Leo Simigliani - Poesie e Racconti

Il sognatore
di Leo Simigliani

Ti dò l’anima e ti regalo un sogno,
fanne ciò che vuoi, ma proteggili.
Ti darò la mano in ogni tempo,
stai sicura: non ti abbandona mai.
E… quando tornerai…sarò qui!
troverai un tetto, un letto e me…
seduto tra gli ulivi mentre aspetto.
Sarò qui, la notte e il giorno!
Conterò i minuti per abbracciarti;
i secondi per continuare ad amarti;
tutto il tempo che sarà, per rivederti.
Guarderò dalla finestra, e aspetterò,
le notti indagherò le stelle,
i giorni scruterò la strada,
e tra le mani una tua fotografia.
Ora… ora che vai via.
E… quando tornerai…
mi parlerai di te, se tu vorrai,
di quello che hai amato,
dei rimpianti che hai avuto
e di chi… non hai voluto.


Il poeta e l’ultima poesia
di Leo Simigliani

Il poeta soffre durante una tempesta,
e mille cose gli fan girar la testa,
si scuote del turbine che c’è fuori;
del riecheggiar dei cuori;
del vento; del mare e degli amori.
E’ mesto allo sparir del sole,
gaio del colore delle viole.
Lui, il poeta…
Scorge in ciel quel che tu non vedi,
e gli domanda quel che tu non chiedi,
scrive e parla sempre di una donna,
e l’affresca di parole, come la Madonna.
Sogna; soffre; esulta; canta e si trascura,
strega la morte, vince la sorte e la paura,
e quando legge la sua ultima poesia,
sente ancor più forte la malinconia.


Felicità
di Leo Simigliani

Una farfalla tutta bianca,
non cede al vento, e… arranca:
svolazza e volteggia qua e là,
poi si posa sulla rosa, quasi stanca,
non pensa al tempo che le manca,
succhia il fiore e se ne va…
ed io nel guardarla… penso:
“E’ questa… la felicità!”


Esistenza
di Leo Simigliani

L’attimo di un uomo… la sua ombra sbiadita,
I suoi passi su neve lentamente svanite,
le tracce nel fango e la melma incontrate in salita,
una parola serrata tra i denti… all'istante inghiottita.
Un lampo spedito… in quel pensiero infinito,
il passeggiare per strada tra volti atterriti,
distratti, smaniosi, truccati, stupiti:
dal sole o la luna puntate dal dito.
La sua presenza in quello spazio ristretto,
La mancanza di un bacio o un gesto d’affetto.
Il minuto che vaga, un secondo in mano alla sorte;
così come foglia che secca, indugia alla morte.
L’essenza del tutto, pur non avendo capito la vita,
La paura del vento che non lascia mai niente.
L’estate che passa e ti incendia la mente,
Il ricordo lontano e ingiallito, disegnato a matita.
Un errore commesso per quell’amore represso,
L’abbraccio del tempo che sdrucciola via,
questo mare in tempesta che fa nostalgia,
La quiete del lago, vicino all’imponente cipresso
La tomba del padre che ha lasciato la terra,
L’estrema ferocia di un uomo alla guerra,
La misera soglia di un corpo malandato,
L’esistenza intricata… e finita… in un fiato.


Attesa
(L’unica compagna di una sera)
di Leo Simigliani

Anche la luna se ne va stasera,
pettegola com’era!
Lascia il cielo tutto nero,
e la montagna?
No, non mi par vero!…
Solo il verso d’una civetta,
unico richiamo…
per chi aspetta.


 

Amami
di Leo Simigliani

Amami come sono, amore!
Toccami come il cielo fa col mare
Così come il vento fa alla vela:
riempimi di te.
Poi portami lontano…
Abbracciami durante la tempesta,
fammi naufragare dentro te.
Quando la quiete tornerà,
sarò ancora come prima,
innamorato del tuo viso,
ma… finalmente in paradiso.


Pazzo di lei
di Leo Simigliani

Scribacchia e scarabocchia,
con la penna pasticcia e macchia,
cancella, contorna, poi torna a sistemare.
Non riesce più a parlare,
non gli vengon le parole,
né sa dirgli quel che vuole.
Vorrebbe farle un monumento
magari aprirle il firmamento,
sente il cuor che si dimena;
il suo affanno sempre in pena,
la gran voglia di averla
l’ inquietudine di amarla.
Come fa un poeta quando viaggia,
anche lui si meraviglia e vagheggia
poi torna a tarda sera per sognarla,
anelarla e rispettarla…
e neanche fosse un’eresia,
tener solo per se,
la sua bellissima… poesia.


