebbene sia chiaro,

a che ora hai fissato il nostro ritrovo.

Mi perdo confusa fra il silenzio marcato

delle voci inutili che percorrono i miei giorni.

Mi vestirò di bianco e verrò a trovarti

scordandomi l’abito nero con cui ti ho salutato.

quella mattina d’estate, quando il mondo era già caduto.

Si risveglierà il giorno, con un bagliore chiaro,

quando avverrà il nostro appuntamento.

Quando tornerai a trovarmi,

avrò cresciuto nel mio ventre di donna

un paradiso nuovo di neve e di nuvole

e sarà un momento felice, che durerà in eterno,

come il tuo nome che sussurro in segreto

senza più voce.


 

 IL TUO ODORE

 

Voglio tenere il tuo odore di agrumi e di ambra,

nella piega del collo

o nelle vene delle mani,

contro il mio cuore, lungo la schiena,

incastrandolo umido nelle ciglia e nelle dita,

per ritrovarti ad ogni passo,

quando sarai lontano

e tornerai a trovarmi attraverso il tuo profumo

che si sarà fatto mio,

a lasciare una scia

e la gente dirà, puntandomi il dito contro,

“ Ha un odore di uomo ”.

Ti sentirò sotto il palato, fra i denti,

sulla lingua,

bruciandoti nelle curve tonde dei numeri

o delle parole

che lascerò sopire assieme ai tuoi occhi,

per farti vivere sereno attraverso il mio vagare.


 

 CARLOTTA

 

Non conosco umano che somigli ai tuoi occhi,

tondi scuri e lucidi carichi di attesa,

rivolti verso l’alto mentre mi allontano.

Non conosco umano che somigli al tuo respiro,

così simile ad una voce con la quale ti esprimi

in assenza di parole.

Non conosco umano che somigli al tuo seguirmi

mentre poggi il mento sul mio palmo dischiuso.

Sembri ricoprirmi la pelle di carezze delicate,

lappando dolcemente la fatica ed i pensieri.

Non conosco umano che somigli alla tua gioia,

quando il ventre del cielo si colora di scuro

ed io torno da te ,accarezzandoti il muso

solcato di rughe.

Accoccolati sempre, standomi sul cuore,

insegnandomi ancora che non esiste umano

che ti somigli veramente.


 

 NON HO PIù

 

Spogliami sussurrando

estirpandomi il male,

tienimi al sicuro nel buio della terra,

ricordati ancora di assaggiarmi le vene

attraversandomi il cuore.

Lasciami riposare nel mio corpo nudo,

sulla pelle bianca macchiata dai tuoi danni.

Fammi affogare senza rimedio

in un giorno di Settembre,

lasciandomi libera da questa corsa

che porta comunque verso la fine.

Non ho

più pazienza,

più tempo,

più voglia,

di attendere affranta il tuo gelido bacio.

Lasciami andare, cullandomi piano,

con le lacrime dolci

che scrivendo ti regalo.


 

 ‘’TE LO AVEVO PROMESSO.’’

 

Si accoccolò sul divano portandosi le ginocchia al petto, spostando un ciuffo di capelli dietro l’orecchio. Lui era seduto a pochi centimetri. Giochicchiava con il telecomando alla ricerca di un programma interessante alla TV. Di profilo, con il dolce pendio del naso minuto, lei gli osservava le ciglia baciare le palpebre, in un movimento naturale che la ipnotizzava.

”Che c’è?” domandò lui sentendosi osservato.

Lei si strinse ancora più al petto, spostando lo sguardo verso le caviglie. Sospirò dolcemente, assaporando la consistenza morbida di un ricordo.

Era inverno, Dicembre, il cielo scuro tingeva le vie di paura ed il parcheggio del supermercato sarebbe stato deserto se lui, con la sua auto sportiva, non si fosse messo a sgasare rumorosamente. Teneva il piede sull’acceleratore inondando il perimetro di fumo, incurvando le sopracciglia in un’espressione torva.

Era stanco, confuso. Si sarebbe definito esausto se solo il fomento della propria anima gli avesse permesso di parlare ancora.

Da mesi, probabilmente dal primo alito di vita, nutriva dentro sè il nero male della depressione. Solitudine. Così l’avrebbe chiamata. E l’aveva intrattenuto spesso, come una donna più grande, sapiente e sensuale, con le sue dita sottili di ghiaccio, gelide, strette attorno alla gola fino a farlo crollare.

