Ines Musumeci - Poesie

Miriam e il vecchio marinaio

Porto di Ostuni, ottobre 1972

Miriam aveva da poco riposto i giocattoli nell’armadio della sua cameretta, quando qualcuno bussò alla porta.
Abitava in una piccola casa immersa in uno splendido giardino.
La mamma era andata a lavorare come faceva ogni giorno da quando il papà era scomparso a causa di una brutta malattia.
Si accostò alla porta d’ingresso e sbirciò dallo spioncino.
Vide la figura di un vecchio dai capelli bianchi e dalla barba incolta.
Chi può essere? si domandò portando un dito alle labbra.
Si sollevò ancora sulle punte dei piedi e tornò a guardare.
La mamma le aveva sempre raccomandato di non aprire agli sconosciuti, specie in sua assenza;
quindi, doveva lasciare la porta chiusa.
Sospirò, quasi infastidita, e fece per allontanarsi ma il campanello riprese a suonare.
– Accidenti – mormorò seccata.
Si voltò e restò a fissare la porta.
Di nuovo il campanello suonò.
– Chi è? –
– Vengo dal porto, sono un vecchio marinaio. La mia barca è stata danneggiata dalla tempesta della notte scorsa. Ho bisogno di fare una telefonata. E’ urgente. –
Miriam portò un dito alle labbra.
La tempesta…In effetti c’era stata una tempesta; ne aveva sentito parlare alla radio proprio quella mattina.
Tornò a sbirciare dallo spioncino. Da com’era vestito quel tale, poteva davvero essere un marinaio.
Indossava un maglione nero a collo alto e aveva il viso “cotto” dal sole, proprio come quei marinai che più d’una volta aveva incontrato passando per il porto in bicicletta.
Che fare? si domandò smarrita.
In fondo non aveva l’aria del cattivo.
Si decise e mise mano al chiavistello per aprire la porta ma si bloccò.
Un momento, pensò allarmata. Non posso rischiare. E poi, se la mamma lo venisse a sapere? Di sicuro si arrabbierebbe. E molto.
– Allora, piccolina…ti decidi ad aprire? – riprese l’uomo spazientitosi.
Miriam indugiò. Più vi rifletteva e più l’idea di aprire la porta a quel tale non le piaceva. Non le piaceva affatto.
– No! – sbottò furiosa – Non ti apro!! –
– Perché? – replicò l’uomo addolorato.
– Io…io non ho il telefono. –
– Vuoi farmi credere di vivere in una casa senza telefono? – obiettò incredulo.
Miriam si morse il labbro.
_- E va bene. Ce l’ho ma non ti apro. La mamma non vuole che apra agli estranei, soprattutto quando lei… – si ammutolì.
– Quando lei non è in casa – aggiunse l’uomo con tono insinuante. La piccola indietreggiò spaventata.
– Va via! Vattene! – urlò in preda alla paura. – Tanto non ti apro. Non ti aprirò mai!! – e, afferrata da una poltroncina la sua bambola di pezza, si arrampicò su per le scale allontanandosi rapidamente da lì.

***

La sera, al rientro della mamma, Miriam non fece alcun cenno di quanto era accaduto nel pomeriggio. Temeva che potesse impensierirsi e, quindi, preferì tacere.
Una volta a letto, però, il volto e la voce di quel vecchio le tornarono prepotentemente alla memoria.
Si rigirò più volte fra le lenzuola cercando di prender sonno, ma appena chiudeva gli occhi lo rivedeva in piedi davanti alla porta di casa: il capo chino, l’aria trasandata e quella voce ora dolce, ora ruvida e cavernosa.