 

La sera
di Leo Simigliani

Languida di suoni scende lentamente
Foderando di silenzi placa i miei pensieri,
armeggia quiete ogni spostamento,
e, mentre il sole va scomparendo,
accosta cautamente la serenità.
E’ sera.


 

DANTE
di Leo SIMIGLIANI

Il sole, incendiando la collina, era tramontato da poco. Qualche stella appariva qua e là nel cielo sereno.
Lontano il mare palpitava appena.
Tornavo con la mia moto dalla mensa in Val di Sangro, dove ero stato a lavorare. Ero diretto a casa di Silvia, in Via Brasile, per prendere il consueto messaggio audio che lei, tutte le sere, mi faceva. La sua voce, registrata, era stata puntualmente incisa su un nastro per musicassette e recitava le solite frasi che si scambiano gli innamorati. In realtà era un rapporto in declino dietro una montagna di false illusioni: un amore prossimo al tramonto, così come faceva il sole, quella sera di settembre.
Terminati i lavori campestri, i contadini con i canestri tornavano a casa cantando in coro. Allegoria che non ho mai più visto.
Ero seduto sul sellino della mia moto, favorito dall’ora, aspettavo che Silvia, dalla finestra di camera sua calasse la cordicella con legata la cassetta audio.
Pensavo e fantasticavo sui misteri che avvolgono il creato, quando, improvvisamente, come tutte le sere, mi scuoteva la voce di un uomo, un richiamo normale che mi metteva serenità. Un invito che conoscevo bene.
Era Dante, una struttura schietta con un copricapo sfornito di falde e privo di visiera, in lana e di colore blu, il tipico basco francese usato dai pittori e dagli artisti. Indossava i pantaloni di teletta dello stesso colore, portava un fascio di erba sulla sotto il braccio sinistro, il cibo che selezionava accuratamente per i suoi conigli. Dante abitava nella casa di rimpetto alla finestra della camera da letto della mia ragazza, nel palazzo di fronte. Scapolo e poeta della vita. Viveva solo, o meglio, solo in compagnia dei suoi gatti e degli animali da cortile che allevava. Li chiamava tutti per nome. Conosceva il carattere di ogni animale. Con loro intraprendeva un dialogo unilaterale e strano, fatto anche di assenze di rumori, gesti, che erano vere e proprie comunicazioni. Non sono riuscito mai a capire come facesse, ma quegli
animali si muovevano e facevano atti connessi alle parole, ai silenzi e ai segnali di Dante. Ne rimanevo stregato.
La sua casa era fatta di mattoni, il soffitto ad arcate; ampie volte che si concentravano nello stanzone d’ingresso. I legumi, suoi alimenti preferiti, erano distesi nei sacchi di juta, colmi, sparsi sul pavimento e splendenti come oro. Le tante riviste, per la maggior parte molto vecchie, proponevano figure di donne e di racconti storici, di tempi trascorsi ormai da molto tempo: vecchie riviste.
Le leggeva tutte. Le sfogliava come i libri di un archivio storico, erano veri e propri documenti di fatti realmente accaduti.
A Dante piaceva molto la mia compagnia, gradiva la mia presenza. Conosceva i miei turni, sapeva quando sarei passato, e presto divenne il mio confidente, la mia speranza, un mio amico. Mi riferiva delle peripezie e dei rimbrotti che Silvia affrontava con i suoi genitori, infastiditi dalle maldicenti voci di alcune pettegole che invidiavano il nostro rapporto.
La sua solitudine divenne presto la mia compagnia: Dante mi incoraggiava, mi rasserenava, mi confortava, senza mai aggiungere un commento a sproposito contro niente e nessuno. Era la sua serenità disarmante, i richiami delle sue attenzioni, gli inviti che mi proponeva: guardare la luna da poco apparsa, o ascoltare il canto di una civetta, improvvisamente affacciatasi nel cortile.
Erano richieste che mi scuotevano dall’ansia di una relazione d’amore diventata ormai un nastro che si stava smagnetizzando. Peccato!…
Dante non mi ha mai raccontato di una sua relazione sentimentale. Mi parlava di una donna, di una figura femminile di cui era stato innamorato, ma della quale non ho mai capito l’effettiva esistenza.
Rimproverava spesso il suo amico Ulderico, ormai vecchio e vedovo da anni, che viveva con sua madre molto anziana, che gli parlava di donne, e gli diceva ripetutamente di quanto “importante fosse avere una compagna dell’altro sesso”.
Ma Dante non ne voleva sapere. Era un bisogno che forse avrebbe colmato due solitudini, pensavo frame.

