Jacopo Fontani - Poesie e Racconti

OLTRE

 

Oltre non cedo,

né lo spazio ritrovato dell’ infanzia né il tempo compiuto di un sospiro,

mi accordo con sospetto

 al sogno

in agguato e basito respingo in controluce

questo mesto pensiero

E l’ape bandisce la miseria dal presente:

Non ci sono più trifogli ed ogni istante insegue la sua eterna fragilità;

il mio prato ora vive trasposto

ammollato da rugiada ubertosa; saprà  l ape inseguire il deserto dei tartari e non tarderà a trovare

l’apice della sua essenza

in quell l’umanità tradita

nella concessione di intenti

Teneri presentimenti

Angosce mal nutrite

Eppure preziosa rimane

la memoria di te

naufragata tra le onde di un istinto di pace

Amare è dimenticare ogni luogo esistito e traghettare il  sospetto di sé sulla temerarietà dell’altro

Perché amare è perdersi

E ritrovarsi sempre

Oltre lo spazio di quel tempo compiuto in un momento


LA COLOMBA

 

Quando il sogno fa posto al sospetto

La mia agonia diventa diletto

Nel tuo sorriso scorgo l’abisso

rivedo, smarrisco,

la certezza che disseta

e intuisco

quel posto in quel luogo

del tuo sogno

che completa:

Il mio bisogno di te

Di un mezzo perché

Di quel cliché

che grida indisturbato

ogni attitudine possibile,

la mia quotidianità ….

che bella la colomba irraggiungibile!


TEMPI DIVERSI

 

Ora che sento il non detto

che odo il rumore di forre invase da acque

ora che dà scampo il tempo

ora soltanto vedo danzare i tuoi occhi;

 

“ora” non esisti
disgiunti e ritirati sembriamo due falène in mistica apprensione:

toccare le tue falangi, respirare un accordo di tempo,

sentire che sei interamente mia

vuol dire soltanto sfiorarti.

 

Aspra la mia euforbia evadi da te per cercarmi…

Ma ora tu sei me ed io finalmente sono “ora”;

amare è scandire l’eternamente presente dell’altro

senza mai lasciare a intendere che è già ieri!


TIGRE LUNATICA 

 

Tigre senza terra che scappasti e fermasti con gli artigli distratti

questo sogno disposto a lasciarci abbacinati;

tigre non essere lesta,

graffia e accarezza il mio bisogno di te,

concedimi un tocco regalami un fiocco di neve…dì tigre ché desta ti sei in equilibrio danzante sulla sfera lunare,

languida e morbida sei nel mio mare il coraggio d’amore, il bisbiglio d’amare che si chiama dolore…o il mio gioco per te?



AUTUNNO

 

…ritornerai

perché il vento soltanto si concede alla fuga

il tuo respiro è vento di follie su cui vorre imbarcarmi

soffio tragico e innocente;

 

così è la foglia mai doma, attende il respiro del mondo

angosciata da tutto

ma è proprio il niente che se la porta via…

la foglia domata arresta la fuga, da niente da tutto

vorrebbe soltanto toccare la vita

la mia?

Potrebbe davvero

succedere  

che io voli…

 

…su quel niente

È tutta la mia vita…

                   

                      Ritornerai


PORTULACA

 

A tratti, quasi d’un fiato, mi ritrovo periclitante

sfido le nubi e la loro poesia, così affabulatorie sembrano,

tènere incognite nebulizzate dal niente

accendere per un incanto il tutto;

la mia processione di idee che spspendono un presente

vorrei eternarmi per meglio comprendere

cosa non so

ma so che non c’è cosa

che di sola cosa muoia,

tutti abbiamo bisogno di un alibi, di una tenera caparbietà

che sappia coraggiosa avventurarsi nell’infinito…sorprenderci!

E l’infinito cos’è se non l’altro nome di TE

TE, sei un’articolazione di possibilità

Una giostra dirompente dei miei sensi, che una volte

Dico una volta soltanto accetta di involarsi da me

E la natura

quando si fa carne di una moltitudine

se non quando è IO

IO

testimone di questi noi

li ospiterei tutti se potessi fino in fondo intercedere e deliberare

di non esistere perché

semplicemente essere

me stesso…chissà?

