Jacopo Ferri - Poesie

Il ladro di sogni

 

Un ladro di sogni

è entrato in casa sta notte,

ne ha fatto un pacchetto

e se li è portati via.

 

Con quelli belli e gioiosi

ha realizzato una giacca,

per ripararsi dal freddo

nelle giornate d’autunno;

un berretto; dei guanti

ed una sciarpa di lana,

per resistere meglio

quando sorge l’inverno.

 

Quelli vecchi li ha presi,

li ha sgrullati a dovere

e ne ha fatto due scarpe,

per andare a lontano:

un po’ logore e spente,

come il tempo che passa,

resistenti, robuste

e nonostante alla mano.

 

Poi ha cercato fra tanti,

quelli più fantasiosi

e ha costruito un ombrello

per la pioggia ed il sole;

altra sorte è toccata

a quelli noiosi di cui

ha fatto una colla

per il tacco e le suole.

 

Strano destino

per quelli infantili,

che ha compresso tra loro

formando un cuscino:

morbidi e vivi

come piume nel vento,

leggeri e innocenti

come ogni bambino.

 

Poi ha guardato un po’ meglio

fra quel che era rimasto

ed ha trovati attaccati

la paura e l’amore;

e ha provato, davvero,

a staccarli di netto,

con i denti, le mani,

per minuti! Per ore!

 

Atterrito e sconfitto,

innervosito e un po’ affranto

è tornato nel luogo

da cui era venuto,

e rubato il coraggio

a qualche giovane stanco,

ne ha fatto una lama,

una rosa e uno scudo.

 

Con la lama ha diviso

i due amanti gelosi,

dando ad uno riparo

per sedare il terrore;

e mentre l’altro piangeva

e disperava da solo

ha allungato la mano

regalandogli il fiore.

 

Con amore e paura,

finalmente lontani

ha forgiato un diario

per segnare il cammino;

e con quel che restava

di tutti i sogni sciupati,

costruito una penna

per sfuggire al mattino.

 


 

L’omo e er fiore

 

Er ginocchio che s’appoggia sopra ar grano,

chi è lui? Solo n’omo che more;

co’ er vento che lo spettina d’un lato

e er corpo che già perde er suo calore.

 

La vista je se appanna,

ma vorrebbe ancora ’n po’ de tempo

pe’ ’n saluto a ’n monno marcio,

co na sciabola ner petto.

 

Ma ‘a forza già ‘o lascia

e ‘ntravede bianche soglie,

de quer posto che l’aspetta

e ’n cui più ‘nce se confonne.

 

Sente er peso delle spalle;

a faccia persa dentro ar fango,

e move l’occhi pe’ cerca,

l’amore ancora in uno sguardo.

 

Ma trova solo sangue e ferro

e cumuli de morti:

<< Mio Dio, che triste posto,

per annassene quest’oggi! >>.

 

Ma co ancora ’n po’ de forza,

se sorregge su ‘na spalla

e striscia, rotola, ribarta,

s’allontana quer che basta.

 

Pe’ nun senti le grida de metallo

e l’odio che l’acceca,

a st’umanità beffarda, che adesso

all’occhi je fa pena.

 

E ripensa alla sua casa,

ar posto da dove lui veniva;

ndo giocava da bambino,

ar primo amore su ‘na riva.

 

<< È così che devo annà? >>

Se sussurra tra ‘e labbra:

<< Co ’n po’ d’amaro ne’a bocca,

pe’ ‘sta vita che me lascia? >>.

 

E mo er cielo se fa scuro

‘e pupille più pesanti,

ma cerca ancora co’ lo sguardo

quell’amore che je basti.

 

Ma trova sempre poco e gnente,

appena n’fiore solamente,

che sembra forse che l’osservi,

mentre er core batte a stenti.