Dante, con una spensieratezza sedante, lo riposizionava nella sua condizione sociale, in quella natural essenza, diventata ormai concreta e tangibile. La sua compagnia, in quel luogo e di quel vivere solitario, in quell’ora malinconica, mi esortava ad ascoltarlo. La sua fisionomia, il suo atteggiamento, mi facevano pensare di essere dinanzi ad un uomo dal delicato sentire, dall’animo aperto al bello e alla poesia.
Silvia mi raccontava di essere rimasta sconvolta nel vederlo preparare i dolci che cucinava. Le uova delle galline, ancora calde, venivano rotte, private dell’albume, che faceva calare in una scodella, mentre le altre mezze sfere del guscio, che contenevano il tuorlo, venivano poggiate su un mucchietto di farina, in attesa di essere usate per l’impasto. Lei non mangiò mai quei dolci che generosamente Dante le offriva, respingeva educatamente il dono inventandosi una scusa: la solita dieta.
Il ricordo di Dante mi ha sempre fatto pensare ai tanti uomini che, attraverso la loro anima, seguono il corso del loro perfezionamento, eliminando i vizi (a parte la golosità dei dolci), conquistano le virtù per poter ascendere, per poter giungere un giorno, purificati, in un altro regno. Dante era un sognatore eccellente, lo erano le sue cose semplici, le sue scelte, le sue fantasie, i suoi racconti, le sue metafore.
Quel suo modo di vivere mi affascinava. Le sue fantasie, le sue chimere, i suoi racconti ancora oggi mi fanno compagnia, mi illuminano e mi confortano. Sarà stata l’omonimia con il sommo poeta toscano, ma da questo uomo semplice di Mozzagrogna ho imparato a differenziare l’inferno dal paradiso e capire che “la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha”.


 

AVVENTURA D’ESTATE

di Leo SIMIGLIANI

 

Il bancone del fruttivendolo era ben esposto: tutto quel ben di Dio in bella mostra faceva da cornice alla ragazza dai capelli rossi che svolgeva il compito di commessa.

La sua sicurezza disarmante, il suo seno prosperoso che si intravedeva dietro il camice bianco, l’abilità nelle sue mani che imbustavano i frutti ai clienti, per la maggior parte anziani.

Eravamo giunti al suo cospetto dopo un lungo viaggio sulla A/112 azzurra metallizzata ascoltando i Bee Gees; la musica di How Deep Is Your Love mi era entrata nella testa e continuava a martellarmi le tempia.

Mario era vestito come al solito.

L’estate lo faceva sentire libero nei movimenti, ma ancor di più nell’abbigliamento. Indossava  i pantaloncini di cotone, corti e bianchi, quelli che si usavano per giocare a calcio: sottili, trasparenti. La  T-Shirt rossa della “Fruit of the Loom” e gli zoccoli ai piedi, le tipiche calzature in legno leggero con la tomaia di cuoio e la fibbia quasi sempre arrugginita dalla salsedine, consumati ambedue allo stesso lato: sotto la suola dei tacchi, nella parte interna.

L’avvenente ragazza dai capelli lunghi rosso arancio, lentigginosa e prosperosa, era dietro il bancone e non mi sembrò tanto entusiasta della nostra visita. Feci finta di niente e assecondai Mario, il quale, senza scomporsi più di tanto, l’avvicinò esclamando: “Ciao, Pupa!”.

Lei abbozzò un gesto di assenso, timorosa e sorpresa. Mario le disse: “Ti presento il mio amico, lo riconosci? … E’ il compagno che mi aspettava ieri sera quando ti ho riaccompagnato a casa”.

La ragazza abbozzò un discreto sorriso e mi strinse la mano, poi si scusò e si allontanò verso il bancone per servire una signora claudicante che reggeva una borsa di rete in mano.

Mario mi guardò e mi chiese un parere: “… allora, cosa ne pensi? Ti piace?”.

Continuai a mentire a me stesso e naturalmente al mio amico Mario, la ragazza mi sembrava alquanto inquietata, avevo l’impressione che qualcosa la turbasse e non ero certo che fosse esaltata della nostra visita. Rimasi al gioco, non lo contraddissi e  aggiunsi: “ Carina!  Sembra una donna fatta per te, un po’ triste, ma sicuramente bella!”.

La “rossa”, così era soprannominata da Mario, era l’ultima conquista dell’estate,  l’ultima presa di una domenica fatta in discoteca al “Piccolo Mondo” di Vasto, quella sera quando dovetti aspettare il mio amico davanti ai locali da ballo fino a tarda notte, in attesa che tornasse dopo aver riaccompagnato la ragazza a casa, quella ragazza malinconica che ora si muoveva davanti a noi con sicurezza e un sottile velo di mistero tra le casse di frutta.