La mattina seguente, quando fu il momento di andare a scuola, Miriam fu colta da timore e tentennò a lungo prima di uscire.
La madre se ne accorse e le chiese:
– Miriam, che aspetti ad andare? Arriverai tardi se non ti sbrighi! –
– Sì, mamma – disse sommessamente aprendo l’uscio.
Guardò intorno: nel giardino e oltre il recinto della casa. Dello sconosciuto non c’era traccia.
Rinfrancatasi salutò la madre e uscì dal cancello.
La scuola distava un centinaio di metri da lì. Sì sistemò meglio lo zainetto sulle spalle e riprese il cammino.
Il cielo era grigio e un leggero vento cominciò a spirare smuovendo le foglie che coloravano la via.
Miriam si calcò il berretto di lana sulla testa e, stringendo il bavero del cappotto, allungò il passo sfidando le prime gocce di pioggia che tratteggiavano l’aria.
Camminava col capo chino e gli occhi bassi; la pioggia si era fatta insistente e fitta.
Giunta all’angolo svoltò e, senza capire come, si ritrovò a terra.
– Accidenti! – esclamò stordita. Si scostò il berretto scivolato sugli occhi e la prima cosa che vide furono due enormi scarponi scuri imbrattati di fango. Sollevò lo sguardo: era il vecchio marinaio.
Uno strillo acuto le schizzò dalla gola. Si alzò d’un balzo e cominciò a correre a perdifiato verso casa.
Correva, correva sotto la pioggia sferzante col timore di averlo alle spalle pronto ad agguantarla non appena avesse rallentato di poco la sua corsa forsennata.
Giunta al cancello l’aprì e d’impeto si diresse verso la porta di casa.
Si attaccò al campanello pigiandolo più volte in preda al terrore di non riuscire a varcare in tempo quella soglia.
Pigiava, pigiava ma inutilmente; dall’interno non le arrivava alcun rumore.
Si ricordò, allora, della chiave di riserva che la madre teneva ben nascosta sotto una mattonella accanto allo zerbino.
La prese, l’infilò freneticamente nella serratura e aprì l’uscio chiudendolo subito alle sue spalle.
– Mamma! Mamma! – gridò ansimante.
Guardò in giro per la casa ma della madre non c’era traccia.
– Mamma – riprese spaventata.
Salì al piano di sopra, frugò con gli occhi in ogni stanza, andò a cercarla persino in soffitta. Niente. Sembrava che la madre si fosse volatizzata.
– Eppure…mi aveva detto che oggi sarebbe rimasta a casa – pensò con le lacrime agli occhi.
Tremante e singhiozzante scese le scale e tornò in cucina.
La pioggia picchiava sui vetri delle finestre e il cielo, diventato cupo, veniva illuminato a tratti dal bagliore di un lampo o dal crepitìo di un tuono.
– Mamma – mormorò tirando su col naso.
Guardò sul tavolo, sulla credenza alla ricerca di un messaggio che le avesse lasciato la mamma ma non trovò nulla.
Poi udì uno strano cigolìo. Girò gli occhi e vide Polifemo, il suo gatto bianco, orbo da un occhio, uscire dalla porta socchiusa della cantina.
Strano, pensò, sorpresa.
La mamma, infatti, non lasciava mai aperta quella porta per timore che il gatto entrasse e facesse man bassa di ogni cosa.
Miriam si avvicinò lentamente all’uscio e con due dita lo sospinse, spalancandolo.
Nella penombra della cantina, scorse qualcosa giacere in fondo alle scale.
Accese la luce e vide riverso sugli ultimi gradini, il corpo della madre con ancora indosso la camicia da notte.
– Mamma – mormorò tremante.
La donna si mosse appena e un gemito le uscì dalle labbra.
– Mamma! Mamma! – gridò spaventata.
– Spero di non essermi rotta qualcosa – commentò cercando di sollevarsi da terra.
– Oh mamma…- mormorò accovacciandosi al suo fianco.
– Miriam non ce la faccio – ammise ricadendo sulla schiena. – Ho la gamba destra che mi fa male. Devi chiedere aiuto. Chiama qualcuno, presto. –
La piccola non se lo fece ripetere due volte: salì frettolosamente le scale e si precipitò fuori casa.
– Aiuto! Aiuto! Qualcuno mi aiuti!! – urlò uscendo dal cancello.
– Che cosa c’è bambina? – chiese una voce alle sue spalle.
– Mia madre è… – non riuscì a proseguire. Il fiato le si mozzò in gola. Dietro di lei, in piedi, col capo piegato e un insolito sorriso sulle labbra, sostava il vecchio marinaio.
Tale fu lo spavento che dalla bocca non le uscì alcun suono.
Rimase immobile con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse.
– Ehi, piccola! Che ti prende? – le chiese chinandosi.
Miriam farfugliò qualcosa che il vecchio non riuscì a capire.
– Ti senti bene? –
– Sì, credo di sì – rispose ansimante.
– Perché chiedevi aiuto? –
– La…la mia mamma – balbettò atterrita – ha bisogno di aiuto. –
Il vecchio corrugò le sopracciglia folte e grigie e i suoi occhi scuri parvero farsi ancora più cupi.
– Dove si trova? –
Miriam esitò.
– Allora bambina? –
– A…a casa. E’ caduta. –
– E’ qui che abiti? –
