Lidia Allocca - Racconti

I canti di Kolmanskop.

 

Mi sono perso.

Sapreste indicarmi la via del ritorno? No?

Chi devo seguire? Il Vento? Il Sole? O forse dovrei aspettare la Luna o la stella polare.

Dove devo andare?

Mi sono perso.

 

Il deserto è un velo immenso che copre le nudità della Terra d’incantevole apparenza e si finge morte e solitudine per proteggere ogni regno che ospita. Lo stesso Sole diventa il buttafuori dell’uomo, geloso del suo amante ambrato e dei suoi figli tutti, striscianti o pungenti: ciò che per noi è morte, per loro è vita.

Mi ero inoltrato per caso in una tempesta di sabbia come per caso si fanno tante cose, senza pensarci troppo, ché a pensare troppo poi non si fa niente: mi sono così ritrovato nel deserto del Namib.

Girovagando senza meta – ma d’altronde il deserto è per andare, senza dove e senza quando – ho trovato un villaggio, ma non per questo avevo pensato di restare – o meglio, ci avevo pensato ma non lo sapevo ancora.

Sono solo un modesto fotografo o pittore, come volete chiamarmi, e lo sono esattamente da quando mi sono inoltrato nella tempesta poiché ero convinto che avrei trovato la bellezza, ma senza attrezzatura non potevo che fingermi io stesso tela e pennello; per cui il mio scopo era solo quello di dipingere o fotografare. Speravo uomini, ma ho trovato solo fantasmi e per quanto ci provassi era impossibile immortalarli! –  ma questo era ovvio, solo che non lo sapevo ancora.

Dunque provavo con tutti coloro che mi capitavano a tiro, ma finivo solo per scusarmi mille volte per la mia incompetenza, pareva ci tenessero ma purtroppo non ero abbastanza bravo.

Forse avrei dovuto ritrarre altro, qualcosa che fosse vita tra la morte. Così, giravo tra le case svuotate di ninnoli, un po’ decadenti e dai colori smorti, ma d’eterno fascino e mai abbastanza vuote da considerarle morte.

- Forse ho trovato i miei soggetti, pensavo -

Sono infatti abitate dalla sabbia, i suoi granelli sono stati i primi ad invadere le abitazioni ma non per questo ne sono padroni; perciò fungono da letto per i coinquilini fantasmi ed essi sono per loro fedeli compagni, che non lasciano orme, né la sporcano con sputi o sangue. Ed è pace perenne.

Tra  loro stavo bene, il mio amato mare era vicino e avevo di che nutrirmi, mentre la notte dormivo così quieto da svegliarmi sempre con il Sole già alto.

Dopo diversi giorni di permanenza, è capitato che, un po’ inquieto, mi svegliassi in piena notte e pensassi, accompagnato da miliardi di lontanissime luci, a cosa ritrarre davvero. Avevo solo gli occhi dalla mia e con gli occhi si possono fare moltissime cose. Com’era possibile che non sapessi cosa guardare, come vedere? D’altronde non ero mica riuscito a vederli, i fantasmi, eppure li sentivo, non con le orecchie ma dentro le ossa e la carne, senza sapere come.

Per nulla contento di questa serie di dubbi insoddisfatti, mi ero alzato per sgranchirmi un po’ le gambe, decidendo di andare fino al mare ad assaporare la quiete salmastra e, preso da eccitamento improvviso, ho ringraziato il mio essere avventato.

Chi mai sarebbe riuscito a sentire quanto io sentivo rimanendo fermo, impresso su una sedia o un letto o a scrivere di sensazioni senza conoscerle davvero?

D’un tratto, delle luci avevano cominciato a bussare alla coda del mio occhio destro, proprio quello che avevo lasciato aperto per scattare una foto al sublime paesaggio notturno. Erano sprazzi improvvisi, indecisi, indefiniti: io andavo nel punto in cui nascevano e non trovavo che sabbia.

È molto strano, mi dicevo, e mentre mi giravo di qua e di là, un altro luccichìo aveva attratto il mio sguardo ed ero corso come un lampo, gettandomi poi a terra: ma ancora una volta non c’era niente. Così credevo, finché lo stesso non si era ripresentato in quello stesso punto ma non riuscendo a vedere ancora nulla, avevo pensato di non avere altra alternativa che quella di scostare gentilmente la sabbia nolente.

Mi chiedevo cosa proteggesse e allora la scostavo delicatamente come fosse oro, fino a trovare qualcosa di pesante, ingombrante ma che aveva l’aspetto di essere di valore. La Luna, che continuava a fare capolino tra le nuvole, mi aveva lasciato intravedere la natura di ciò che tenevo in mano: un diamante. Posandolo al suo posto, andavo così a cercare negli altri punti e ne trovavo degl’altri, tutti disposti a formare un sentiero, che, ormai esposti, toccati dai raggi lunari sembravano luminarie festive ma non erano altro che vaticìni di qualcosa che poteva essere tanto piacevole quanto spiacevole – ma anche questo non lo sapevo ancora.

Curioso per natura, mi ero subito avviato per quel sentiero: così per tutta la notte ho vagato e vagato, senza sapere dove ma probabilmente lontano dal mare e dal villaggio. Solo con la consapevolezza di ciò, avevo ormai capito di essermi perso.

 

È buio, la Luna si nasconde, e c’è freddo.

Sono solo.

Se ho paura? Da matti, ma di cosa non so di preciso.

Seguo ancora i diamanti, come inebetito, immerso in un’ipnosi incantata che mi spinge dove non so. Mi ritrovo, infine, sul bordo d’un capitombolo sul mare e m’appare incerta la sua accoglienza, ma non ne capisco il motivo.

Lotta la coscienza contro il potente inconscio ed io, prevenuto, mi metto le ali e volo giù, in picchiata, a pelo d’acqua e poi fracassato sulla dura superficie della spuma, risucchiato dalle interiora di sale… Ma poi mi sveglio di soprassalto, con la sensazione di cadere, e mi metto a sedere sulla sabbia che non è quella della mia casa e mi chiedo come io sia arrivato qui.