 

<< È l’amore che cercavo! >> afferma

e er cielo je sorride:

<< Pensi che questa sia ‘a fine? >>

Risponne a voce ne’e colline:

 

<< Penso che l’omo sia bugiardo,

amico mio, e pure meschino.

M’ha detto che c’era solo l’odio

in ogni passo der cammino.

 

E pure adesso me illudevo,

che er bene n’esistesse,

ma sto fiore qua davanti,

m’ha ridato ‘e certezze.

 

E mo posso pure annà,

ma prima lascia che me spogli

co n’urtimo respiro

de tutto er male dei ricordi >>.

 

Così, lo sguardo je se abbassa;

li pormoni je se sgonfiano,

ma er sorriso nun lo lascia

mentre i venti je risponnono.

 

<< Se capiste che è l’amore

ciò che anima la vita,

ne godreste più a ogni passo,

fino a che nun è finita.

 

Ma troppo spesso ve scordate,

d’abbracciavve co calore.

Eppure basta così poco:

aprì l’occhi e guarda’ n’fiore >>.

 


 

Figlio del tuono

a Tashunka Witko (Cavallo Pazzo), il più coraggioso dei guerrieri.

 

Candide stelle sopra un cumulo d’erba,

il silenzio che parla alla tua nuda terra.

Grida e leggende ha invocato la sorte,

con il tutto che termina in un canto di morte.

 

I resti che giacciono, su cui regna il mistero,

come hai vegliato sui fiumi, con il tuo prode destriero.

Ma ormai troppa gente ha scordato il passato,

ed ha mancato rispetto a chi forte è caduto.

 

E passarono gli anni, ma quella terra sottratta

passò in mano ad altri, grazie ad un pezzo di carta,

a chi ha ingannato, mentito, punto come una spina,

ma “non si vende la terra su cui la gente cammina”.

 

Libertà, antico segno d’una nazione distrutta,

divorata da un mostro senza pelle dipinta.

che ha mangiato la terra e ogni sorgente, ormai asciutta,

ed ha bruciato le penne di cui la testa era cinta.

 

Lacrime, flebile suono della gente che piange,

dei villaggi straziati, delle terre alle fiamme;

di chi ha corso tra il mondo, cercando i resti di un branco,

ed ha invocato l’aiuto di quel Bufalo Bianco.

 

Dalle tende, alle case, alle mura in cemento;

senza più fuoco al centro o capelli nel vento,

da un ginocchio ferito, che riposa ormai livido,

sorvegliato dal cielo ed il suo Grande Spirito.

 

E chi sono io oggi, per cantare i ricordi,

di chi ha vissuto sui monti e parlato con gli orsi?

E chi sono io oggi, per narrare le furie,

di chi ha lottato davvero per quelle Grandi Pianure.

 

Non basta uno scritto e pochi pezzi di stracci,

o diari ammaccati chiusi dentro cassetti,

per parlar di chi ha urlato ad un popolo sordo,

che la ricchezza n’è sotto, ma nella terra che ha intorno.

 

Dai guerrieri del nord, il cui capo più saggio,

ha condotto le file fino al fiume di polvere,

ai fratelli venuti dalle terre più calde,

che per primi la piana ha veduto soccombere,

 

A chi ha unito famiglie e memorie diverse,

e ballato nel sogno di chi perse, ma vinse.

A chi il cielo ha prescelto ed ha vissuto da uomo,

cavalcando tra valli, come il Figlio del Tuono.

 

E tra timidi inganni la sua sorte lo ha accolto,

tra le bracci di quelli che non lo hanno respinto.

Sotto terra nel posto dove il sogno s’è spento,

dove batte ancor oggi il suo volto dipinto.

 


 

Un grillo su uno stelo

 

Cala il sole e tutto torna quieto

così il canto degli uccelli

lascia spazio alle cicale.

Il cielo torna opaco,

a stento visibile

agli occhi dei mortali,

mentre il giorno si disperde

in un oceano di colori.

 

Un cuore che batte,

mi sembra di sentirlo:

è il suo, o forse il mio.