– Sì – asserì annuendo svelta col capo.
Con fare brusco, il vecchio la prese per mano ed insieme varcarono il cancello di casa.
L’uomo avanzava trascinandosi a fatica la gamba sinistra: la teneva rigida e ad ogni passo dava uno strattone secco per portarla in avanti.
E’ zoppo, pensò Miriam faticando a stargli dietro. Chissà, forse ha la gamba di legno, ipotizzò seguendolo a piccoli saltelli.
– Ah! Aiuto…qualcuno mi aiuti – sentirono gridare una volta entrati in casa.
L’uomo intuì da dove provenivano i lamenti e tirando a sé la gamba, raggiunse a passi ampi la porta della cantina.
– Si calmi signora. Adesso vengo ad aiutarla – le gridò notandola ripiegata sugli ultimi gradini.
Si liberò della giacca nera e del berretto blu, fradici di pioggia, e si accinse a scendere gli scalini.
Scendeva, reggendosi con le mani alla ringhiera di ferro che traballava ad ogni suo passo. Miriam l’osservava dalla sommità delle scale con ancora indosso il cappottino imbrattato di fango.
Finalmente il vecchio raggiunse la donna e, facendo leva sull’altra gamba, la tirò su con un braccio.
– Piano – mormorò dolorante. – Ho una gamba che mi duole – spiegò sollevandosi a fatica. La piccola li guardava esterrefatta.
– Forza, si regga a me – le diceva prendendo a salire assieme a lei un gradino dopo l’altro. –Brava, così – la incoraggiava sorreggendola per la vita.
– Dio la benedica! – esclamò la donna – Deve averla mandata il Signore fin qui…Non avrei saputo come fare senza di lei – continuò appoggiandosi al passamano della scala. – Quello stupido di un gatto! Ero scesa per prendere del vino e quando sono salita…mi sono accorta che il gatto mi aveva seguita ed era rimasto dentro. Così…sono scesa di nuovo e…per la fretta non ho acceso la luce – spiegò giungendo in cima alle scale.
Miriam si fece da parte ed il vecchio aiutò la mamma a sedersi.
– Grazie – mormorò ricadendo pesantemente sulla sedia.
Aveva il viso pallido e gli occhi segnati dal dolore.
– Dov’è che le fa male? – le domandò premuroso.
La donna tese la gamba destra davanti a sé e indicò la caviglia.
– Lì…la sento gonfia e…mi fa un po’male – dichiarò sofferente.
Il vecchio le prese il piede, osservò da vicino la caviglia, la tastò e commentò:
– Ah, non è nulla di grave…una semplice contusione. Se ha una garza e una pomata per il gonfiore
le faccio io una fasciatura – .
– Davvero? – replicò sorpresa – Grazie, grazie. Lei è davvero gentile – commentò commossa. – Con questa tempesta dubito che il medico verrebbe a visitarmi. –
Poi, rivolgendosi alla figlia disse:
– Miriam va in bagno e prendi l’occorrente. –
La piccola obbedì e nel giro di pochi secondi fu da loro con svariati tubetti di pomate, una scatola di garze e una fascia di cotone. Li rovesciò sul tavolo e si tirò da parte.
– Vedo che siete ben fornite – osservò sorpreso il vecchio marinaio.
– Sa, con una bambina in casa… – si schermì la madre guardando la piccola.
L’uomo scelse quello che gli serviva e iniziò la fasciatura. Si muoveva attorno a quella caviglia con gesti bruschi e decisi sotto lo sguardo attento e ancora stupito della piccola Miriam.
Quando ebbe terminato, sollevò la schiena e disse:
– Ecco fatto. La caviglia è a posto. Le consiglio di riposare. Fra qualche giorno starà sicuramente meglio. –
La donna sospirò risollevata e accennò un sorriso.
– Grazie ancora – disse riconoscente.
Il vecchio si girò facendo perno su una gamba e, afferrati la giacca e il berretto che aveva gettati sul tavolo, fece per lasciare l’abitazione.
– Aspetti! – lo richiamò la donna, – fuori piove ancora… –
– Non importa – disse indossando la giacca, – l’acqua non mi spaventa. Vivo in mare da quando sono nato. Ne ho viste di tempeste nella mia vita e non sarà certo questo temporale a spaventarmi – soggiunse calcando bene il berretto sulla testa.
– E la tua barca? – chiese la piccola stringendosi alla madre.
– La tempesta dell’altra notte ne ha danneggiato una fiancata ma ho già telefonato per avere del legname da un paese vicino e…inizierò presto a ripararla – rispose avviandosi verso la porta di casa.
– Signore! – esclamò Miriam in un sussulto.
L’uomo si arrestò e si voltò a guardarla.
– Se…se ti va – balbettò timidamente – puoi venire a trovarci. –
– Sì, certo – le fece eco la madre – ci farebbe davvero piacere. –
Il vecchio si soffermò a pensare. Poi disse: – Va bene…passerò a trovarvi con il prossimo temporale. Quando piove non navigo. Ci tengo alla mia barca – .
– Staremo qui ad aspettarla – lo rassicurò la donna abbracciando la piccola Miriam.
L’uomo salutò entrambe con un cenno di mano e , tirando a sé la gamba, si apprestò a lasciare l’abitazione.