E i diamanti? Come un forsennato scavo e scavo, ma non trovo nulla. Mi alzo e corro da una parte all’altra in cerca di tracce, ma non trovo che il silenzio. Mi siedo e aspetto.

Mi sono perso un’altra volta.

 

È quasi l’alba e dal mare, a me d’ignota posizione, s’alza la tipica rada foschìa com’un velo sottile, più sottile della sabbia stessa. S’alza sopra la mia testa e la oltrepassa, trasportata da un leggero vento umido che a contatto con i granelli fischia e canta sommessamente. Mi culla, come solo il mare ha saputo fare finora. Ma poi scopro, con mia sorpresa, che non è il vento a cantare: sono voci, voci vere. Mi giro di qua e di là per sentirle meglio e le seguo; si fanno man mano più forti e mi sembra ormai di riconoscere la via del ritorno, poiché l’ho percorsa così tante volte in tutti questi giorni da essermi diventata familiare.

Finalmente al villaggio, scopro che c’è vita, più di quanta ne potessi immaginare. Vi sono queste sublimi entità velate che sembrano brillare di fievole e bianca luce, senza volto ma con lunghissimi capelli e unghie, e cantano canzoni senza parole, infestando l’aria, la nebbia e persino la sabbia di melodie incantevoli e delicate, forse troppo per essere udite da orecchie qualunque.

Una si ferma e mi dice che le loro voci impregnano ogni alba dalla notte dei tempi purché i loro canti fungano da guida verso questo villaggio per chi si perde nel deserto durante la notte.

Ritorna a cantare ed io, confuso, torno a dormire – davvero chiunque può udire i canti?

Mi sveglio con il Sole ormai alto, come sempre, ma mi inondano dei colori nuovi che mai qui avevo visto così chiari e forti, impressi alle pareti intorno a me. Esco di corsa ed entro, senza permesso, in tutte le abitazioni che mi servono per rendermi finalmente conto che qui tutto ha misteriosamente preso colore.

- E se fosse sempre stato così? Se non lo avessi mai visto davvero? -

Le pareti sono immerse nei più intensi colori e ritraggono luoghi o persone, più che altro impressioni, come ricordi sfocati, andati ma mai persi davvero. Li trovo più nitidi specialmente sulle pareti opposte alle camere da letto, oltre i cardini senza porte, stipiti e coprifili che fanno da cornice al quadro della memoria, da vedere appena svegli – anche i morti dormono.

Una voce alle mie spalle mi dice che tutte le immagini che ricoprono le pareti delle varie abitazioni sono i ricordi degli ultimi istanti di vita delle persone che vi abitano, così come per quella incorniciata ben bene fuori dalle camere da letto che non è altro che l’ultima immagine vista. Inaspettatamente pieno di meraviglia, di energia e di vitalità, vado in giro e parlo con la gente che finalmente riesco a vedere. Non mi stupisce, non so il perché, ma sto bene.

Ritorno a casa che è ormai notte fonda e la Luna penetra dalle finestre senza imposte. Non prendo sonno, mi metto a sedere e mi guardo intorno, seguendo i raggi delicati e i loro soggetti. Poi arrivano lì, alla parete oltre la cornice della porta.

Ciò che vedo mi pare uno scherzo ma non mi turba, è anzi per me fonte d’una gioia mai provata, d’una calma estatica, come un traguardo da sempre agognato.

Ho finito per innamorarmi di questo luogo, nato – o forse morto – per essere vissuto e amato, in una vita o in un’altra senza distinzione; ma succede che stando con i morti si finisca per morire. Eppure è ironico, sapete? Succede lo stesso anche con i vivi, ma raramente in così tanta quiete.

Non è neanche tanto bizzarro che, dopo tutto questo tempo, io continui a fare il fotografo o il pittore, perché forse sono diventato più bravo di quanto potessi immaginare e inizialmente non lo sapevo mica, come non sapevo e non so tante cose, ma non mi importa, mi prendo il mio tempo per scoprirle, specialmente per quell’affare che io credo di poca importanza ma che mi assilla continuamente, che non è altro che il non essermi ancora accorto che anch’io sono morto.


L’uomo che non si era accorto di avere le mani.

 

Era una notte di pioggia, di quelle in cui le nuvole sono gonfie d’acqua così da poter scavare la terra con le loro gocce per creare un letto caldo per il freddo Inverno.

Ero ferocemente arrabbiata quella notte, l’ira dominava e stringeva il petto in una morsa mai letale, dunque da agonia. Un’agonia snervante. Guardai un film, uno di quelli che vanno visti prima al cinema sul grande schermo e poi a casa, in solitudine, per assaporare meglio le angosce, le brutture, le banalità.

Quella notte, in cui la pioggia scrosciava feroce dalla tettoia in impetuose e sottili cascate, io conobbi un uomo. Credo che non sia insolito conoscere qualcuno, magari è più difficile di conoscerlo nella realtà virtuale, magari lo è ancora di più sotto una così fitta pioggia, un mostro abominevole che spaventa tutti, ma credo sia raro, anzi unico, conoscere qualcuno che non sa di avere le mani.

Stava lì, a girarsi su se stesso in cerca di un riparo che non c’era, era palese, e aveva un ombrello il cui laccio avvolgeva il suo polso. Io uscii perché mi andava, semplicemente, e lo vidi lì, impacciato. Era buffo, senza dubbio, ma quell’ombrello, lì, non me la diceva giusta. Non capivo cosa cercasse dato che il riparo lo aveva poco più giù del suo braccio.

Gli gridai:

 

- “Signore, perché non usa l’ombrello?”

 

Egli si fermò di colpo. Non eravamo molto lontani, io ero davanti al cancello, lui poco più in là, giusto in mezzo alla strada, ma tanto non passava nessuno. Mi guardò negli occhi con una confusione che era nebbia, era assolutamente nebbia.

 

- “Quale ombrello?” mi chiese.

 

- “Quello che tiene al polso. Proprio lì.”