…io io io mi atterrisce

Mi sconfigge…è il feeling perfetto di ogni illusione di umanità

IO che maschera sublime e stupida insieme

così vera e goffamente apprezzata,

sgretola ogni certezza nella finzione che assicura…

la certezza di essere finalmente un IO;

Poi vedo e sento la voce rapita di una portulaca

Recita piano un declivio amoroso

non sembra arretrare quel suono, si fa distinto

preciso tagliente:

 

“io vivo per questo ha un suono IO”


TANGO ARRABALLERO

 

Vorrei dei tuoi occhi distillare il senso

preciso del presente…

trafugare la gente che sognasti…

desiderosa di pensarti

facesti opera di ricamo sulla mente

per scordare ciò che vista in coscienza ti mise

e poi confusamente

che splendore

tornasti quella fosti…eternamente cieca

vivente

impudica danzante e scossa

certamente da un anelito desideroso…

così imparasti a corteggiare e a importunare l’assente…amore…muore…amore…

è un’emozione il tuo candore!


Il paese di Vattipiùinlà

 

 

Nel paese di Vattipiùinlà, dentro la torre con l’orologio che segnava un tempo senza mossa, viveva Gioèle un bambino piuttosto cresciuto per l’età che aveva – poco più di 6 anni – , bello e pasciuto e rutilante in volto quando si alzava dal suo letto di castagno sbatteva i lunghi riccioli corvini contro le travi del solaio di copertura della camera, portava i pantaloni lunghi di velluto scuro color prugna bruciata con sopra ricamate rose appena sbocciate che spiccavano tanto dal fondo a motivo  di tartan scozzese che veniva voglia di coglierle davvero, di lui colpiva il sorriso profondo imperlato da una teoria di denti bianchi che facevano invidia al candore dello zucchero filato; aveva sempre voglia di fantasticare e corrispondere pensieri di cortesia e anche la premura che metteva nel curare il rosmarino che amava assiepare sopra il davanzale della finestra, dalla quale si effondeva un intenso profumo di rugiada di mare, sembrava essere per questo gendarme della buona sorte una naturale inclinazione, come se da sempre avesse ospitato arbusti e rinunciando ai trastulli d’infanzia avesse prediletto studi di arte topiaria. In questi casi si dice avere il pollice verde e di sicuro Gioèle lo aveva perché amava veramente le sue piante; nel vederle crescere aumentava in lui la voglia di spiccare più in alto di sempre, voleva, questo gli balenava in testa, diventare principe di un grande stato, piccolo non gli sarebbe andato a genio, avrebbe avuto bisogno di spazio per il suo giardino botanico che doveva superare in bellezza quello di Padova.

Si sa i bambini ne fanno di questi strani sogni – ma poi non strani più di tanto se in molti li fanno! – ma il suo sogno godeva di una particolarità: lui sarebbe diventato sicuramente un arconte, un conte con arcobaleno in testa, un magnifico barone alla moda pronto a indossare gli abiti più trendy e naturalmente costellati di fiori ma, ahimè, e questa è la novità, non sapeva ancora su quale contea, paese, borgo riunito o dirupo avrebbe accampato tale diritto o autorità di governariato.

Non importa, le gambe le sento forti e senza indolenzimenti, ho braccia possenti e ben tornite, di lineamenti gentili son dotato e una testa che farebbe invidia a un matematico di Harvard mi suggeriscono che fare di ciance proprio non debbo! Domani di prima ora, con l’alzarsi del giorno ma quanto basta a prevenire il gallo dal ricordare a tutti che il riposo è finito dipartirò lungo la via Romea, mi piace assai quella strada mezza campestre ma già lastricata, sembra fatta apposta per perdersi, e nell’avvicendare luoghi, paesaggi e presagi saprò tosto intuire quando fermarmi e fare del posto una reggia così come si conviene a un Re che poi sarei io, già il re dei re, o meglio: un re al quadrato!