***

La notte seguente, un violento nubifragio si abbatté sulla costa. Molte imbarcazioni ancorate al porto, furono danneggiate dalla pesante risacca.
Miriam si destò con una strana sensazione addosso.
Sentiva il vento fischiare attraverso le imposte chiuse della sua stanza e un brivido le attraversò la schiena facendole fremere le labbra.
Tirò su le coperte e si strinse forte alla sua bambola di pezza.
D’un tratto un’imposta si spalancò di botto e un vento gelido irruppe nella stanza trascinando dentro stille di pioggia come piccole gocce di cristallo.
Miriam scivolò dal letto e si precipitò alla finestra per chiuderla.
Fu allora che scorse sul pavimento, illuminato dai bagliori del temporale, un berretto di lana blu.
All’indomani, qualcuno al porto le raccontò di un vecchio marinaio che quella notte il mare aveva trascinato via con sé: la sua barca si era disancorata e, nel tentativo di salvarla, era stato travolto da una violenta ondata.
– Quel vecchio lupo – commentarono alcuni, – e dire che l’aveva appena finita di riparare… –
A Miriam scappò una lacrima e, avvicinatasi alla riva, lanciò al mare la sua adorata bambola di pezza.

 

 

Libero

Dal sedile posteriore dell’auto, Sunny guardava il mondo scivolargli davanti rapido ed incolore.
Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso da quando l’auto aveva intrapreso la corsa; non lo sapeva e poco gli importava saperlo.
Non si chiedeva neanche dove quel giovane, che ne era alla guida, lo stesse portando. Non se lo chiedeva perché sapeva che niente e nessuno avrebbe potuto restituirgli il vecchio Rupert.
Lo aveva vegliato per due giorni e due notti senza mai staccare gli occhi da quel corpo oramai privo di vita.
Quando erano arrivati quelli della municipale, Sunny aveva iniziato ad abbaiare e a guaire come un disperato e, mentre alcuni si stringevano attorno al vecchio Rupert, altri cercavano invano di rabbonire il giovane labrador con carezze e strette affettuose alle quali Sunny si sottraeva con ferma ostinazione.
Poi era arrivato quel giovane che aveva visto un paio di volte in tutta la sua vita: aveva scambiato qualche battuta con gli agenti, preso il guinzaglio e a strattoni lo aveva trascinato fuori dalla porta di casa.
Una volta in strada lo aveva sospinto con forza dentro la sua auto e si era messo al volante senza dire una parola.
Sunny si era guardato attorno, aveva fiutato la portiera, cercato con il muso l’aria che entrava dal finestrino appena aperto. Lui lo percepiva l’odore del suo padrone: era lì, fuori da quella maledetta auto. Allora si è messo ad abbaiare con forza, con rabbia mentre l’auto s’immetteva velocemente nella strada.
Voleva tornare indietro, stare con il vecchio Rupert, essere con lui comunque.
Ma l’auto aveva continuato la sua corsa prepotente e, man mano che proseguiva, per Sunny si faceva sempre più forte la convinzione che non avrebbe fatto più ritorno in quella casa.
Poi la macchina aveva abbandonato la strada principale e imboccato un lungo tratto sterrato pieno di buche e di piccoli dossi. Sunny non riusciva a spiegarsi quell’improvvisa sensazione di freddo che avvertiva dentro. Si portò al finestrino e le sue orecchie si teserono all’ascolto di lontani guaiti.
Via, via che l’auto avanzava, quei lamenti si alternavano a ripetuti latrati che si facevano sempre più forti e vicini. C’era un fondo di allarme, di accorato avvertimento in quel linguaggio oscuro. Sunny lo colse e si agitò vistosamente. Iniziò ad abbaiare, a scodinzolare su e giù per il sedile posteriore. Poi l’auto si fermò davanti ad una casupola di pietra e lamiera: sulla soglia si affacciò un uomo alto e grasso con un fucile tra le mani. Alle sue spalle, un cane di grossa taglia cercava, invano, di trovare un varco tra le sue gambe. Il giovane scese dall’auto e s’incamminò verso l’uomo: indicò Sunny, scambiò qualche battuta con lo sconosciuto. Ogni tanto si bilanciava sulle gambe, gettava una rapida occhiata alla sua macchina, gesticolava, si grattava un gomito, cercava di essere convincente.
L’uomo guardò Sunny e poi il giovane e poi di nuovo Sunny. Intanto i cani avevano ripreso ad abbaiare. Sunny li sentiva vicinissimi. Allora allungò il collo, aguzzò la vista e scorse sul retro della casa un’altra costruzione con delle sbarre al posto delle finestre. Fu un attimo: Sunny balzò sul sedile davanti e con un salto uscì dalla portiera rimasta aperta e si diede alla fuga. Il giovane se ne accorse e fece per rincorrerlo ma poi si arrestò; in fondo era questo che voleva: liberarsi di quello stupido cane per il quale lo zio Rupert provava un attaccamento a dir poco morboso.
E, intanto, Sunny correva, correva a precipizio fendendo l’aria con il suo muso chiaro imbrattato di fango e di pianto. Correva Sunny, correva sulla via di ritorno: attraversava campi, canali, s’imbatteva in un allevamento di cavalli, scivolava giù per una scarpata, finiva dentro uno stagno, si rialzava e con la tenacia di un maratoneta riprendeva la sua corsa sfrenata verso casa.
Correva il giovane labrador, correva a perdifiato, correva e poi rallentava e poi di nuovo correva e sempre più forte. A notte inoltrata, oramai stremato e sanguinante, giunse davanti all’edificio dove abitava con il vecchio Rupert. Era distrutto ma felice. La mattina seguente, fu il portiere dello stabile a raccoglierlo dallo zerbino. Sunny era, oramai, al sicuro. Non avrebbe più rivisto il vecchio Rupert ma l’odore, quello, lo avrebbe sentito ancora per molto tempo.