 

Lì, lui abbassò la testa dove stavo indicando e poi mi guardò. Guardò il braccio e mi guardò, ancora e ancora. Poi smise e mi guardò e basta. Sembrava emozionato, gli occhi erano lucidi, la nebbia rada, e mi guardava con un’innocenza che si è soliti associare ai bambini, senza considerare che esistono bambini adulti e adulti bambini.

Aveva scoperto l’acqua calda, avrebbe detto qualcuno. E cos’era, allora, quest’acqua calda?

Le sue mani.

Lui aveva scoperto di avere le mani, a trent’anni o giù di lì, in mezzo ad una strada deserta, sotto una pioggia fitta e rumorosa, dinanzi a me, che sono niente ma ero tutto.

Se pianse? Non poteva darlo a vedere.

Io gli sorrisi, semplicemente, perché che altro potevo fare? Avrei sorriso anche se fosse stato lui a scoprire l’America. Alle scoperte si sorride sempre, perché qualsiasi cosa o persona che scopriamo è l’inizio di una ancora più grande, nonché di noi stessi, e l’unica risposta non può che essere il sorriso: la contentezza di chi sa quanto sia bello essere umani, ma anche la compassione di chi sa quanto sia terribile esserlo.

Prese la mano destra con la sinistra e le guardò. Le guardò e basta, non sapeva cosa fare, come usarle. Piano piano, però, capiva che poteva muovere le dita, sempre lo aveva visto fare a chi si era sempre preso cura di lui, ai maestri, ai compagni, ai datori, ai colleghi, agli sconosciuti, agli amici. A chiunque, ma lui non sapeva di essere come gli altri, di avere egli stesso due mani. Nessuno glielo aveva mai detto, avevano sempre fatto tutto per lui, egli non aveva assolutamente idea di cosa significasse avere le mani. Forse gli piaceva anche, l’idea di poter essere un po’ speciale, diverso. Era così, perché si può essere speciali sia con che senza mani e quella scoperta non cambiava nulla: se lui si credeva speciale, lo era e basta.

Muovendo le dita scoprì delle vibrazioni nuove, nuovi movimenti, nuove grinze sulla pelle, nuove forme che questa poteva assumere. Scoprì una nuova sensibilità e cominciò a toccarsi i polpastrelli di una stessa mano col pollice, poi dell’altra, ed infine li fece toccare tra loro. Le unì, dunque, unì le mani come in preghiera, ma non contento le fece battere l’una contro l’altra in un applauso e si spaventò. Davvero, non pensava che avrebbe prodotto quel suono, proprio lui. Lo aveva sentito più volte, anche molto vicino al suo orecchio, ma credeva di non essere in grado non avendo le mani. Ora le aveva, le aveva sempre avute in realtà, ma non si finisce mai di scoprirsi!

Toccò il palmo coi polpastrelli, prima di una mano e poi dell’altra, e sfiorò ogni nocca e ogni unghia, e capì che poteva toccare qualsiasi parte del suo corpo e scoprire dove fosse esattamente e come fosse fatta, nella forma e nella sostanza: le braccia, le gambe e i peli ad essi annessi, il viso, la forma del naso, la screpolatezza delle labbra, il bagnato del bulbo, la morbida durezza della cartilagine nelle orecchie. Non si toccò il pube, sorrise quando la sua mano sfilò su tutto il torace fino ad arrivare lì. Si sarebbe studiato per bene in un altro momento.

Ma io ero lì da interminabili minuti e non facevo altro che osservarlo, perché mi affascinava e mi chiedevo che sapore avesse il suo tocco. Lui mi guardò e capì.

Nel buio, sotto la pioggia che cadeva ormai lenta e dolce, lui s’avvicinò e allungò il braccio al mio viso, ma rimase fermo con la mano quasi a conca in sospensione a pochi centimetri dalla mia guancia, senza avvicinarsi mai definitivamente.

Ci guardavamo, nient’altro.

Avvicinai io la guancia alla sua mano e la sentii gelata e bagnata, tremava e appariva debole, ma quando capì, essa si fermò e il suo tocco divenne tutto ciò che si potesse sperare: una scoperta e una sorpresa per entrambi.

Rimase ferma sulla mia guancia per un po’, poi cominciò a muovere il pollice e dopo la fece scivolare fino alle labbra usando solo i polpastrelli, per cercare, sentire. E sentivo anch’io.

La scostò e sorrise anche lui, al che non potei non ricambiare, era spontaneo.

Mi disse una cosa, in quel momento, solo una ma lunga e profonda come una pozzanghera d’un milione di consecutive piogge.

 

- “È morbida la mia mano, come mai avevo sentito la mia pelle prima. Lei lo sa, lo ha sentito. È ruvida, piena di grinze e vene visibili, e bagnata, ma è stata liscia e asciutta, non è vero? È fredda ma so che può essere calda, e sa fare molto rumore per uno schiaffo su se stessa, e molto più rumore con una carezza. Ma ora io mi chiedo come faccia ad avere in sé tutta la forza che sento. Cosa potrei fare io con le mie mani? Avrei potuto farle male, avrei potuto farle male.

Allora, cos’è questa potenza?

È la vita, non è così? Le mani sono la vita per intero. Lo sono gli occhi, lo sono le orecchie, lo è il cuore, lo sono i polmoni, ma ora le mani mi hanno plasmato per intero.

Ma cosa posso farci io? Tutto e niente.

In queste mani io ho la potenza della vita.

Avrei potuto farle male… Io non l’ho fatto.

Le svelo un segreto: io piango spesso. Stanotte il cielo mi ha ricordato me stesso. Io piango spesso quando ascolto la gente parlare, quando leggo il giornale o un libro, quando guardo un film, quando vedo un disegno. Sa perché? Per l’emozione, ma più che altro per il dolore.

Non sempre ma spesso mi capita di piangere per il dolore di essere umano.

Mi credevo speciale, avrei voluto esserlo davvero, proprio perché non avevo le mani. Ma se guardo queste mani io mi sento umano ed è bello e terribile, lei lo sa. Essere umano.

U-mano.

Bizzarro, paradossale.