 

Gioèle l’indomani, pavoneggiandosi in tale guisa, montò in groppa al suo destriero, il fedele Alcalde uno stallone senza rimorsi per le galoppate mai avute, e se ne dipartì dal paese. Alcalde, un cavallo nero dalla folta criniera bianca, vorticosa e senza soluzione di continuità, gli era stato donato dalla famigerata Dorotea, secondo alcuni principessa per altri figlia diseredata perché troppo convinta a non essere donna a tutti i costi, indossava una gualdrappa istoriata a losanghe di vati colori ma tendenti all’ambrato e ricamati di bianco piombo, i finimenti d’oro e argento terminavano con dei campanellini tintinnanti a ogni passo dell’animale, vederlo trottare era uno spettacolo da lasciare di stucco, una gran maraviglia! I nostri due intrepidi amici agghindati in siffatta maniera giunsero oltre il ponte del diavolo e attraversarono la foresta dai cipressi bianchi; passato a nuoto il lago dai mille gorgoglii si imbatterono in una creatura austera e senza ironia: la tigre Gilgamesh.

Questa, dall’alto della sua saggezza e dei suoi 300 kg li invitò a continuare recitando –così sembrava – un salmo: i sogni son pronti a tutto, anche a cambiare all’ultimo momento, se ci pensi troppo del sogno non rimane che il rimpianto di averne avuto uno, bisogna essere grandi prima di esserlo, perché da grandi non lo saremo più, e infine credo proprio che ogni sogno risenta dell’appetito della nostra intolleranza a esserci! –

Gioèle non capiva granché da simili farfugliamenti ma non poteva fare a meno di ammirare il manto striato a fuoco: una bellezza serica, un tappeto persiano di Arraz, sembrava che i peli della creatura fossero costantemente ricamati grazie all’ausilio di telai magici mossi da tessitrici, invisibili naturalmente e dotate di mani leggere simili a farfalle! La strada era lunga o così la credeva e la tigre che poi era un gatto se la filò con sussiego e da lontano il ruggito pardon il miagolio suggerirono al Nostro di rimettersi in cammino quanto prima. Di lì a poco non tardò a distinguere lo sciabordio di un fiume; era il rio Melmoso leggendario luogo di avvistamenti e incontri pancromatici.In effetti non tardarono a manifestarsi delle strane creature che si offrirono senza tanti indugi per una chiassosa e spensierata compagnia:  Falone il guru di quella congrega carnascialesca era un pesce dalla bocca enorme quasi simile a una benna all’interno della quale ospitava di tanto in tanto i suoi “intrepidi”, li apostrofava in tono ironico e un po’ balbettatante, vagabondi i quali avevano scambiato la mandibola per l’osteria del buen ritiro e cantando spesso generavano le proteste del vicinato; quelli dell’argine li chiamavano “FAB4”!

il signor pesce Ago della Gherardesca, in particolare, aveva più volte manifestato la propria disapprovazione per quella congrega rumorosa che smussava  il tempo con note dinamiche di jazz africano; ciò nonostante Falone troppo buono e permissivo, continuava a difenderli ché diceva – è bella la gioventù…o almeno questa lo è! –e mentre diceva questa litania continuava a balbettare e gli altri pesci a cantare e il “della Gherardesca” se ne sortiva fuori tutto paonazzo e imbestialito più di prima, e insomma vista l’ora tarda e lo stomaco piuttosto malconcio e indispettito Gioèle decise per l’opportunità di accordare a quelle strane creature parte del suo tempo prezioso insieme ad uno spuntino; lui tra non molto sarebbe stato Re e dopo tutto un re non si deve far mancare nulla!

Era la prima volta che Gioèle  degustava del buon vino rosso – era succo di ribes ma non diteglielo – seduto a un tavolo e per locanda la bocca di un pesce, anzi a dirla fino in fondo era la prima volta che assaggiava qualcosa di diverso dal suo solito latte e pavesini e sicuramente le patatine e la torta di cioccolato lo fecero più sensibile al mondo culinario; che bella poi quella lasagna farcita, e le scaloppine al marsala cotte con le alghe in umido e gli amici…non ne aveva mai avuti – condividere tempo e spazio con qualcuno, che invenzione stupenda l’ozio!- pensava – In un castello tutto solo cosa faccio? Queste creature devono diventare dei grandi attori, ne farò una compagnia teatrale e gli proporrò un contratto come apprendisti passatempo del Re con l’obbligo di recitare per il sottoscritto almeno una volta la mese una commedia , un musical anzi, con  l’incombenza di tralasciare ogni morale…mi sembra una buona idea, ci divertiremo tutti insieme e faremo qualcosa di grande e veramente inutile, l’arte…non vedo l’ora!