 

 

L’aquila che visse due volte

Un giorno un giovane apache, mentre s’inoltrava per un sentiero in sella al suo cavallo bianco, fu attirato dal volo incerto di un’aquila.
L’uccello volava basso e sembrava non riuscire a contrastare il vento impetuoso che spirava attorno scuotendo alberi e cespugli e facendo ruzzolare grosse zolle di terra.
Il giovane indiano arrestò il passo del cavallo e si soffermò a guardare l’aquila che, innalzando il volo, si spingeva verso la cima di una montagna fino a trovare rifugio in una cavità della roccia.
Quando il vento si placò, il giovane apache scese dal cavallo e attese che l’aquila uscisse dal rifugio dove credeva che avesse trovato riparo, ma così non fu.
Sorpreso, legò il cavallo al tronco di un albero e s’inerpicò su per la montagna sino a raggiungere la cavità dove l’aquila si era rifugiata.
Guardò dentro e quello che vide lo lascio di stucco.
Il grosso volatile se ne stava in piedi con le ali un po’aperte e con il capo colpiva ripetutamente la parete rocciosa che aveva davanti a sé, fino a spaccarsi il becco e, piuttosto che desistere, proseguiva tenacemente in questa assurda operazione, riducendolo in pezzi.
Il giovane apache restò molto colpito da quello strano rito e si apprestò a ridiscendere la montagna e, una volta in sella, riprese velocemente la via di ritorno.
Dopo qualche settimana, decise di tornare in quel luogo e giunto ai piedi della montagna, risalì il fianco roccioso fino alla cavità della roccia. Con sorpresa notò che all’aquila era ricresciuto il becco e, adesso, era intenta a strapparsi, uno ad uno gli artigli di ciascuna zampa.
Sconcertato da quella vista, il giovane apache ridiscese rapido la montagna e, saltato sul dorso del suo cavallo, galoppò fino al campo della sua tribù.
Trascorsa qualche settimana, il giovane indiano volle tornare di nuovo a sbirciare dall’apertura di quella cavità rocciosa.
Questa volta, quello che vide lo lasciò senza fiato.
All’aquila erano ricresciuti anche gli artigli e, adesso, era tutta presa a strapparsi con il becco e i nuovi artigli, le piume che aveva sul corpo.
A quella vista il giovane indiano rimase sbigottito e si apprestò ad allontanarsi da quel luogo.
Dopo qualche settimana, il richiamo dell’aquila si fece nuovamente sentire e il giovane apache tornò sul sentiero che conduceva alle pendici della montagna.
Questa volta, però, non riuscì neanche a scendere da cavallo.
L’aquila, fiera e maestosa, con il becco lucente ed il corpo ricoperto da un folto piumaggio che brillava al sole, si era portata sul bordo della cavità rocciosa. Aveva allungato il collo e puntava lo sguardo verso l’orizzonte.
Dopo aver esitato per qualche istante, si tese in avanti, dispiegò le ali immense e si levò in volo.
Un volo alto, regale, possente.
Il doloroso processo di rigenerazione, a cui si era sottoposta, le aveva offerto una nuova opportunità: quella di vivere ancora, per altri trent’anni.
(Ines Musumeci)