Con questa stessa mano potrei averle fatto male e sarebbe stato solo l’inizio. Io ho deciso di farle una carezza, mi è venuto naturale, ma ho anche della rabbia, quella potenza della vita di cui le parlavo. Perché la vita è tenerezza e rabbia, un’eterna lotta. Nient’altro.

Io ho scelto, però, di tenerla a freno quella potenza, perché devo aiutare il Mondo a distruggere gli umani, a distruggere lei anche se tanto mi dispiace, e a distruggere me che, vede, ormai sono umano anch’io.

Insieme distruggeremo tutti, sembra una pazzia, ma almeno Essi smetteranno di distruggere solo Noi. Non è così?”

 

Mi sorrise e pianse, forse perché aveva previsto la fine, forse perché gli sembrava un sogno e i sogni sono come dei film per cui non corriamo il rischio di un Oscar immeritato, o forse perché tutto quel dolore misto a terrore ed orrore non era che Arte, come tutto lo è in realtà.

Se ne andò. Mi voltò le spalle e se ne andò.

Da quel giorno in poi, il Mondo cominciò a cadere a pezzi pian piano e fu rumorosamente sordo e terribilmente bello.

Un sollievo mi attraversa ancora oggi ogni vena fino alle mani e sento la potenza che lui mi ha insegnato e prendo a pugni le pareti del Mondo, con moderazione; nel mio piccolo distruggo un po’ questo velo sottile che lo ricopre.

Che crolli inesorabile sulle Loro teste marce.

 

Crolla, o Mondo mio, crolla.


Un giovane vecchio.

 

Gravel Walk – The Rogues (1)

 

Suona la cornamusa.

La sentite?

È una parata in cui sfila, solo, quest’uomo, con in testa un basco in tartan, richiamante la sacca dello strumento, che diventa la sacca per il vento: entrambi soffiano e suonano due melodie uguali e diverse.

S’aggiungono gli uccelli instancabili, le chiome chiacchierone, i serpenti con i loro sonagli, le proboscidi degli elefanti, i piatti in ceramica che sbattono tra loro indistruttibili e le voci della gente come sottofondo, anche se sono solo rumore, non per niente vengono sovrastate dai silenzi dei soli e dei muti, che sono d’una musicalità palpabile, quasi ballabile.

Non è solo, in questa parata un po’ buffa, un po’ surreale, quest’uomo.

 

 

 

  • I titoli dei capitoli sono canzoni da ascoltare come sottofondo durante la lettura.

 

 

El Garrotin – Hevia

 

Viveva, in un paesino di montagna, un vecchio signore, non abbastanza vecchio, però, da lasciare la sua professione di insegnante.

La sua casa si trovava alla fine del paese, vicino alla foresta di Senor, ed era interamente costruita in legno, chiaro fuori e scuro dentro. Potete immaginarla di dimensioni veramente ridotte, fatta su misura per una sola persona con una striscia di giardino, un tetto spiovente stretto e lungo, mura di tronchi dimezzati posti l’uno accanto all’altro, le finestre buchi senza vetri e la porta… be’, dove fosse la porta non lo sapeva nessuno – figuratevi che neanche io lo so – però tutti sapevano dove portasse.

Come si arrivasse all’interno era un mistero, poiché gli ospiti venivano bendati prima di entrare: alcuni affermavano che ci venivano come catapultati dentro; altri teletrasportati; altri ancora dicevano di passare attraverso le vie dell’universo; infine c’erano quelli noiosi che non sentivano nulla.

Una volta entrati, ci si trovava al centro esatto della casa, nel salotto.

Ciò che affascinava di quell’abitazione erano due stanze in particolare, piene di continue sorprese già ancor prima di entrarvi, e una volta dentro non ci si stancava mai di stupirsi. Per cominciare, c’era appunto il salotto, una stanza quadrata in cui tutte le pareti interne erano coperte da una libreria continua, totalmente piena di libri vecchi, nuovi e rari accuratamente riposti, e la cosa fantastica era che continuava lungo le pareti di ogni stanza del piano di sotto, anche del bagno!

Scavati in mezzo alla liberia e opposti tra loro, vi erano una finestra e un camino; di fronte a quest’ultimo, un divano semicircolare  occupava mezza stanza e non solo riproduceva la persistenza della memoria ma ne riprendeva le forme, tanto che i bracciaoli si scioglievano come gli orologi molli e ve n’era persino uno poggiato sullo schienale; a terra, un tappeto in pelle d’orso polare. Accanto al divano v’era, poi, un comodino in legno di betulla con su un’abajour a forma di polpo, tutta azzurra e blu. Nel poco spazio rimasto giaceva immobile in un angolo una minuscola sedia a dondolo; più in là un appendiabiti con teste di gargoyle, le quali lingue erano i ganci che fuoriuscivano dalle loro bocche aperte tramite dei pulsanti e, infine, un tappetino circolare persiano, rosso e blu, che cambiava forma e colore passandoci sopra, con su un tavolino in legno e vetro fluorescente, sul quale era poggiato un vaso con una rosa bianca secca, e con attorno quattro cuscini bianchi sul parquet che ricopriva il pavimento di tutta la casa.

Alle estremità di due lati consecutivi, sul vertice, v’erano due porte nere, di cui una portava al bagno e l’altra alla cucina, le quali stanze non avevano nulla di sorprendente se non che fosse tutto in legno, dal primo all’ultimo dettaglio, persino i fornelli – usa e getta.

Infine, il soffitto. Esso non era altro che un enorme dipinto iperrealistico e tridimensionale dell’universo, la Via Lattea con le sue stelle e i suoi pianeti, le nebulose e gli asteroidi, e quanto di più bello c’è nell’immenso. Lo caratterizzava la profondità che faceva affogare lo sguardo.

Tornati al salotto, dall’Orsa Maggiore pendeva una catenella che, se tirata, lasciava cadere delle scale a chiocciola in legno che portavano al centro esatto della stanza da letto: la seconda meraviglia della casa.