Così pensando predispose una bozza di precontratto, un’impegnativa più che altro, così da assicurarsi i diritti nonché l’esclusiva; un co.co.co dovrebbe andare e finì per convincerli tutti della bontà dell’operazione.

Riacquistate le forze il giorno seguente riprese il viaggio con i nuovi compagni, Falone e i pesci melmosi Frac, Smoking e Martingala, su per il fiume e controcorrente quindi arrivarono alla sorgente detta de le sette cascate, ne scapparono fuori con colpi di reni da fare invidia ad atleti olimpionici e subito dopo seguirono un sentiero abbastanza soleggiato e aperto a un cielo terso.

Camminavano senza interruzione: case, castelli, manieri diroccati, gualchiere, frantoi, mulini a vento, mura invalicabili di città; chi aveva il suo principe, chi il suo fattore, a volte rispondeva un villico preposto alla guardia della fattoria altre ancora il proprietario di turno; per ogni dove vi era un nome a sovrintenderne l’amministrazione, occupate anche le finestre degli abbaini da piccioni dispettosi che non volevano volare via.

Uffa! Brontolava Gioèle – ho fatto miglia e miglia e non riesco a trovare alcunché adeguato ai miei cliché,e miei sogni che fine faranno?…e poi: nemmeno un fazzoletto di terra, che ne so una zolla o mezzo metro quadro di cotica erbosa…ma si può andare avanti così?

Ehi Gio’ –Falone lo chiamava  brevemente temendo di dimenticare la domanda – ma al tuo paese chi governa?

Dove..? A Vattipiùinlà? Nessuno, perché al paese si nasce per non restare e andarsene subito via, ecco il motivo del suo nome…io sono rimasto perché non ci vedo e per me la parola Vattipiùinlà non ha proprio significato, più in là di cosa se  questo qua per me potrebbe essere già là, per chi non vede ogni luogo gode degli stessi pregiudizi di qualunque altro; Vattipiùinlà è l’odore di rosmarino, il solleticare continuo di foglie sottili simili a labbra di taffetà, ciò che ho fatto fin da piccolo è inseguire quello di cui solitamente si rifugge, il mondo dei pensieri desiderosi e desiderati di esserlo fino in fondo, senza sconti o sintesi di cattiveria, ho incontrato il mondo con gli altri io da me, l’io tatto, l’io olfatto, quello del gusto e del sentire…tutti questi io insieme forniscono buon materiale anche al quinto senso, quello lungimirante e tagliente della vista che a sua volta riempie i miei io di te…e poi non è forse il tempo l’invenzione della natura per impedire che tutto accada insieme e lo spazio parimenti l’invenzione della natura per impedire che tutto accada a me?

Ma certo – disse Martingala – sarai Re signore del paese da cui provieni, il re dei re perché non ti è concesso vederti tale, un re perfetto insomma capace solo di non esserci…e noi saremo…

I tuoi sudditi – aggiunse Smoking

Qui per servirla sua eminenza camminatrice senza ritegno per i piedi nostrani! – Protestò Frac per la stanchezza.

Avete ragione – proseguì Gioèle –abbiamo camminato tanto, e poi essere  re a casa mia è infondo la suggestione più preziosa che potessi considerare, è così scontato essere liberi dove non c’è passato pronto a farti la pelle, a scatenare scheletri nell’armadio…essere senza condizionamenti dove sempre ve ne sono stati sarà l’avventura più lusinghiera che mi potessi augurare e di conseguenza anche quella definitiva!

La storia arriva ha compimento con la congrega piena di piaghe e calli sotto i piedi che se ne ritorna da dove era partita, ammesso e non concesso che siano venuti da qualche parte della mente o  da qualche luogo.