(Questa storia trova ispirazione da un’antica leggenda indiana secondo la quale, ogni anno, decine di vecchie aquile si trovano di fronte ad una dolorosa scelta: attendere di essere sopraffatte dalla morte o sottoporsi ad un processo di rinnovamento, lungo ben 150 giorni, che consente loro di prolungarsi la vita).

 

 

 

La mountain bike rossa

Si può morire per una crisi d’asma? Certo, ma non a quindici anni. Non a quell’età. A quell’età si abbraccia la vita con forza, con fede. Non si può morire. Non si deve. Elena pensa a questo mentre
sfiora la mano esangue di sua figlia Sara.
Sara se n’è andata per sempre in una sera di marzo.
E’ in casa con sua madre e il piccolo Ivan. Sta studiando in cucina, davanti alla tivù. Come sempre. Come tutte le sere.
La televisione le concilia lo studio. Cosi dice, ma non la guarda mai. Si limita ad ascoltarla.
Sua madre non riesce a capire come possa studiare con la tivù accesa.
Eppure Sara ci riesce e la riprova sono gli ottimi voti che porta da scuola.
Tutte le insegnanti sono entusiaste di lei e dire che ha cambiato classe da poco.
“E’ una ragazza attenta, capace, deve considerarsi una madre fortunata” le dicono.
E sì che Elena si considera una madre fortunata. Un matrimonio riuscito, una figlia affettuosa e brava come Sara e il piccolo Ivan che nutre per la sorella una vera e propria venerazione.
Sara lo porta sempre con sé, anche adesso che si affaccia alla vita con gli occhi di un’adolescente.
Lo accompagna nel cortile sotto casa, gli porta la bici, una mountain bike rossa che Ivan ha ostinatamente voluto anche se riesce a malapena ad arrivare ai pedali.
Quella sera Sara viene colta dall’ennesima crisi d’asma.
Ne soffre da tempo ed oramai si è abituata a convivere con una bombola d’ossigeno che tiene costantemente a lato del letto.
Quando le prende l’attacco d’asma, Elena non si preoccupa più di tanto.
Si toglie i guanti di gomma con i quali sta mondando le zucchine e accompagna la figlia in camera.
Lì, la fa distendere sul letto e le posa la maschera d’ossigeno sul viso.
Quindi, apre la chiavetta della bombola mentre Sara continua a tossire comprimendo la maschera d’ossigeno sul volto.
Tossisce in modo convulso tirando l’ossigeno a lunghe sorsate con lo sguardo sulla madre e sulla bombola di cui, oramai, conosce ogni macchia, ogni singolo graffio.
Una, due, tre sorsate ma l’aria non risale, non riesce a risalire dai bronchi.
Sara intuisce il pericolo e annaspa con una mano per richiamare l’attenzione della madre.
E’ un attimo: si crea una compressione d’aria nei polmoni e il cuore della giovane cessa di battere.
Sara lascia cadere la maschera. Elena si precipita su di lei: la tira su per le spalle, strilla il suo nome, la scrolla con forza, con disperazione.
Ivan è lì, sulla porta. Ha visto tutto ma non parla, non riesce a parlare, a muoversi.
La madre corre al telefono, chiama un’ambulanza ma è già tardi.
Sara è morta e ai sanitari accorsi, non resta che constatarne il decesso.

***

Ora la sua salma è stata ricomposta. Elena la vigila attenta, incurante del via vai di amici e parenti, delle parole di cordoglio, delle mani compassionevoli che le sfiorano il capo, le spalle.
Sara è morta. La sua bambina non c’è più.
Sergio, il marito, non riesce a reggere quella visione e torna in cucina con la sigaretta tra le dita.
Ivan non c’è. E’ giù, in cortile, a giocare con gli altri bambini. E’ giusto che sia così. Non è riuscito a prendere sonno per tutta la notte e questa mattina, considerato tutto, papà e mamma hanno preferito non mandarlo a scuola.
D’un tratto, però, lo sentono strillare dal pianerottolo. Suona ripetutamente il campanello e tira calci feroci alla porta.
Subito i due corrono ad aprirgli.
Ivan si aggrappa alla gonna della madre rabbioso e piangente.
“Che cosa è successo Ivan? Che cosa hai?” gli chiede sorpresa.
“La bici! La bici!” urla disperato.
La porta dell’ascensore è aperta. Il padre intuisce l’accaduto e con gli occhi umidi va a disincastrare la mountain bike che Ivan ha faticosamente caricato nell’ascensore.
Elena comprende il dramma del piccolo e lo stringe a sé con forza.
Non c’è più Sara a vegliare su di lui e adesso Ivan lo sa.