La lancia appesantita

si nasconde,

resta adagio

lentamente s’allontana

e si perde nella notte.

 

Un corvo resta fermo,

sussurrando all’imbrunire

le fatiche che ha trascorso,

ma ora appollaiato, tace.

I fiori si raccolgono

si chiudono in silenzio;

affogano i rumori,

le fatiche, le illusioni.

 

Torna paca la natura,

i suoi occhi

ed io con lei.

Che la osservo da vicino

come un grillo su un stelo.

 


 

Cercando un senso

 

Osservo un mondo sommerso,

sottoterra,

sotto il cielo.

Animali,

vicini e lontani, intrappolati,

innamorati dei loro legami,

dipendenti dai loro sogni,

dalle loro aspettative,

insieme e soli.

 

Parole vuote,

piene, di speranza,

di resa.

Sono quel che dicono

più di quel che fanno,

o almeno lo credono,

lo sperano.

 

In silenzio,

resto in ascolto.

Li vedo alternarsi,

conoscersi, intrattenersi,

intrecciarsi, dividersi;

animali inconsapevoli, ma coscienti,

buoni, ma persi,

vivi, ma spenti.

 

Sguardi diversi,

schivi, intensi,

profondi, delusi.

Occhi chiari come il mare,

scuri come la terra.

Luminosi e bui, soli e lune.

Pelli diverse, ma stessi cuori.

Vestiti diversi, ma stesse illusioni.

Respirano e pensano,

camminano e sperano.

Amano ed odiano,

passione e dolore.

 

Chi sono loro?

E chi sono io?

Che li guardo perplesso,

accarezzando con gli occhi la vita del treno.

Entrano ed escono,

vanno e ritornano,

presi da sé come io sono preso dal mondo.

Loro in me,

me in loro.

Corpi in balìa dell’esistenza,

domande in cerca di risposta,

anime incomplete che aspirano all’amore.

Cercando un senso.

 


 

Brahman

 

Come un sibilo tra il vento,

cresce, si espande, contorce ed appassisce.

Come nuvole sale e scende,

si disperde e s’accumula, va via e ritorna,

cambia colore e cambia forma.

Tra gli alberi s’annida,

ne riveste i rami e ne accarezza la corteccia;

ne nutre la linfa e ne ricopre le radici,

avvinghiandosi alla resina e alle foglie.

Posa sul becco d’un uccello,

salta, prende il volo, si libra tra correnti,

giocando nel cielo

come pesci nel mare.

Torna a circolare nella brezza,

si posa al suolo, bagna la terra,

sfiora la rugiada dell’erba, si eleva e si allontana.

Raggiunge pianure e foreste,

colline e valli;

ora si perde tra la neve dei monti,

ora tra la sabbia del deserto.

Accarezza allo stesso modo il salice ed il pino,

i latifogli e le conifere,

le alghe dell’oceano e le ginestre.

Rinfresca il manto dei leoni nell’estati secche

e scalda il cuore dell’orsi

negl’inverni rigidi.

Nutre gli squali e le balene,

come i cervi e gli stambecchi.

È l’abbraccio caldo dell’unione

e quello freddo dell’addio,

lo sguardo muto tra le stelle

che risplende nella notte.

 

Conosce il mondo in mille modi

perché in mille modi è il mondo,

lasciando avvolto dentro sé

lo stesso amore d’ogni cosa.

 


 

Scrivere per scrivere

 

Se chiudo gli occhi dove sono?

Scrivere per scrivere, andare per andare.

Scrivere come camminare, come posso scrivere mentre cammino?

Sono lontano da ciò che è fuori.

Queste mura dividono e non solo me.

Anche voi, anche chi non se ne accorge.

Dove sono?

Fammi piangere, fammi sognare.

Senza senso, scorro, sperando di definire

in questo divenire il mio subbuglio.