La voce si sparse, il principe cieco si fece conoscere e amare ai quattro angoli del pianeta – che sono cinque considerando quello di casa mia: per uno dalla vista corta fu di ampie vedute perché oltretutto lui non guardava semplicemente ma vedeva le cose, ed è per la sua capacità di statista che nell’anno di nostro signore 1492 il paese di Vattipiùinlà contava, e le superava di gran lunga,  centomila anime e si ribattezzò in Eduflorea la città dal dolce odore di fiore proprio in onore e in odore di quel bel principe che sempre aveva amato la sua camera pervasa e inondata dall’odore di rosmarino.

Si può seguire una strada, un amore, un filo o le briciole di pane per non perdersi…l’odore è un inseguimento alla rovescia, è lui che cerca noi contattando la nostra curiosità;  bussa e dice – ci sei? – e inventa un nuovo modo per iniziare un viaggio, corteggiare un’aspettativa…nella vita – lo avrete oramai capito – ci vuole fiuto…

 

 

FINE

 

 

E GILGAMESH?

Qualcuno lo sentì blaterare ripetutamente:

 

…e di lontano soltanto un baffo mi lecco perché gli altri il vento se li coccola…miao…mi sembra di impazzire con questo senso di nausea che mi dà l’aria ingolfata e allora devo…miaooooo…stemperare il tempo e lo spazio in un colpo refrattario in un guizzo dentro un balzo che rintocca nei miei artigli e dico miaooooooooo; e subito penso se son gatto che me la batto perché questo miao mi rincorre e dice spesso sono un’eco del tuo misfatto, ti credi fiero alto e vero ma nel tuo miao io vedo solo il mio…riflesso, la mia utopia…e allora sento che quel mio altro non è che un …

Maramaooooo…che fatto strano…

…e di soppiatto non son più gatto…sono finalmente un altro

semplice e povero

distrattamente matto!


 NUT-ELLA

 

Grazioso è lo scorrere di odori che conduce – impertinente –  dove volevi: presso la disassata stamberga di colui che rivestito d’argilla non sapeva fra altro che recitare se stesso; e tu bambina incurante di tutto scopristi l’ambizione di spiccare il volo dentro la casetta di cioccolata!