 

 

Il bambino dai riccioli biondi, lucenti come e più dell’oro

Vedi? Vedi le luci colorate nelle case? Gli abeti addobbati a festa? E i presepi con i pastori e le pecorelle? Li vedi?
Il bambino dai riccioli biondi, lucenti come e più dell’oro, si spinge in avanti e sposta il capo a destra e poi a sinistra come per cercare di vedere quello che vedo io.
Poi si gira a guardarmi e sorride. Un sorriso candido, aperto, un sorriso sincero.
E ora? Cosa vedi? Gli chiedo ancora.
Lui porta una mano alle labbra e torna a guardare. Adesso ha assunto un’espressione assorta.
Allunga il collo e riprende a scrutare dall’alto. Ha la fronte bombata, un nasino a scivolo e il mento
rotondo e pieno.
Protende una manina e muove le dita nell’aria come per afferrare qualcosa. Poi mi guarda con quegli occhioni color del cielo e schiude le labbra in un suono lieve.
Da dietro, una mano gentile scosta la leggera coltre di nebbia che si sta formando attorno.
E’ una giovane donna con il capo velato d’azzurro. Si china su di lui e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio. Solo adesso mi accorgo che il bambino le siede in grembo.
“Devi andare” gli dice con tono dolcissimo.
Il piccolo si volta a guardarla. La manina è ancora protesa con le dita in movimento.
“Ora devi andare” gli ripete baciandolo dolcemente su una guancia.
Il bambino si gira, rovescia il capo in avanti e in un baleno si trasforma in una sfera di luce accecante che si proietta rapida verso la Terra lasciandosi dietro una scia luminosissima.

Mi ritrovo seduta nel mio letto con il cuore in gola.
L’orologio che ho sul comodino segna la mezzanotte.
E’ il 25 dicembre. E’ il giorno di Natale.
Possibile che quello che ho vissuto sia stato solo un sogno? Sembrava così vero, così reale…
Mi tiro su a fatica e vado alla finestra.
Alzo la serranda e mi soffermo a guardare.
Fa freddo e un leggero nevischio comincia a planare sugli alberi e sulla strada che brilla sotto la luce di qualche lampione.
Giro lo sguardo in alto e mi par di vedere qualcosa di luminoso muoversi nel cielo.
Mi dirigo verso l’armadio. Apro rapida i cassetti, cerco con affanno tra le mie cose e, finalmente, lo trovo.
Torno svelta alla finestra e punto il cannocchiale verso il cielo. Lo regolo, tento una messa a fuoco portata al massimo e, finalmente, li vedo.
Vedo la giovane Donna con il capo velato d’azzurro e il Bambino dai riccioli biondi, lucenti come e più dell’oro.

 

 

