L’ albero di Natale
Santo Padre mi perdoni l’ardire,
ma sono certo che mi starà a sentire.
Le voglio fare una confidenza
e son sicuro che ne avrò licenza.
È d’uso ch’ogni anno, per Natale,
far qualche cosa di particolare,
oltre al Presepio con il Bambinello
mettere un albero adornato e bello.
Sotto quest’albero si mettono dei doni,
poveri o ricchi secondo le occasioni.
Si aprono nella Notte Santa i pacchettini,
per la gioia dei grandi e dei piccini.
Nella mia casa, non per far bravata,
è fatto con materia riciclata,
ma non per questa ragione è meno bello
di un povero ed asfittico alberello.
Anche a san Pietro in quest’occasione,
giustificato dalla devozione,
ogni anno un grande abete centenario
conclude nella piazza il suo calvario.
Sono stati i fedeli a trasportarlo:
“il Papa sarà felice nel guardarlo!”:
È un grande di montagna abete bianco
l’albero che al Natale porta vanto.
Diranno che gli alberi son tanti
questo è un concetto noto tutti quanti!
Cosa può fare un albero di meno?
Avremo disboscato un po’ il terreno.
Ma veda, Santo Padre, non è il solo
ad arrecare alla Natura duolo:
Nelle gran piazze d’ogni continente
si mostra a tutti un albero morente.
Basterebbe una moltiplicazione
per conoscere quale sia la dimensione
della strage che per è anni consumata
con una leggerezza si avventata.
Non crede Santità che ha ragione
chi vuol fermare questa distruzione?
Molti purtroppo, lo fanno anche a Natale,
Predicano bene e poi razzolano male.
Penso che nostro Signor sarà dolente:
“Dove sono finiti i discorsi sull’ambiente?
Non bastano i piromani e i delinquenti,
si mettono d’impegno anche i credenti?
Nostro Padre, che del Mondo è il Gran Creatore,
disse ad Adamo: ‘ Della Natura sii il signore
soggiogandola con la mente che ti ho dato
e non esserne il distruttor sconsiderato.’
Un albero, pesate le parole,
trasforma l’energia che vien dal sole.
Dà ossigeno a questa povera terra
e fa calar pur l’effetto serra.
Se l’energia non viene trasformata
nella fotosintesi, così viene chiamata,
se ne andrà a spasso per il mondo
mutandosi in qualcosa di iracondo.
Il poco verde e il troppo inquinamento,
sono le cause che affliggono al momento
e sapete quali son le conclusioni?
Il troppo caldo, uragani ed alluvioni!”
I ghiacci ai poli si vanno ritirando,
mentre i deserti si stanno dilatando;
carestia siccità fin della vita:
la natura sembra sia impazzita.”
Ogni tanto si riuniscono i sapienti,
fanno discorsi spesso inconcludenti,
che si concludon sempre in abbuffata,
tanto è Pantalon che l’ha pagata!
Intanto in America, nell’Africa vicina
Senza contar l’Europa, l’Asia e Cina,
da tempo ogni foresta è depredata
e non verrà mai più ripristinata.
La prego Santo Padre per quest’anno,
dia il buono esempio per fermare il danno:
nella Piazza a posto dell’albero morente
lasci il Presepio a confortar la gente.
Se fossi io, mi creda Santità,
a fare questo gesto di bontà
siccome verso me pochi hanno stima
si continuerà a tagliar peggio di prima.
Il Suo Esempio invece farà molto rumore.
Verrà considerato atto d’amore.
Molti lo riterranno assai corretto
e chiuderanno l’ascia in un cassetto.
Cagliari – Ricordo
Da Via Ottone Bacaredda.
Posto ad oriente
giù dal terzo piano
c’è un campo giallo
che frinir si sente.
Poi messo lì
si vede un po’ sfuggente
Il monte Urpino
dall’aspetto arcano.
E dal balcone
posto ad occidente
al rosso sole
che lento si tramonta,
vedo il castello
che bruno si racconta
le gesta eroiche
di passata gente.
E dentro casa
appare Il mio lettino
coi primi sogni.
di piccolo bambino.
Illuminata
da una fioca luce
c’è la mia mamma
che serena cuce.