Accipicchia, non trovo i miei colori, eppure lì avevo dismessi non più di due ore fa – Emanuela….manuelaaaa…rispondi su bambina! – eccola di nuovo con il suo vociare garrulo, mi mette i brividi solo a pensarlo che possa avere una voce così – sì ora vengo mamma … dammi un tempo almeno di “andante con brio” per finire le mie co… – E-M-A-N-U-E-L-A scendi immediatamenteeee! – miseria quanto fiato sprecato, e poi per cosa saltellare in strada e schivando le teorie di precipitazioni intestinali di piccioni più simili a caccia bombardieri imbucarsi nella boulangerie  -come la chiama lei! –  e una volta dentro dissimulare disattenzione e di nascosto da me infiltrarmi tra la fila e fare la mia richiesta –Vorrei una… baguette ben tostata rigirata secondo rotazioni euclidee e indorata tanto da richiamare i tordi in assenza di luce …; già così piccola e subito iniziata all’arte del farla franca, Franca non la zia naturalmente che poi anche lei aveva il suo bel da fare in quel di Sollicciano, ma franca per franca ovvero senza possibilità di passati pronti a venire a galla. Dimenticavo il mio nome è Emanuela della Vattelappesca, contessa dei marroni altrui o così mi piacerebbe diventare un giorno e guardate che se dico marroni con due R non è solo per scansare equivoci o malintesi o fare batture da  guitto di periferia né per inscenare qualche comizio pro Lega ma soprattutto perché il pediatra mi ha detto di sforzarmi ‘ché mi manca la..parietale, parancale…la surrenale ah ci sono la “vibrante alveolare” insomma mi manca qualcosa in bocca che le R scemano un po’, ecco diciamo che si ammosciano come i fiori di zucca in estate se lasciati fuori, ad asciugare da cosa non si è mai capito poi, e insomma la mia R o r ammosciata o come piace  a me ingentilita alla Cavour poi così male non sembra, e questo tono piemontese che mi dà credito è una bella novità, soprattutto se ostentato ai passanti e agli avventori che qua, antistante la cappella palatina, a parte MIIInchia e MAddonnamiasanta non dicono, tant’è ho pensato fossero addirittura i grani del rosario recitato – perché cos’altro è la religione se non una messa in scenografia dei nostri pregiudizi?! –  visto che indistintamente uno segue l’altro o l’altro l’uno e spesso è proprio il preposto della cappella che una volta contabilizzati i cespiti provenienti dal ticket d’ingresso al monumento pronuncia tutto di un botto : Miiinchia madonnamiasanta! – o Madonnammiasanta minchiiia, in questo caso il minchia viene 5 secondi dopo e procede ad libitum, e  subito guardingo registra l’introito nel librone rosso, apre il cassetto di quercia del gabbiotto in cui è rinchiuso e tirata fuori dalla palandrana di alpaca la sua chiave di ottone lavorata a champlevé chiude a doppia mandata (la terza oramai da tempo va  a vuoto, a forza di chiudere sempre più forte alla fine si deve essere rotto l’ingranaggio e ora va serrato con perizia tecnica da Arsenio Lupin, mica strano comunque lo sanno tutti che i migliori ladri sono i guardiani!!!) dicevo appunto che qua a Palermo non è così innaturale essere piemontesi, passarono non più di 150 anni fa e tra una ritirata e l’altra una strage e una conquista per l’Unità d’Italia cioè unità nei debiti che il Pimonte aveva e che decise generosamente di rendercene omaggio, immagino che qualcuno avrà inteso conoscere le usanze locali e trovandosi bene ha lasciato presso qualcuna , mia nonna, qualche ricordino che poi sarebbe mia madre,  e poi saltando una generazione e qualche frasca di troppo l’erre ingentilita me la ritrovo IO, che acquisto è, un moretta tutta sale e pepe e fichi d’india che parla come un gianduiotto…questa sì che è monelleria!

Manuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu – eccolo questo è il rantolo finale, le trombe dell’apocalisse, dopo sarà il finimondo appunto  – Sono già per le scale…come la vuoi la baguette? –

-Come? Ma come diavolo vuoi che la prenda…? Come sempre no?

-Sì è sempre la solita zolfa come se sempre volesse dire tutto e non niente, e poi è la terza volta che dice come sempre mentre è passata da una pagnotta a un filoncino alla baguette ritorta…sempre la solita confusionaria…e poi con questo pane che ci deve fare a parte nutrire i gatti randagi del rione? L’altro giorno poi anche Zàzà Gabor lo ha rifiutato il pane, – è il gatto porcino non perché sappia di funghi o sottobosco umido ma per il contributo dato a spazzare via gli avanzi alimentari, Gasmann docet, del quartiere rovistando in prossimità delle botteghe e scegliendo quelle che adescano la buona società, infatti ho notato che ama le gonne plissettate e gli uomini con le ghette, la sola che può permettersi di fare scarti –  la baguette era troppo dura, asciutta, quasi un’ ostia poco poco più tronfia, quel troglodita di Tumminiello, sì sì il fornaio, deve avere intuito che il pane lo diamo alle bestie e ci confeziona quello stagionato…dico io: duro va bene ma almeno l’ebrezza di scalfirlo col bulino…niente neanche questo divertimento…

Però mi piace uscire a quest’ora, l’aria è tersa e ai rumori ininfluenti dei passanti si sovrappone il suono chiassoso dell’odore del latte, perché lo penso veramente che gli odori ti tramortiscono proprio entrandoti dalle orecchie…l’olezzo del siero vaccino subito mi rimanda al rumoreggiare dell’ammucchiata disinvolta di macchine e congegni atti alla scrematura, pulitura, confezionatura della materia prima, quindi a questo luogo della natura umana in cui l’artificio genera un prodotto finito che all’inizio era comunque già buonissimo, l’uomo vi ha introdotto il sovrapprezzo del lavoro, lo ha sindacalizzato e ha trasformato la mucca in uno sciopero ad interim, dentro un odore vi è oltre che all’incantesimo di un sogno fuggito a metà anche l’essenza di una realtà che dura eternamente, almeno nella memoria…e l’uomo ne fa parte che lo voglia o no!