Diede nuovamente gas. Sarebbe stato l’epilogo, il finale. Il punto marcato con forza in quella sua giovane vita non ancora alla soglia dei trent’anni.

Strinse il pugno sinistro lungo la coscia. Le falangi bianche lasciavano spazio al tessuto dei jeans mentre digrignava i denti gustando sulle labbra il sapore salato delle lacrime.

Non vi sarebbe stato più nulla.

Aveva premeditato tutto: un pacchetto di sigarette, qualche straccio dismesso da incendiare all’interno di una pentola lasciata sul fuoco. E poi sarebbe stato semplice esalare, fin l’ultimo istante, buttato sul pavimento di una stanza isolata presa in affitto il giorno prima.

Non vi era più spazio per la madre, rimasta sola dopo che il marito l’aveva abbandonata in giovane età e per la sorella maggiore, un bocciolo delicato dalla pelle candida e dalle guance paffute. Non era per loro, si ripeté a mente. Era per lui. Per far tacere quel dolore pesante che soffocava le giornate e che lo estirpava dalla vita nelle notti insonni, passate ad abbracciarsi il ventre tremolante per i singhiozzi.

Lei si avvicinò lentamente. Il vestito corto lasciava nude le gambe esili, accarezzate dalla temperatura invernale. Arrotolò un ciuffo biondo sull’indice ordinandolo dietro il lobo dell’orecchio destro. Il bussare sommesso al finestrino lo fece ridestare, facendolo voltare nella sua direzione.

Spalancò gli occhi. Un intoppo. Le iridi nocciola si sposarono alle sue, così simili per colore ma più lucide, vive, nutrite di quella consapevolezza che solamente l’aver sofferto ti permette di possedere.

Abbassò il finestrino controvoglia, premendo a scatti la levetta sulla portiera. Un muro d’aria fredda gli solleticò i tratti del viso. Faceva freddo, non l’aveva notato. Quella sera di Dicembre, il diciotto, l’inverno sembrava essersi fatto più duro, come se anche il cielo volesse rendersi partecipe del suo gesto finale.

”Scusa…” disse lei spalancando la bocca, lasciando intravedere la lingua rosa. Faticava a distinguerne i contorni del volto mentre la fioca luce del lampione disegnava la sua ombra sull’asfalto.

”Potresti aiutarmi con la spesa? Non riesco a caricarla da sola”

Lasciò che la sua voce gli penetrasse nella testa, cercando di decifrare quella richiesta. Riportò gli occhi sul volante appoggiandovi le mani sopra, spingendo con i lombi sullo schienale. Tamburellava con un piede sull’acceleratore, nella pesante indecisione portata dalla sua indole gentile. L’urgenza di morire si mischiò fittamente con l’involontaria natura generosa.

Spense il motore accingendosi a scendere. Non gli importava quale ricordo avrebbe lasciato ma si era ripromesso, nelle giornate di mal di testa e nausea, che sarebbe stato se stesso fino in fondo, schiacciato da una realtà nella quale non riusciva più a trovare spazio.

Scese dall’auto tenendosi in equilibrio con la mano sul sedile. Lei era alta, probabilmente anche più di lui. I fili biondo cenere le incorniciavano il viso mentre abbassava le pupille in un gesto d’imbarazzo.

”Grazie” sussurrò accavallando le gambe. Si sistemò la gonna passandovi i palmi aperti, spingendola verso il basso. Era freddo, gelido freddo di Dicembre ed era buio, intenso buio notturno, eppure, ne era sicura, vi era ancora luce fra quelle spalle magre e gli zigomi pronunciati.

”È di qua” gli disse indirizzandosi verso un lato del parcheggio. Camminarono silenziosamente, lei più avanti di qualche passo mentre lui si stringeva un polso nervosamente. Qualche attimo, si ripeteva a mente, come una litania straziante cantata con voce roca. Qualche attimo e sarà tutto finito.

Giunsero all’auto, una piccola utilitaria verde acqua. Il baule era chiuso ed un sacchettino trasparente giaceva appoggiato sull’asfalto.

”Non riesci a caricare questa borsa?” domandò lui, sorpreso più che infastidito. L’espressione del viso si fece interrogativa, con le sopracciglia inarcate verso l’alto e le palpebre sollevate in un movimento di stupore.