Non è mai troppo tardi

Sono le 7,40 del mattino.
Come ogni giorno a quest’ora, viaggio sulla linea 58 in direzione di Piazza Barberini.
E’ una mattina particolarmente fredda e nebbiosa quella di oggi.
La città che schiude le finestre al nuovo giorno, si muove lenta e sonnacchiosa sotto la luce opaca di un pigro sole invernale.
Sui parabrezza delle auto in sosta, la brina della notte fatica a sciogliersi mentre l’aria si fa grigiastra e prende gli odori del mattino che sanno di caffè fumanti e di sigarette appena accese.
L’autobus prosegue la sua corsa sbuffando e stridendo sull’asfalto lucido ancora pregno dell’umore notturno.
Un operaio del Comune, in cima ad una scala, si accinge a smontare una delle luminarie natalizie che nei giorni di festa hanno acceso di colori la via della Capitale.
Peccato, penso, dovrebbero lasciarle ma poi mi convinco che non avrebbe senso.
Intanto, il posto dinanzi a me si è liberato e una vecchina minuta sguscia prepotentemente tra due passeggeri e si affretta ad occuparlo avendo la meglio su una signora grassoccia che le lancia un’occhiata di fuoco.
La vecchina, per nulla intimidita, si sistema meglio sul sedile e si gira a guardare la strada dal finestrino.
Che strano personaggio, penso.
Ha i capelli bianchi, spioventi ed elettrici, il naso adunco e degli enormi occhiali marroni che lasciano intravedere due improbabili sopracciglia azzurre disegnate ad arco sulla fronte.
A guardarla si stenta ad indovinarne l’età. Di anni potrebbe averne ottanta come novanta, tanto la pelle del suo viso è avvizzita e spenta.
La osservo muovere nervosamente le labbra chiuse come se volesse scollarle dai denti.
Sul grembo regge i manici di un’enorme sacca di iuta che tira a sé con forza ogni volta che l’autobus affronta una curva facendola sbilanciare su un fianco.
E’ così piena quella sacca da farla somigliare ad una patata “cicciata” e da come la tiene stretta si direbbe che contenga qualcosa d’importante, se non addirittura di prezioso, almeno per lei.
Ma cosa può portare con sé di così importante una vecchina ossuta e piccola con indosso un vecchio cappotto grigio e ai piedi due scarpacce nere talmente consunte da invocare l’abbandono in qualche cassone della nettezza urbana?
La guardo ancora una volta in viso e la sorprendo a scrutarmi attenta strizzando gli occhi chiari come per osservarmi meglio.
Le sue pupille, inquiete e penetranti, paiono voler leggere al di là del mio sguardo sempre meno fermo e sicuro.
Un pensiero, forse un ricordo, mi balena all’improvviso nella mente.
In quell’istante la vecchina, come riavutasi da un torpore, si alza di scatto ed ecco il pesante fardello farsi di colpo leggero tra le sue mani tanto da portarlo su una spalla con un unico gesto.
Nel movimento, un braccio piccolo, come di neonato, spunta da un pertugio della sacca facendomi rabbrividire.
Intanto l’autobus frena, sbuffa e dalle porte cominciano a scendere alcuni passeggeri.
Prima di seguirli, la strana vecchina si volge a guardarmi e i suoi occhi si fanno di colpo luminosi e ridenti.
Giro lo sguardo sul finestrino, certa di vederla sbucare da dietro per attraversare la strada, ma nel farlo ho una visione o almeno in quel momento tale mi sembra: sul sedile rimasto libero ci sono, perfettamente allineate, due scarpette da ballerina di raso bianco.
Alzo gli occhi sui presenti ma nessuno sembra vedere quello che vedo io.
Ed ecco la strana vecchina sbucare da dietro la vettura ed attraversare agile la strada incurante delle auto che proseguono la loro corsa come se non la vedessero.
D’istinto afferro le scarpette e dal finestrino le grido: “Signora! Signora! Ha dimenticato qualcosa!” e la vecchina, oramai giunta sull’altro ciglio della strada:
“Non ho dimenticato nulla! Era da tempo che dovevo portartele!”
Sorpresa, abbasso lo sguardo su quel paio di scarpette bianche, le osservo attentamente e in quell’istante mi rammento di un’Epifania, di tanti anni fa, quando desiderai ardentemente, e attesi invano, un paio di scarpette da ballerina di raso bianco.

 

 

Riflessioni

Circondatevi di persone che vogliono il bene per voi e dalle quali potete imparare solo cose buone e tenete le distanze, fin dove potete, da chi vuole solo il male per voi e trama e agisce perché questo accada.

 

 

Coltivate lo spirito e l’intelligenza attraverso la lettura e la riflessione. Non soffermatevi troppo sull’apparenza. Guardate anche alla sostanza delle cose. La bellezza è un bene effimero perché corruttibile dal tempo; l’intelligenza no, quella può accompagnare una persona sino alla fine dei suoi giorni. Date peso alla vostra vita e, soprattutto, guardate all’essenza della persona.
Noi, prima che corpi, siamo anime che camminano.

 

 

Sono sempre stata affascinata dal trascorrere del tempo, dal continuo mutamento delle cose, dal nascere e morire degli eventi, da tutto ciò che esiste fuori, intorno e dentro le persone e mi è capitato di pensare, volere, immaginare anche per un solo, vago istante, che il tempo si fermasse, che gli orologi di tutto il mondo, per un inspiegabile fenomeno di magnetismo, si arrestassero, che ogni cosa, come avvolta da un velo invisibile, restasse uguale a se stessa per ore, mesi, forse anni così da essere preservata dall’azione corrosiva e continua del tempo.

 

 

 

Innamoratevi della vita,
innamoratevi di un sogno,
innamoratevi di un’idea,
innamoratevi di ciò che di buono
c’è in ogni persona che amate,
innamoratevi di qualunque cosa
che meriti il vostro amore,
innamoratevi dell’amore stesso
che è in ciascuno di voi.