Seguirò il porticato di genziane e clematide abortite, che tenere nella loro malinconia dissimulata, già le vedo crudeli in tutto e per tutto bisticciarsi per esasperare l’ultimo passante e lui ignaro della faida in atto a loro avvicinarsi per cospirare pensieri da cui prendere commiato inutilmente visto che l’indomani indagheranno il solito olezzar e la solita accidia nel pensarsi diversi…ahia…il solito buco da marciapiede…ma il sindaco si decidesse ogni tanto a fare la manutenzione del selciato…minchia che spera di ammortizzare i costi sociali eliminandoli fisicamente? Vito Vito ma lo sanno anche i muli – ma non lo dicono mai questo è il guaio! – che senza i debiti nella sanità le tasche dei sindaci sarebbero vuote e ancor più misere le urne e quindi per strada e dentro  alle buche e probabilmente eliminati ci sarebbero loro, non vorrai darti la zappa nei piedi della vostra sinecura? – No – dice il sindaco nel mio lobo temporale sinistro, -e infatti la zappa non me la do sui piedi, anzi faccio girare l’economia, guarda che la mafia per non accomodare la buca riesce a far lavorare 3 persone o impiegati comunali…mica male come miracolo italiano, e poi suvvia un salto nel fosso è un’esperienza esaltante non solo per le caviglie ma per tutta la circolazione, non parlo di quella stradale ovvio ma della corporea…e dimmi non sei carina quando diventi paonazza per la paura e la collera? Diventi old fashion voglio dire: una bella contadinotta!

Ancora poco e saRò arrivata, intravedo Tumminiello dietro il banco e lui vede me, ha avuto quasi un gesto di ipertensione atriale mascherato da un riso che lui crede di affabilità ma che se ritratto da David sarebbe sardonico…

…ma quella mano, lunga e distesa che si affaccia dalla baracchetta circonfusa da bricolage vari, vetri, legna, repertori di origami e ferramenta, falegnameria utensileria varia, insomma –  …ciao ciao …AlfRedo?! – è la mia bottega preferita, l’incontro che ognuno di noi vorrebbe fare non perché al di fuori del tempo ma semplicemente senza tempo, lì in quel luogo che potrebbe essere frutto di una tartaruga stakanovista che del suo carapace ha fatto scudo contro ogni luce e ogni dove, quindi vivendo di ombre e va da sé di sé non può che sgusciare fuori per  aggiornarsi sulle disgrazie altrui…e l’altrui oggi sono io…_ Alfredo AlfRredooo, qua in fondo…-

Gli occhiali spessi da miope disegnano un volto curioso, modigliano, allungato a dismisura sembra porsi a te e i capelli non so di quale pece contraffatti riempiono il cranio di striature meglio di un campo aratro… _ Alfredo ciao come te la passi…lui non parla mai sta all’interlocutore di turno fare entrambi i termini del discorso- Sono oramai sul limitare d’ingresso di questa caverna iniziatica, un cartello con la scritta “cianfrusaglieria” mi fa pensare alla consorteria umana che questo bipede deve avere raccolto in millenni di professata ignoranza cattolica; il suo corpo è una sfinge, impossibile capirci qualcosa oltre all’evidenza: un pastrano scuro lo divora e lo appesantisce più dell’età che porta senza rendicontazione, lui in fondo è un tempo.

Ciò che mi colpisce di Alfredo è il suo ostentato e secolarizzato mutismo, non si può dir che faccia scena muta perché con lui è la scena che si fa muta attorno; lo amo anche per questo perché non cambierà mai il suo rigore apotropaico; Alfredo allora con Alessia  vi siete capiti? E Calogero ha confezionato i vasetti ai mirtilli da portare alla fiera di Monreale?