Pozzanghere
Come pozzanghere siam nel mondo intero
d’acqua purissima giù dal ciel venute
a bianca terra o col fango nero
in maniera diversa al suol mesciute.
Il soffiar d’ogni brezza ci commuove,
con le stelle o col sol siam oro e argento
ma se la ruota d’un carro ci sommuove
ci intorbidiamo in un sol momento.
Se il sole e il vento con il lor passare
ci asciugheranno torneremo ai cieli.
Saremo amiche al sol nel tramontare
stenderemo nelle albe i nostri veli.
La nostra polvere di cui agli Evangeli
sparsa dai venti un dì potrà tornare
qui sulla terra a far fiorir gli steli.
La poesia
Nello scriver poesia sai che ti dico
deve piacere al tuo peggior nemico.
E non tentar di far delle bravate
incollando parole ricercate.
Non pascolar mai dentro quel gregge
che non fa mai capir quanto si legge.
Allora fatti sempre una ragione
non dar fatica nella comprensione.
Inoltre bada bene all’armonia
che nel comporre versi sempre sia.
Non guasta mai, lo dico ad onor del vero,
mettere dentro un poco di mistero.
Ricorda che il suscitare una emozione
lo scopo sia della tua composizione,
che se sarà sincera e appassionata
verrà da molti sempre ricordata.
Infine concludendo in brevità
che nelle tue opere vi sia omogeneità.
…………………………………………………
Sento una voce. “Fatti i c…i tuoi “.
Scusa ho capito, scrivi ciò che vuoi.
Sceneggiata napoletana
Quest’oggi con la mente riposata, facciamo qualche cosa di speciale,
non il solito film demenziale, andiamo ‘mo’ a veder la sceneggiata.
Un tuffo nel folklore
Splendore è un nome che conquista, ma il teatro di splendore non ha niente,
sulla facciata messa un po’ cadente, nomi di attori e attrici in bellavista.
Da anni sono sempre gli stessi
Sono gli anni sessanta o giù di lì: “Lacreme napulitane” è la canzone
che sarà oggetto dell’esternazione, che in genere comincia a mezzodì.
Le trame sono tutte simili
E nella sala c’è parecchia gente, che s’è portata appresso da mangiare;
un’orchestrina si mette poi a provare, chiunque parla e lo fa fortemente.
Un fracasso infernale
S’apre il sipario la musica si sente, e gli attori iniziano il cimento:
La storia parla di un non tradimento, fatto da donna con un malamente.
La signora è stata costretta, ma il marito non lo sa.
La donna ha per figlio una creatura, ed il marito che scopre l’inganno
In un duello ferisce quel malanno: Pensa d’averlo ucciso e sfugge alla cattura.
Come avrà fatto mai?
Lascia la vecchia madre ed il bambino ed in America gli tocca d’emigrare.
Due comici cacagli nel parlare, strappano alla gente qualche risolino.
Lacrime e sorrisi
La partecipazione del pubblico si infiamma, in modo che è del tutto sorprendente,
con improperi contro il malamente, lacrime al figlio e alla vecchia mamma.
Che strilla come un’ossessa: O figlio mio!
E ‘Natale e l’emigrante dalla sua dimora, scrive alla madre una lettera accorata.
Anche se non l’ha ancora perdonata: “Facitila tornà quella signora”
Lei ritorna e chiede perdono: tutto sommato è innocente
La gente piange perché sa alla verità. La ferita al guappo era cosa e niente:
sarà ucciso da un altro malamente, per punirlo di una certa infamità.
Così la verità viene a galla
Adesso il nostro eroe può ritornare. Si stringe la famiglia in un abbraccio.
come se fosse stretta dentro un laccio, che non la blocca certo dal cantare.
Musica e canzoni ad altissimo volume. Baci abbracci. Applausi a non finire.
(Non vi nascondo che anche noi ci siamo un po’ commossi) Italo Rappazzo
Le mandorle amare
Dal cesto dei molti rimpianti
ridanno col loro sapore
le piccole mandorle amare
un fremito a questo mio cuore.
Ricordi di volti e parole
tornati da un mondo di blu,
profumo di mandorle amare
di un tempo che ormai non c’è più.