Il parquet era tutto ricoperto da un enorme tappeto morbido marrone sul quale, in un angolo, si trovava un vecchio giradischi. Alla destra del letto a baldacchino senza baldacchino v’era un comò con su una lampada a forma di medusa, tutta rosa e viola che richiamava l’appendiabiti per forma e colori, e uno specchio opaco; alla sinistra un piccolo armadio senza vestiti, solo scheletri. Il resto giaceva su una sedia e sull’appendiabiti.

Tutto il mobilio era caratterizzato da forme sinuose e rifiniture barocche, ghirigori in oro e intarsiature a meno su puro mogano.

A questo punto, gli ospiti venivano invitati a girarsi per poter scoprire che all’opposto del letto v’era un’enorme vetrata al posto della parete che dava sul paesaggio dietro la casa, mostrando la foresta, il fiume Mido e il monte Sàbor in tutta la sua altezza e magnificenza.

Chissà come mai tutti rimanevano affascinati da quella magica visione, si chiedeva sempre il vecchio.

E se ne andavano come erano arrivati: nessuno mai restava.

 

E il vecchio signore, mi chiedete?

Oh, egli era la persona più noiosa e burbera del paese, del continente, forse del Mondo. Non avreste potuto conoscere persona più noiosa, pigra, abitudinaria, perennemente stanca e annoiata, permalosa, silenziosa, infastidita da tutto e… sola.

Egli, se glielo aveste chiesto, vi avrebbe detto che era una persona solitaria, ma fidatevi, ne so più di lui ed era, in quel momento della sua vita, la persona più sola che avessi mai conosciuto.

Gaelic Earth – Adrian Von Ziegler

 

Al mattino era solito alzarsi circa tre ore prima dell’inizio delle lezioni, poiché voleva prendersela comoda: sapete, la vecchiaia.

Così, si preparava la sua tazza di tè caldo anche in estate e lo beveva mentre girava tra gli scaffali della libreria per scegliere il suo libro – se non ne aveva già iniziato uno nei giorni precedenti.

Quando finiva di bere, lo aveva già trovato.

La mattina era per i racconti o i romanzi, per la verità nuda di Klimt, la colazione sull’erba di Manet, la nascita di Venere di Botticelli e per tutti i giochi di luce e colore che può regalare Monet.

Il suo scopo era di arrivare al terzo capitolo o racconto, poi chiudere e continuare l’indomani. E se restava tempo che faceva? Che faceva, che faceva… ah, poltriva, sì poltriva, stravaccato sul divano come un cencio sporco e abbandonato a cui non importa niente di niente.

Ad orario, si preparava e si incamminava verso la scuola.

Finite le lezioni, sempre troppo noiose per gli altri ma troppo brevi per lui, tornava a casa per un pranzo semplice e un riposino. Svegliatosi, faceva il suo spuntino per l’ora del tè, qualunque ora fosse, e usciva per poi stare fuori fino a sera.

Dove andava? Dunque, vediamo: spesso e volentieri andava nella foresta o su per la montagna, dove salutava e chiacchierava coi suoi vecchi amici Frassino, Quercia e Castagno; altre volte prendeva la corriera e scendeva verso il mare: come lo calmava il mare, diventava più calmo di quanto non fosse già, figuratevi che piattezza! Oppure ancora passeggiava per il paese, ma resisteva poco poiché i ragazzi gli davano su i nervi con le loro risate e gli schiamazzi, e allora se ne ritornava alla foresta o al Mido, un po’ a pescare pesci, un po’ pensieri.

La sera, una cena abbondante e di nuovo sul divano, stavolta con un libro di poesie.

La notte era per le parole celate, dette e non dette, per l’abito da sera di Magritte, per la veduta di Dresda di Dahl, per la notte stellata sul Rodano di Van Gogh e per tutti i giochi di luce e colore che può regalare Turner.

Egli stava lì, annoiato dalla vita monotona che diceva d’essersi imposto ma che gli avevano imposto, e tra i suoi Beethoven e i suoi Einaudi, gli occhi si facevano stanchi, la vita ci pesava su da sempre ad orari così troppo poco tardi! Così, gli arti si lasciavano andare, e con essi la testa.

Il sonno vinceva ormai da secoli sul Re delle abitudini, che ormai preferiva sognare, poiché per realizzare il suo unico grande sogno aveva deciso che era troppo tardi.

 

 

Ol Gir Del Druet – Folkstone

 

Sembrava un giorno qualunque, quello, dal cielo grigio e la pioggerella che scendeva sui tetti. La gente correva di qua e di là per non bagnarsi, si riparava con gli ombrelli o sotto le balconate… ma era solo pioggia.

Il vecchio signore era pelato, quindi immaginatevi quanto potesse importargli di bagnarsi se non per gli abiti, ma neanche di quelli gli importava molto. E poi non aveva un ombrello, non ne aveva mai avuto uno, perché riteneva poco giusto deviare la pioggia o scacciarla, quando ella scendeva solo per offrire un po’ di compagnia. Per questo si disperdeva anche nell’aria: per essere anche dove non poteva essere calpestata, per arrivare più lontana.

Arrivato a scuola, cominciò la sua giornata di lezioni, fatta per metà di spiegazioni e per l’altra di rimproveri. Era sempre così: non si poteva parlare, fiatare, scherzare, ridere, giocare, muoversi, non capire, non seguire, scrivere o leggere cose che non fossero attinenti alla lezione e e così via. Se avesse potuto, le avrebbe vietate anche durante la ricreazione o nel cambio dell’ora.

Quel giorno, però, capitò che durante la spiegazione delle poesie di un certo William (non ricordo se parlasse dell’innocenza o dei pescatori) i ragazzi fossero meno attenti del solito, mossi da eccitamento per la pioggia, i forti tuoni e i lampi incessanti che non capitavano praticamente mai. Si distraevano ogni tre per due, parlavano tra loro e si spingevano per andare alla finestra, intervallati dai rimproveri del professore. Uno dei ragazzi, il più coraggioso tra tutti gli studenti avuti dal vecchio, ad un certo punto, esasperato, esclamò:

 

  • “Professore, a volte sembra proprio che non siate mai stato giovane!”

 

E il vecchio rimase immobile, immutata la posizione e lo sguardo, in silenzio.