Le mie domande non lo scuotono, le risposte le ha date secoli fa e non ha voglia di replicarne i contenuti cambiando la forma, sta a me andare negli archivi e capire; si scosta ruotando il bacino e dando respiro e luce all’ambiente; vedo abbozzare un mezzo sorriso che mi fa terrore: cerca un’intesa!

Dai vetri azzurrognoli e giustapposti a placche a tratti embricate la gente fuori segue altre direzioni e da qui dentro sembra di partecipare alla storia del resto del mondo che ancora non vuole morire; osservo con scrupolosa accidia quanto non avrò mai, un mondo tutto mio, ma l’ obbiettivo è un altro: tra una mostra di articoli in ferro e una sgorbia vedo lampeggiare presso la finestra liberty del retrobottega una teoria di dolciumi allineati ma non troppo, zigzagando percorrono l’intero piano della mensola: “boli” alla frutta, colorati e gommosi incrostati di grani di zucchero, “boli” e “pesciolini” neri di morbida liquirizia, bastoncini di radice di liquirizia infilati in un bicchiere in secondo piano, e ancora caramelle “fruttino” in carte oleose variopinte, “mou”  cubici incartati come un pacchetto contenente nitroglicerina, da aprire con cura e ingurgitare subito dopo perché quello che avverrà sarà subito dimenticato dallo scoppio fragoroso che tanta bontà comporta, in carta rossa o gialla e poi, al centro,

Piccolissime e sottilissime “tavolette di cioccolato” formato bambola, incartate con modestia e sigillate da una fascetta di carta decorata con un fotogramma di “Cenerentola”, un film a cartoni animati che mi aveva fatto sognare, e poi ancora i cioccolatini  con pezzetti di nocciola, incartati in stagnola dorata a forma di “formaggino”, sull’etichetta triangolare di ciascuno la testa di un personaggio dei cartoni animati Disney: Ezechiele il Lupo, Jimmy il Porcellino, Pluto.

Certo che forse Tumminiello oggi può fare a meno di me, e anche la mamma del suo pane, e ZàzàGabor ne sarà entusiasta se una volta tanto gli prospettiamo una succulenta dieta…circa 20 lire….mmm sono incerta sul da farsi mentre sono più che sicura sul come disfarmi di ogni pedanteria e incertezza a venire, agire ora e subito…

Inaspettatamente Alfredo si avvicina, il sorriso di prima ora sembra più abbacinante, catapultato su di me in un abbraccio di empatie mi trascina via con gli occhi che insieme vanno a cadere su  una deliziosa casetta rosa col tetto rosso a spioventi, un cubetto con sui lati esterni stampate porte, finestre e persiane, è lì sul palmo della sua mano…-è un giocattolo? – invoco con prudenza  e alzandone il tetto scopre una crema molle e plastica allo stesso tempo e una voce impastata di gratitudine recita: crema alla nocciola!!! Il riso di entrambi si spiega in una confidenza senza esitazioni, ci partecipiamo…io Alfredo che meraviglia, e quella voce sentirla animata per la prima volta…lui e il suo carapace finalmente distrutto, quella testuggine che sapeva tutto dei miei gusti, ed io infinitamente niente di lui… che buona la nutella!!!

-Ehi Zà za Gabor che ci fai tu qui? Mi hai inseguita?  Come?

…E mi viene il dubbio che la risposta sia stata: Sono Alfredo, ma solo ora te ne accorgi…miaoooo!!!

Certo era sempre stato con me!

FINE…

 

…e di lontano soltanto un baffo mi lecco perché gli altri il vento se li coccola…miao…mi sembra di impazzire con questo senso di nausea che mi dà l’aria ingolfata e allora devo…miaooooo…stemperare il tempo e lo spazio in un colpo refrattario in un guizzo dentro un balzo che rintocca nei miei artigli e dico miaooooooooo; e subito penso se son gatto che me la batto perché questo miao mi rincorre e dice spesso sono un’eco del tuo misfatto, ti credi fiero alto e vero ma nel tuo miao io vedo solo il mio…riflesso, la mia utopia…e allora sento che quel mio altro non è che un …

 

Maramaooooo…che fatto strano…

 

…e di soppiatto non son più gatto…sono finalmente un altro semplice e povero distrattamente matto!