Il loro incontro era nato per caso, complice la musica e l’ambiente, la stagione calda e forse la solitudine che regnava in entrambi e che li accomunava in una silenziosa e partecipe voglia di amare. Seppi dopo che la ragazza era fidanzata da anni e che era prossima a sposarsi. Per Mario fu una grossa delusione, anche se il carattere e l’aria da spaccone che mostrava solitamente celavano questo risentimento. Gli occhiali “Lozza” con le astine alle orecchie, rosicchiate e sgranocchiate, non lo avevano mai tradito, erano complici fedeli, gli nascondevano molto bene gli occhi e lo rendevano sicuro e spavaldo.

Mario amava le avventure, desiderava sentirsi attraente e mettersi in mostra senza misura, forte e convinto della sua personalità, ma ancor di più perché era di Mozzagrogna, motivo che aumentava la sua sicurezza e che non gli faceva temere rivali.

Era sfacciato, e a volte anche insolente, ma di una bontà rigogliosa, simpatico  e disponibile.

Gli piacevano le competizioni, soprattutto quelle delle donne da conquistare, i suoi “antagonisti” più  cari  erano Mario Di Lallo detto Zirì, Nicolino Urbisci , Serafino e Florindo Manci, con i quali si arrabbiava, gli unici che gli facevano perdere la pazienza, lo facevano manifestare in tutta la sua essenza, lo autorizzavano a esprimersi in un linguaggio sconcio e scurrile. Erano i soli che potevano farlo e che ci riuscivano, ma anche i pochi e veri amici che gli volevano un bene senza confini, e questo lui lo sapeva.

Quando la discussione si accendeva e le giornate afose rallentavano i ritmi, Mario rimaneva seduto sotto l’ombra della quercia, davanti all’omonimo bar, con paziente sopportazione. Solo quando le incursioni di Zirì, Nicolino, Florindo e Serafino diventavano insistenti, lasciava contrariato la frescura del grande albero, si allontanava con lo stuoino   sotto il braccio e il telo da mare sopra la spalla destra, sgommando veloce e sicuro verso lo stabilimento “Sirenella” a Fossacesia marina, certo che sarebbe stato raggiunto al più presto.

Era al mare che continuava l’avventura estiva. Sdraiati sotto il sol leone ad abbronzarci e a dare fastidio alle ragazze rimaste sole o alle signore indaffarate con le creme e i figli piccoli da guardare.

Un divertimento assicurato vedere questa “tribù” sdraiata sulle pietre roventi, adiacenti agli ombrelloni dello  stabilimento e  alle cabine dei turisti che affollavano la spiaggia, mentre noi ci rincorrevamo per farci i “gavettoni” che  puntualmente  finivano sopra la  rivista o il giornale di qualche signora comodamente sdraiata sopra il lettino da mare.

Si creava un vuoto attorno alla comitiva. I turisti si allontanavano dalla spiaggia e andavano in acqua, timorosi e contrariati, osservavano attentamente le nostre gesta, speravano ci allontanassimo al più presto, ma  rimanevano regolarmente delusi, perché di lì a poco saremmo piombati in acqua correndo e bagnando quelli che esitavano a farlo.

Il caos terminava al calar del sole, quando Mario ormai, ristabiliti i rapporti, proponeva una capatina in discoteca e, dopo, la solita pizza con antipasto di salsicce alla diavola, da Gabriele a Lanciano.

Il “Piccolo Mondo” di Vasto era la sua meta preferita, il campo di battaglia per le sue avventure d’estate. La pista da ballo diventava un campo di combattimento, non aveva rivali nello scegliere il punto più strategico, l’angolo migliore dove “puntare” le ragazze solitarie che sedevano sulle poltrone in penombra e sceglierne una, quella che lo intrigava di più.

Una volta deciso, faceva due o tre giri attorno alla sala, ispezionava accuratamente le donne rimaste sole, il numero dei bicchieri poggiati sul tavolino in vetro per assicurarsi sulla condizione isolata di una donna senza compagnia, quindi partiva all’attacco, sicuro e deciso come solo la sua propensione sapeva fare. Si sedeva accanto alla ragazza, le offriva il solito cocktail a base di Coca  Cola  e  whisky  e  parlavano  tutta la  sera,  si raccontavano esponendo il meglio di se stessi, fino a tarda notte. Poi, quando la comitiva era  ormai  stanca  e  tanto annoiata, si ripartiva per Lanciano. Solo allora riprendeva la sua aria amichevole e di bella compagnia, e raccontava, raccontava… inventava e sbalordiva il gruppo parlando dell’ultima conquista, l’ultima maestrina di turno, solitaria e pudica che improvvisamente, grazie alla sua tenuta da Don Giovanni,  diventata una disinibita ed espansiva donna di mondo.