I ragazzi tacquero e si girarono tutti verso di lui dopo quell’affermazione, aspettandosi la solita negazione tipica dei professori ma non accadde.

Egli pensava, pensava, pensava ma non sapeva cosa dire: non sapeva mentire.

Alla fine, dinanzi al cuore che riteneva innocente di quei ragazzi, si decise e parlò:

 

  • “È proprio così, ragazzi miei, io non sono mai stato giovane. Sono nato vecchio, cresciuto vecchio e morirò vecchio. Ogni tanto mi sono illuso di essere come Benjamin Button, solo ch’egli ringiovaniva, sia fuori che dentro, mentre io sono così da sempre, cambiato solo nella corporatura.”

 

Nessuno era mai venuto a conoscenza di questa storia, ma egli se ne liberò con così tanta facilità da esserne sconvolto egli stesso. Eppure, nonostante ne fosse spaventato, si sentiva più libero.

I ragazzi rimasero in silenzio per alcuni interminabili secondi, poi si scambiarono delle occhiate d’intesa e si girarono verso il vecchio professore, che quasi sussultò. Era confuso, non sapeva cosa aspettarsi e per questo fu sorpreso alla grande.

 

  • “Professore, voi non morirete vecchio perché non lo volete, se no non avreste insegnato a dei ragazzi per quasi tutta la vita, o sbaglio? Allora noi vi aiuteremo: venite con noi stasera, che ne dite?”

 

Nella confusione del momento e nella fretta generale di conoscere la risposta, egli semplicemente annuì e tutti sorrisero.

Si ricomposero e continuarono la lezione fino alla fine, nell’eccitamento dell’attesa e con più interesse, poiché ora sapevano che in quelle lezioni vi erano altri segreti da svelare: bastava solo sentire, con le orecchie e con il cuore.

 

Dagr – Wardruna

 

Tornò a casa dopo la lezione e, fino a sera, fece tutto ciò che era solito fare, per l’ultima volta, ma egli non lo sapeva. Non era neanche preso da ansia o da eccitamento, poiché non sapeva cosa gli aspettasse.

Si preparò, si vestì e uscì, arrivando al luogo d’incontro, un parchetto poco lontano da casa sua, con la puntualità di un orologio svizzero. I ragazzi arrivarono poco dopo.

Si salutarono e notarono tutti quanto fosse composto il vecchio professore, al che gli svelarono che il vero luogo dove avrebbero passato la serata – e la notte – era il cimitero.

Il vecchio spalancò gli occhi e sbottò:

 

  • “Il cimitero? Ma siete impazziti? È anche chiuso a quest’ora, non vorrete mica scavalcare? No, io me ne torno a casa…”
  • “Suvvia professore, non facciamo nulla di male. Cosa volete che accada? Sono tutti morti!”

 

Tutti si misero a ridere.

  • “Dovresti averne più rispetto, ragazzo, e voi tutti!”
  • Ma noi ne abbiamo, ci stiamo andando per far loro compagnia. Vedete?”

 

Era sempre lo stesso ragazzo a parlare e dopo le sue parole, nessuno sa per quale strana magia, il vecchio sbuffò ma acconsentì. In quell’esatto momento, tutti i ragazzi videro in lui la più assurda e sbalorditiva trasformazione, seppur momentanea, che li fece sussultare e si guardarono tra loro in cerca di risposte, ma il vecchio si era già avviato e non si accorse di nulla. Così essi alzarono le spalle, capendo solo in parte cosa fosse accaduto, e sorrisero, correndo dietro al professore non molto lontano.

Arrivati al cancello del cimitero, cominciarono a scavalcare tutti uno ad uno, finché non rimase il vecchio che, però, non credeva di essere in grado di compiere tale azione, eppure cominciò ugualmente a farlo, tra le incitazioni silenziose dei ragazzi, e oltrepassò il cancello con una tale agilità che, in un primo momento, lo lasciò sconvolto e incredulo, ma non ebbe il tempo di rimuginarci troppo su perché i suoi compagni d’avventura erano già andati avanti e lo chiamavano, così dovette correre per raggiungerli.

Girarono tra le tombe in silenzio, fino a che non trovarono un posto e si sedettero tutti a cerchio con le gambe incrociate, al che uno dei ragazzi uscì una torcia e un libro su cui pareva ci fosse scritto Lovecraft o forse Poe, ma non ne sono certa.

Cominciò a leggere e continuò per diverso tempo; la sua lettura era scorrevole e pulita, la voce lieve e l’interpretazione sublime, tanto che il vecchio pensò a quanto la notte potesse diventare cruda, mostruosa e oscura con i giusti racconti. Ad un certo punto, fu proposto al ragazzo di fermarsi per far riposare la voce, facendo leggere a turno un racconto a tutti.

Arrivato quello del professore, egli prese in mano la torcia e il libro e lo guardò, immobile, per diversi secondi, al che il solito ragazzo esclamò:

 

  • “Professore, non ditemi che non ci vedete! Sarebbe un peccato non sentirvi leggere.”

 

Ma egli si meravigliò di quanto ci vedesse bene eppure non poteva leggere, perché la notte era sempre stata per le poesie. Alzò lo sguardo e incrociò gli occhi speranzosi di tutti e allora si decise e lesse. Fu persino piacevole, ammise a se stesso.

Passavano le ore e l’alba era ormai alle porte.

Il gruppo aveva finito il libro e mentre alcuni chiacchieravano, altri riposavano o pensavano.

Il sole si stava svegliando e con esso anche coloro che erano persi nel sonno o in altri impieghi. Così, quando aveva già iniziato a spargere i suoi raggi, uno s’alzò:

 

  • “M’illumino / d’immenso!”

 

E tutti sorrisero. S’alzò un’altra:

 

  • “Poiché l’alba si accende, ed ecco l’aurora, / facciamola finita coi pensieri funesti.”

 

E un altro ancora:

 

  • “Il sole ha offuscato la fiamma delle candele; / sempre vittorioso, anima risplendente, / il tuo fantasma pare l’immortale sole.”