Lei si poggiò con la schiena sul vetro del baule, intrecciando le dita a livello del ventre. L’abito si scompose alla voce del vento mentre sorrideva sommessamente, con le labbra serrate e gli occhi semichiusi.

”Cosa c’è che non va?” gli domandò sottovoce. Chiuse gli occhi inspirando la frescura leggera. Non andava, ne era sicura. L’aveva notato per caso, mentre usciva dal supermercato tenendo il sacchettino poggiato al petto. Qualche bibita, del riso basmati ed un pacchetto di insalata. E rumore, il suo, ancor prima di sgasare. L’antro buio dell’auto sportiva parcheggiata di traverso e quel suo profilo da bambino, con il pendio del naso minuto e le ciglia che si intravedevano appena mascherate di notte.

Lui fece un passo indietro aggiustandosi la felpa nera di qualche taglia più grande.

Cosa c’era che non andava?

Osservò i granellini grigi sotto i suoi piedi, sporcati da olio e cicche di sigarette. Alzò il mento verso il cielo. Il pomo d’Adamo saliva e scendeva ritmico mentre ingoiava un nodo all’altezza della laringe. Vi erano le stelle, piccole e luccicanti, somigliavano ai figli della luna, tonda, rimasta alle sue spalle. Provò ad esprimersi grattando le parole dal fondo dell’anima.

Era Dicembre, il diciotto, faceva freddo e lui era esausto.

Lei gli si avvicinò con un braccio tastando il suo, accarezzandolo morbido.

”Vieni, parliamo un po’.”

Gli prese la mano nella sua invitandolo a seguirla. Si sentiva minuscolo, con le spalle curve ed il collo piegato. Con l’anima in trambusto e Lei sempre presente, a tallonarlo, a schiacciarlo aggressivamente lungo l’orlo del precipizio.

Accettò il suo invito senza ragione alcuna, completamente inerme e senza forze. Non ne aveva più. L’avevano abbandonato già da qualche mese, ma forse ancor prima, fin dal primo alito di vita.

Rimasero al buio, seduti l’uno accanto all’altro. Lei serrava le cosce fasciate dal vestito mentre lui si poggiava con la tempia contro il finestrino. Respirare. I polmoni si spansero accogliendo fiato ed angoscia.

Cosa c’era che non andava?

Lei si scostò di qualche centimetro, incontrando la sua figura così simile alla propria, qualche anno prima, in un giorno d’estate nella quale aveva ardentemente desiderato sciogliersi nel pavimento.

”Andiamo, ti porto da me.”

Accese gli occhi dell’auto tagliando l’oscurità di quella notte. Un gattino correva velocemente per mettersi al riparo dalla pericolosità degli uomini. Qualche chilometro e sarebbero giunti da lei, un appartamentino ben arredato, asfissiante per dimensioni, ma comunque un luogo da chiamare casa.

Lui restava assopito sul finestrino mentre lo zigomo sporgente premeva facendogli provare dolore. Vivo. Nel dolore, ma pur sempre ancora capace di sentire qualcosa.

”Che cosa vuoi da me?” domandò sfiatando l’ansia in una frase. Il viale alberato diveniva una macchia di colore mentre il rumore dell’auto accompagnava la sua voce con la propria.

Lei sorrise ancora, restando attenta ai semafori e divieti. Conosceva poco quella strada, era finita in quel negozietto per caso, dopo una giornata di lavoro passata a vestirsi di frustrazioni. Il capo esigente, le colleghe pettegole, il computer che non funzionava bene.

Ma era viva, di nuovo. Dopo essersi sepolta per anni, ora lei era viva.

Non rispose, voltò l’angolo imboccando una stretta via deserta. Le palpebre delle case promuovevano il riposo dei propri abitanti.

Spense il motore scendendo rapidamente, infreddolita e desiderosa di togliersi le scarpe. Mai indossare calzature nuove al lavoro, si promise di ricordarsi. Raggiunse il baule raccogliendo il sacchetto della spesa mentre lui ancora sostava sul sedile dell’auto. Gli aprì la portiera rimanendo a guardarlo con il viso inclinato. Le gote sciupate si sollevarono verso l’alto mentre lui sfregava con forza il palmo sinistro sul ginocchio magro.

”Vieni con me” gli disse afferrandogli il polso. Era un ragazzo scarno, probabilmente sottopeso. Avrebbe potuto passare l’indice sulle sue costole in rilievo e le avrebbe contate ad una ad una, partendo verso il basso fino a raggiungere il movimento ritmico del petto.