Chiarore
Stanotte la luna
ha soffermato il suo sguardo
sull’antro di Dionisio.
Lo stormir lieve di fronde
è sommesso coro
a visione notturna.
L’eco di remoti passi,
che si vanno spegnendo,
adagia pensieri
sulle passate stagioni
che non tornano più.
La Latomia dei Cappuccini
Siracusa
E nell’inverno quando oscura il cielo
e la notte l’avvolge celermente,
sulla città cala un triste velo
che riporta l’antico nella mente.
Nelle cave di pietra latomia
si aggirano figura evanescenti
che si dolgono per loro prigionia;
sono emaciati e dai volti dolenti.
Ma le parole sono come il vento
s’alzano in alto verso il cielo terso,
cantano le loro storie di guerrieri,
che si tramuta presto in un lamento.
È nel ricordo l’antico epico verso
narrante storie degli eroi di ieri.
Rimembranze
Rimembranze
bisbigliavano
sulla piana.
Leggere voci
di fuggevoli ombre,
stese come un infinito
manto.
“Aspetta, aspetta,
sta arrivando”,
sussurravano in coro.
….
Tacquero l’ombre
nell’udire
dall’orizzonte
il tuono.
‘A praneta.
Solo quando, nelle scuole medie, l’occhialuta professoressa di lettere – allora ci insegnava italiano, latino, storia e geografia, adesso c’è una professoressa per ogni materia – cominciò a leggere,la poesia di Giovanni Pascoli, dopo averci zittiti con una severa guardata al di sopra degli occhiali, capii che quella che noi ragazzi chiamavamo ‘a praneta in italiano si chiamava aquilone.
La poesia era molto bella con un finale commovente. La professoressa ci diceva anche che il poeta l’aveva scritta quando ai primi del novecento faceva il professore all’Università di Messina. Era stato ispirato nel ricordo dall’atmosfera soleggiata che solo quelle belle giornate d’inizio primavera sanno dare dalle nostre parti. Questa poesia entrò nel mio bagaglio culturale come la Cavallina storna, Pianto antico, Settembre andiamo, nonché il primo canto dell’Iliade: Cantami o diva del Pelide Achille, parafrasato da noi ragazzi come il peloso Achille, con tutto quel che segue, comprese le tenzoni a colpi di riga fra Greci e Troiani nel cortile della scuola; e tante altre cose, indimenticabili come la declinazioni dei verbi in latino. E si perché a quei tempi si mandavano a memoria le poesie e anche il resto, come ad esempio la tabelline, digerite con il relativo coro, in quanto, così ci dicevano continuamente citando Dante : …. Non fa scienza sanza lo ritenere avere inteso. E forse avevano ragione loro e Dante.
Torniamo alla nostra praneta, la cui etimologia ricorda vagamente la parola pianeta, che per noi ragazzi rappresentava il massimo della goduria, accoppiando a quelle che erano le conoscenze tecnologiche un spunto di magica fantasia. Del resto cosa c’era di più bello che vedere naso in su, quel rettangolo colorato librarsi nell’azzurro del cielo, messaggero di quelli che erano i sogni frutto della nostra beata innocenza; e soprattutto vedere per aria qualcosa di pacifico dopo che durante la guerra avevamo sentito rombare sulle nostre teste, preannunziato dal lugubre ululato delle sirene, altre macchine volanti che con ci avevano risparmiato i loro fragorosi regali.
Cosa era necessario avere per costruire questo fragile uccello? che fra le altre cose aveva reso famoso un certo Beniamino Franklin, così come mi aveva raccontato il mio papà. Un americano che aveva così studiato la natura del fulmine, la cui scarica elettrica aveva fatto arroventare una chiave messa in serie al filo, che doveva essere di metallo; e poi come s’era fidato, che noi quando c’era un temporale di quelli buoni, con tutte le sue fragorose pirotecnie, ci rifugiavamo ragazzini tremebondi sotto la protettrice ala materna, Mah!