Erano stagioni di un tempo, quando le ragazze erano tremendamente composte, poco truccate e tutte appena uscite dalla scuola magistrale o dalla ragioneria, in cerca di un lavoro o un ragazzo con il quale fare sul “serio”.

Ma Mario non poteva ne voleva legarsi.

Trascorremmo bellissimi e lunghissimi anni di avventure estive.

Un giorno, improvvisamente e inaspettatamente, le gambe di Mario, che un tempo gli avevano creato l’invidia degli antagonisti e gli avevano fatto indossare la divisa da Carabiniere, lo avevano sopportato quando caricava le mezzene dei vitelli per la macellazione, cedevano, si affaticavano, diventavano stanche e non lo sostenevano più.

La distrofia muscolare prese piede in breve tempo.

Per alcuni anni non ci siamo più visti, io ero partito e lavoravo a Roma.

Lo rividi una sera di Ottobre.

Quella sera l’aria era intrisa di umidità, penetrava nelle ossa, pungente e aguzza. Lui scese faticosamente dalla macchina e mi venne incontro a fatica. Si trascinava faticosamente sui suoi Camperos, scamosciati e consumati in punta. I Jeans gli stavano maledettamente larghi, oltre misura, era dimagrito.

La maglietta a coste di colore rosa metteva in risalto i baffi folti e biondi, che non gli davano più l’aria del ragazzo che conoscevo. Era triste e malinconico.

Mi sorrise e mi abbracciò affettuosamente, mi guardava fisso negli occhi, sembrava quasi mi accarezzasse con le parole che di lì a poco avrebbe pronunciato: “Leo – mi disse – lascia Mozzagrogna! Questo paese non ha più nulla da dare, le persone se ne fregano di quello che succede, nessuno ha tempo per gli altri se non per se stesso, solo ed esclusivamente per se stesso”.

Era chiaro che si sentiva solo e che la colpa della sua malattia fosse da attribuire alle persone del nostro paese, forse agli amici, a me, sebbene io avessi una spiegazione logica: “vivevo a Roma da anni per lavoro”.

Mi sentivo maledettamente in colpa e mi tornavano in mente le parole di Hegel: “A colui che guarda razionalmente il mondo, il mondo a sua volta presenta  un aspetto razionale. Il rapporto è reciproco”.

Mario continuava a fermare il suo sguardo dentro i miei occhi che a stento trattenevano le lacrime:  “Vai lontano da questo paese di merda, lasciati tutto alle spalle; amici, luoghi e  profumi della nostra gioventù, fai presto! – continuava a ripetermi – prima che siano loro a farlo. Credimi! – poi aggiunse – ci sono persone troppo cattive e quel bel tempo di una volta non c’è più, né tornerà mai, vai a vivere il più possibile distante da queste canaglie”.

Mi abbracciò nuovamente e a fatica si avviò verso la macchina, senza mai più voltarsi a guardarmi; accese il motore, cosa che non faceva mai prima di accendere la radio, quindi sparì dietro la curva, dietro l’ufficio postale, sulla strada che porta a Val di Sangro.

Non l’ho più rivisto.

Non potevo credere a quello che avevo appena visto.

Fantasticai e cercai una ragione, un pensiero che potesse darmi una risposta soddisfacente.

Nel giro di pochi mesi Mario sparì per sempre, si allontanò da Mozzagrogna, fece quello che aveva consigliato di fare a me, raggiunse il posto più lontano possibile, andò ad abitare lontano da “quella gente” e dal suo paese.

Quell’incontro mi lanciò dentro l’anima pugnalate appuntite e profonde, sfregi e segni inguaribili, parole dolenti e croniche che mi hanno segnato per sempre.

Quel pomeriggio di ottobre avrei voluto incontrare uil Don Giovanni di sempre, dal cuore tenero e dall’aria spavalda, sicura, quell’amico di mille peripezie e delle tante avventure d’estate, amante del suo paese e dei suoi paesani, legato ancora a quella orgogliosa appartenenza: Mozzagrogna. Avrei voluto rimettere indietro il tempo e fermarlo a prima, molto tempo prima che la distrofia lo allontanasse per sempre, lo costringesse ad andarsene contro la sua volontà così distante, così lontano… da chi gli  ha voluto veramente bene e non trova ragione al perché: le persone, i profumi, gli amori, i sapori cambiano, i ricordi no.