La lasciò fare. Con più niente da perdere, solo quel suo male, lui si lasciò trasportare come un burattino o un peluche di quelli vecchi, senza più cotone nella pancia e con il naso a penzoloni. Curvò il capo verso il basso. Il vialetto di ingresso era pulito, con le piastrelle di cemento color antracite. Odore di casa. Avrebbe mai trovato un posto realmente suo?

Accese la luce togliendosi le scarpe, spingendole con la punta del piede per abbandonarle all’ingresso. La borsa nera in similpelle ritrovò il suo letto su di un mobiletto posto di fronte al portoncino d’entrata.

Accogliente, pensò lui, con quei gesti ripetuti quotidianamente e quel mobilio vecchio di qualche anno, con la cucina a vista ed un bancone sul quale aveva preparato pietanze per tutti. Si tolse le scarpe anche lui, in segno di rispetto. Indossava calzini neri di cotone, nuovi, acquistati la settimana precedente in un pomeriggio svogliato.

”Fai come se fossi a casa tua” disse lei con voce limpida. Si apprestò a levarsi il giubbotto lasciandolo distrattamente sul divano bianco. La certezza di essere al sicuro, fra i suoi oggetti, la consapevolezza di dovergli far trovare il suo posto nel mondo.

Si stropicciò le palpebre macchiandole di mascara, come al solito. Si guardò velocemente nello specchio argentato appeso accanto ad una foto di famiglia. La frangia non ne voleva sapere di rimanere ordinata. Tirò qualche ciocca verso il basso mentre sottecchi lo scrutava accoccolarsi sul divano.

”Sono solo” disse lui, aggrappandosi con le dita al tessuto dei jeans. Un singhiozzo, come uno sparo. Un singhiozzo, come un inizio.

Lei gli si mise accanto, schiacciando le scapole sulla seduta morbida. Portò le iridi verso il soffitto, imbiancato di recente. Qualche macchia d’umidità faceva capolino negli angoli della casa. Avrebbe dovuto ridipingerlo presto, di Domenica. Sembrava che persino le mura sapessero che quello era il momento per piangere.

Lui tirò su con il naso, pulendosi con l’indice e successivamente con il palmo. Solitudine. La presenza arcigna di quel male nero ancora a spingerlo verso il vuoto.

”Hai te stesso” disse lei mantenendosi pacata. Chiuse gli occhi ripensando a quanto le era costato far amicizia con la propria testa. Era estate, Agosto, dalla finestra semichiusa scorgeva la luce del sole mentre dentro di sé la coltre di buio le attorcigliava le budella.

”Noi abbiamo tutte le risposte. Non sei solo. Ti sei reso solo. Ed ora non vedi nessuno. Ma ci sono.” proseguì lei. I loro corpi riflettevano sul monitor spento della TV. Lui scosse la testa smuovendo il caschetto nero. Portava la frangia da qualche mese, così gli era stato consigliato. Gli avrebbe addolcito i tratti e l’avrebbe fatto sembrare più attraente.

Gli importava?

Scosse nuovamente la testa.

”Non riesco più a respirare”

Lei gli cinse una spalla facendolo appoggiare sulla sua, passandovi il braccio dietro il collo. Il vestito chiaro conobbe il profumo di quella felpa nera. Odore di ambra e agrumi.

”Si può stare meglio di così” sussurrò lei. Ripensò nuovamente a quell’estate ed ai colori violenti con la quale aveva dipinto la propria esistenza da quel giorno in avanti.

”Me lo prometti?” chiese lui serrando gli occhi. La patina umida delle lacrime faceva risplendere i raggi artificiali del lampadario acceso mentre la luna sfilava regale nel ventre del cielo.

Lei gli posò delicatamente le labbra sulla testa, in cima, lasciando schioccare il dolce suono di un giuramento.

”Te lo prometto”

Stese le gambe srotolandole dal proprio abbraccio. Lui la guardava divertito mentre poggiava il telecomando sul tavolino in legno. Le sfiorò il mento per risalire alla punta del naso, prendendolo con le dita.

Lei sorrise docilmente, attraversata dal calore di un gesto familiare. Un linguaggio esclusivo, il loro. C’era profumo di casa e di crostata rimasta a raffreddarsi sul bancone.

”Te l’avevo promesso che si poteva stare meglio.”