Allora per prima cosa ci voleva della carta velina colorata non troppo sottile – una volta s’era provata la carta di giornale ed era stato un mezzo fallimento – in cartoleria vendevano quella adatta all’uopo, costava poche lire, che noi ragazzi racimolavamo come regalia nei giorni di festa o come cresta di qualche commissione nel vicino negozio di don Gino e poi una canna, della farina, ed un ghiommarozzo ( gomitolo) di spago: quello sottile e robusto, del giusto peso.
Si poneva il quadrato di carta su un piano; la canna si spaccava e si lavorava con il coltello in modo da ottenerne delle stecche sottili, una della lunghezza di una diagonale del quadrato e l’altra un po’ più lunga ai cui capi si fissava uno spago in maniera tale da fare una sorta di arco. Con la canna bisognava stare attenti, almeno così si diceva, infatti se ci si feriva si rischiava un’infezione. Le due canne venivano posate perpendicolarmente in modo chi i loro vertici coincidessero con gli spigoli del quadrato. Precedentemente s’era fatta la colla di farina, che era stata abilmente sottratta dalla dispensa della mamma, approfittando di un suo attimo di distrazione.
Si miscelava la farina con l’acqua, nella quantità giusta, e poi si metteva sul fuoco del fornello a carbone – a quei tempi ancora il gas in bombola pibigas doveva arrivare; dopo un po’ di bollitura veniva fuori una colla formidabile alla quale io aggiungevo delle gocce di insetticida ddt, all’epoca ancora non messo al bando, che aveva lo scopo di impedire alle girovaganti moschitte di deporre uova trasformando dopo qualche giorno i residui di colla in un asilo infantile di allegri moscerini.
Si passava quindi a fissare con dei rettangolini di carta incollata le stecche al quadrato di carta velina. Quindi si costruivano le tre code due messe alle estremità dell’archetto e una, la più lunga, all’altra estremità di poppa il tutto per dare stabilità al costrutto. Queste code potevano essere fatte anche a catenella, ma il lavoro risultava più lungo e non valeva la pena perdere del tempo quando c’era l’ansia di vedere volare quella nostra creatura.
All’incrocio fra le due canne si praticavano due fori a cavallo: servivano per far passare un filo la cui altra estremità veniva fissata in coda. A questo filo veniva fissato un capo del ghiommarozzo di spago.
Dopo che ci si era assicurati che la colla avesse fatto presa. Si partiva tutti in allegra comitiva verso il campo dietro casa. Se c’è una cosa che a Messina non manca mai è il vento, che è si accoppia per tradizione al pesce stocco ed ad un’altra cosa che non nomino per amor di patria.
Quindi si prendeva posizione: un primo bambino, spalle al vento, teneva ‘a praneta, il pilota, che era quello che aveva messo i materiali per la costruzione, svolgeva lo spago più rapidamente possibile facendo una corsa in retro marcia, e badando bene a non ruzzolare per terra incespicando nell’immancabile mazzacane. Infatti doveva essere lui a tenere il filo regolando la quota alla quale doveva portarsi la praneta.
L’aquilone veniva liberato, allora per magia si sollevava da terra sorretto dal vento e cominciava a guadagnare in altezza fra le esclamazioni giocose di tutta la comitiva. E se era ben costruito si teneva diritto verso l’alto, a parecchi metri d’altezza: una meraviglia a vedersi.
Però a volte il bel gioco durava poco, forse Eolo, di omerica rimembranza, invidioso di tanta felicità ti mandava un mulinello di vento, che faceva roteare come impazzita la povera praneta. C’era allora da recuperare rapidamente il filo riavvolgendo il ghiommarozzo. Ma quel perfido non se la dava per vinta e cosi quella puntava decisamente verso il basso andandosi a fracassare a terra come un esperimento della NASA mal riuscito, fra la cocente delusione dei convenuti.
Ma se c’era rimasto ancora qualche foglio di carta il lancio doveva essere ripetuto, recuperando il recuperabile. Nella certezza che ci sarebbe stata qualche volta che Il dispettoso Eolo aveva qualcos’altro da fare e ci avrebbe mandato, mosso da pietà, qualcuna delle sue delicate figliole; e il più delle volte il ritentare era coronato da successo.
Una pervicacia infantile che tutto sommato era una lezione di vita.