 

Tutti recitarono a turno i propri versi preferiti da dedicare al sole e di nuovo il professore rimase per ultimo. Il mattino era sempre stato per i racconti, ma nuovamente fu incitato e non potè far altro che recitare i suoi versi:

 

  • “… l’alba / le prime luci si adagiano piano piano: / le piante a te care / si inchinano nel vederti scendere le scale.”

 

Tutti sorrisero pieni di gioia e voltarono lo sguardo verso il sole, protagonista di quegli attimi.

Una volta sorto del tutto, tutti cominciarono ad avviarsi verso l’uscita, tranne il solito ragazzo e il vecchio che rimasero un altro po’ a contemplare quale meraviglia regalasse loro la natura ogni giorno, e poi il primo chiese:

 

  • “Chi è? Il vostro poeta, intendo.”
  • “Un certo Figliomeni.”
  • “E perché proprio lui? Non lo conosce nessuno, ma nessuno nessuno…”

 

Il vecchio rise ma subito si ricompose, lasciandosi sul volto un lieve sorriso.

 

  • “Proprio perché non lo conoscete ho dovuto citarlo, sono pur sempre il vostro professore. E poi quelle erano le parole più adatte poiché provengono da un sud molto lontano, da una regione speciale.”
  • “Quale regione?”
  • “La regione del Sole, ragazzo mio.”

 

E s’incamminarono anch’essi verso l’uscita.

 

Visitors II: Contact – Celtica Pipes Rock!

 

Tornò a casa al mattino, circa due ore prima dell’inizio delle lezioni ma anziché svegliarsi, s’addormentò.

Non prese il tè quel giorno, non lesse racconti o romanzi e saltò per la prima volta nella sua vita un giorno di scuola, perché dormì fino a ora di pranzo.

Già il suo equilibrio era stato reso zoppicante, ma da quel pomeriggio in poi, egli ormai lo sapeva, non sarebbe mai più riuscito a tornare alle sue abitudini.

Se lo turbasse la cosa? Affatto.

Nei giorni a seguire fu trascinato di qua e di là, perdendo ormai la sua compostezza e salutando quella noia che lo assillava, conoscendo finalmente la vita.

Scoprì il Mondo, come un bambino alle prime armi che deve toccare il fuoco per poter imparare che brucia e così fu per lui, tanto che ci divenne. S’i fossi foco, recitava anni orsono, in quel periodo in cui sarebbe dovuto essere giovane.

Così, conobbe i rumori delle feste e dei concerti, la musica dei falò, il sapore dell’acqua di mare, il piacere di correre; scoprì posti segreti nella foresta di Senor e conobbe il Re Albero, il più alto, grosso e vecchio tra tutti, il verde del Mido che mai aveva visto poiché solo immergendo la pelle si vede, il sapore dei frutti più succosi del Mondo che solo sul monte Sàbor si trovavano; il calore degli affetti. Capì che la vita era quella e che c’era sempre dell’altro, molto altro.

Dopo alcuni mesi, decise di fare una di quelle cose che mai si sarebbe aspettato di fare: invitò i ragazzi a casa sua.

Fino a quel momento, ogni ospite che l’avesse visitata non l’aveva fatto che per cortesia, curiosità o dovere morale, ma nessuno è mai stato invitato e nessuno ha mai voluto rimanere.

Allora lo fece, li portò a casa sua, li bendò ed entrarono chissà come, al solito, e questo li sconvolse più di quello che trovarono all’interno. Difatti, tutto ciò che vedevano rientrava nel loro immaginario collettivo, come se ormai sapessero tutto di lui, ma la loro mancata meraviglia fece, invece, meravigliare il vecchio – com’è facile scambiarsi di ruolo! – che non disse nulla per tutto il tempo.

Quando tutti scesero dalla scala e si fermarono in salotto, seduti chi sul divano chi sui cuscini e chi sul tappeto a mangiare stuzzichini, il solito esclamò:

 

  • “Se mi permettete, ci sono due errori in questa casa.”

Il professore cercò di rimanere quanto più composto possibile, ma la sua espressione la diceva lunga sulla sua confusione e la sua preoccupazione.

 

  • “Uno lo sapete eccome, è bello evidente; ma l’altro… l’altro è una vostra convinzione, errata oltretutto: i colori. Chiara fuori e scura dentro? Fino a poco tempo fa avrei giurato che casa vostra fosse scura sia dentro che fuori e voi sapete bene quanto mi sbagliassi. Ma noi vi abbiamo visto dentro, è successo in un attimo, prima di entrare al cimitero, quando ancora eravamo al parco.”
  • “Cosa è successo? Ti prego, dimmi!” chiese quasi spaventato ma anche curioso.
  • “Vi abbiamo visto ragazzo come noi. Non era un’allucinazione, fidatevi, poiché ogni volta che stiamo insieme noi vi vediamo giovane e voi stesso non vi sentite di poter fare tutto ciò che non avreste mai fatto prima? Ma quando siete solo, gli altri, gli adulti, vi vedono come il solito vecchio professore, per questo neanche notate la differenza.

Allora dovete ridipingere la casa.”

  • “Ridipingere la casa?”
  • “Sì, ridipingere la casa: scura fuori e chiara dentro, come è nella vostra natura.”

 

Si sedette su uno dei cuscini bianchi a osservare il vuoto, a non porsi domande, solo a rimuginare su se stesso, su quanto avesse sbagliato sul proprio conto. Non parlarono più e dopo poco li accompagnò fuori.

Si rintanò in casa per alcuni giorni, a pensare non pensare, a fare non fare, ma ormai la sua vita non era più quella delle abitudini e della monotonia e alla fine si decise: ridipinse la casa.

 

Scotland The Brave – Dropkick Murphys

 

L’interno della casa aveva ora un aspetto opposto, di ampiezza, calma e freschezza, ed egli si sentiva più a casa che mai.

Invitò nuovamente i ragazzi, i quali si complimentarono poiché anche quell’ostacolo era stato ormai superato.