Cerco la canzone giusta, quella che più mi sciolga,

ma non arriva mai.

Ma come puoi lasciarti andare se le mani si aggrappano ai margini

e le note non sembrano più che semplici note?

Quale maledizione è mai questa?

Di non vivere con la coppa piena fino all’orlo,

accontentandosi di un piatto pieno, ma sciapo.

Continuo a camminare, mentre scrivo, penso.

Tornerò. Come ieri, domani, come oggi, mai.

Esplodere, sgorgare ai limiti del possibile;

essere o vivere.

Ma taccio.

E più che taccio, prego,

perché altro non posso fare, se non pregare.

E vorrei essere perlomeno come pioggia,

quando il cielo più non soffre

ed ogni goccia è un sollievo

perché è anima che scorre e non ristagna.

E come potete vivere, voi, con questi confini?

Se ogni giorno in cui un muro mi divide è un giorno in cui muoio.

Come fate, voi, ad elevare muri, sperando di ritrovare voi stessi

costruendo le vostre trappole,

con le vostre stesse mani?

Liberi non lo siete, ma lo siete stati:

liberi di piangere, di vivere e morire.

Ed oggi cosa siete? Se non un cielo grigio

che non riesce nemmeno a piangere.

Ed io come voi, dentro spesse mura,

in cui respiro a malapena.

 


 

Il canto è spezzato

 

Hai smesso di sentirmi,

ora il canto è spezzato

non c’è più l’eco che risponde

oltre l’orizzonte cieco.

Sfumate sono le nuvole

nell’acqua fredda del fiume.

L’altra sponda qui tace,

il canto è spezzato.

 

Ho continuato a suonare

nella coltre di stelle,

nella speranza di lasciare

un messaggio sbiadito,

ma resta il silenzio

a disegnare il paesaggio

ed uno stormo di sogni,

il canto è spezzato.

 

Piange la valle,

ammansita e quieta,

per la melodia

che le è stata rubata.

Perdono foglie i rami

secchi e morenti,

negli autunni campestri

che ti portano via.

 


 

Notti di piena

 

Come un lupo che ulula,

grido nel cielo, nelle notti di piena.

In cui sorgi in me all’orizzonte

come un astro di luce,

e attraversi la volta

come percorri i pensieri.

A passo lento e leggero

senza rumore, né scia.

 


 

Nascere e morire

 

Oggi risplende la mia anima pura,

dentro questo dolore infinito;

affianco alla smania di questi pianti d’amore

che anche di giorno, mi bagnano il viso.

 

Mi perdo nel tempo, nel confine del mondo,

nel corpo dei sogni, dentro un mare impetuoso.

Piango e cammino in un bosco d’autunno,

con le foglie sui piedi che non vanno a ritroso.

 

Cielo silente, triste e piovoso,

mi guardi dall’alto mentre cade la neve.

Rispondi in silenzio al dolore d’un uomo

che in ginocchio domanda grazie per le sue pene.

 

Fredda è la terra, la sabbia ed il vento,

freddo il sentiero ovunque io lo tocchi;

fredda la notte che circonda la valle,

fredde le gocce che mi bagnano gli occhi.

 

Liriche intense, nelle pagine estinte,

di una vita che va ed un’altra che viene.

Lacrime dense, nelle crepe del cuore,

che lo tagliano netto come fossero vene.

 

Parole e sussurri per curar le ferite

timide impronte in ogni giorno che viene.

Coltivo ricordi alle mie spalle ricurve,

per ogni passo che lascio ce n’è un’altro che segue.

 

Nascono fiori per ogni frammento

che cade deviando il mio cammino futuro;

peso ogni scelta con la bussola in mano

e cambio il tratto più incerto, per quello più puro.

 

Dilato la nebbia, colmando pagine bianche,

dando spazio al tramonto in cui si tuffa il mio cuore.

Saluto piangendo un altro pezzo che affonda,

tra un uomo che nasce ed un altro che muore.