S’intrattennero e chiacchierarono e poi, prima che tutti se ne andassero, chiese al solito ragazzo di restare ancora un po’, poiché aveva una cosa d’una certa importanza da dirgli. Quest’ultimo rimase, anche se era un po’ spaventato, un po’ eccitato e un po’ curioso, e si sedettero sul divano, col fuoco acceso e la neve a fiocchi, e il vecchio disse:

 

  • “Sai, forse non lo avresti mai detto ma ho da sempre un unico grande sogno che finalmente sento il bisogno di rivelare.”
  • “Ah! Sapete che proprio prima di conoscervi lo pensavo? Sentivo che non eravate solo ciò che mostravate, seppur mi sia sbagliato e mi abbiate colto di sorpresa, ma come farvi uscire fuori? Ed eccovi qua, a raccontarmi il vostro sogno.”
  • “Capisco. Ebbene, non prendermi in giro, ma il mio unico grande sogno è… uno… unico… e…”
  • “E grande, lo so. Ditemelo, non abbiate paura.”

 

Tirò un sospiro profondo e:

 

  • “Suonare la cornamusa…”
  • “Suonare la cornamusa?”
  • “Sì, suonare la cornamusa!
  • “Suonare la cornamusa… Ma è fantastico, eccezionale, inaspettato, meraviglioso. Oh, mio nonno ne sarà felicissimo ed entusiasta! È il più bravo suonatore di cornamusa del Mondo, vi rendete conto? Fate i bagagli, non perdete tempo, domani si parte!”

 

Sovraeccitato, si alzò di fretta, corse verso il luogo in cui si sarebbe dovuta trovare la porta e sbattè contro la libreria, portando con sé alcuni libri e un bel bernoccolo, tutto sotto l’occhio vigile del vecchio che lo guardava incredulo. Nessuno dei due si mosse per qualche secondo, poi il ragazzo scoppiò a ridere e così anche il vecchio.

L’indomani partirono.

 

The Gael – Royal Scots Dragoon Guards

 

Arrivarono al Paese del nonno del ragazzo e subito furono invasi da un’aria fresca e nuova.

Il vecchio non aveva mai viaggiato all’estero, mai avrebbe immaginato di poter vedere, alla sua età, tutta quella bellezza, di quei fiumi e cascate che scorrevano veloci, di quelle onde che si infrangevano così alte sugli scogli, di quelle montagne così verdi, e sentire quell’aria di libertà e freschezza che mai così forte aveva sentito.

Decisero di prendersi un solo giorno dal loro arrivo per sentire meglio quanto fosse bello il Mondo lontano da casa, visto con occhi nuovi, sentito su una nuova pelle; da quel giorno in poi l’avrebbero visto sempre e non avrebbero più sentito il distacco.

Arrivati alla fine del percorso che avevano stabilito che era ormai notte, il ragazzo rammentò al vecchio professore di non allontanarsi da lui durante le lezioni con il nonno , poiché egli insegnava solo a bambini e ragazzi e solo in quel modo avrebbe potuto sempre vederlo nella sua forma fanciullesca. Detto ciò, andarono a dormire ma il vecchio non chiuse occhio: era l’eccitazione dell’attesa per un sogno che s’avverava.

Allora guardò la luna piena per quasi tutta la notte, dedicandole i più amabili versi, i più felici, i più belli. Piovve leggermente quella notte e si creò un’atmosfera velata che gli fu d’ispirazione, tanto che uscì in cortile e girò su se stesso con le braccia aperte e danzò, rise e si sentì giovane per la prima volta e vivo.

Ormai stanco, decise di ritornare in camera e di sedersi sulla finestra ad aspettare l’alba di quel sogno, senza che il sonno, accompagnato dalle sue paure e dai suoi rimorsi, bussasse ai suoi occhi.

 

Era Il giorno, se lo sentiva sotto la pelle, sentiva il petto bruciare, il formicolio nelle mani e il sorriso scomporsi in un insieme di frammenti di gioia. Era come nascere di nuovo, ma stavolta scegliendolo, scegliendo come, dove e perché – o forse stavolta era stata la vita a scegliere lui.

Quindi conobbe il nonno, che non era altro che l’opposto di ciò che era stato, nonché uguale a lui. Parevano fatti della stessa sostanza!

Egli non tardò a mostrargli la cornamusa, che sarebbe diventata sua alla fine del percorso, ma quando il vecchio vide per la prima volta lo strumento che aspettava di suonare da una vita, non vide una cornamusa qualunque, essa gli si presentò con canne d’oro che uscivano da una sacca in tessuto d’argento contenente il suo vissuto, i suoi pensieri e le sue emozioni, e quando la toccò, sentì il calore d’una stella e si sentì trasportare per i sentieri della galassia, e quando finalmente la prese in mano gli si plasmò addosso e diventarono un tutt’uno, com’egli ormai da tempo aveva deciso per il suo destino.

Così, partì per il suo ultimo grande viaggio, che durò mesi o anni e che lo portò per vie mai del tutto ignote poiché le aveva conosciute nella sua immaginazione e nei suoi sogni. Tutto ciò era, però, reale, palpabile e, nonostante tutto, incredibile e gli fece comprendere che non era mai stato solo nella sua profonda solitudine, gli fece comprendere la futilità del tempo e dell’età.

Così, dopo mesi o anni si concluse il suo viaggio, ma solo perché ne potesse cominciare un altro tutto nuovo in una terra che conosceva come le sue tasche. E tornò a casa, col ricordo indelebile nella valigia, in mano il suo sogno e negli occhi l’immagine del ragazzo che gli aveva restituito una vita che il tempo si era rubato.

 

Arrivarono al loro Paese e l’aria appiccicosa, il sole fioco, l’odore di Senor, il suono del Mido e la bellezza di Sàbor cancellarono quella silente nostalgia che si erano portati dietro.

Tornarono alle loro case a riposarsi, ma l’eccitazione non lo permise né all’uno né all’altro.

Il vecchio, solo, nel silenzio della sua dimora che da tempo ormai aveva dimenticato e con cui non era più abituato a convivere, mise in moto i pensieri così che facessero rumore e gli facessero compagnia, ma uno in particolare bussò alla sua porta… Esatto, alla sua porta!

In quel momento, sentì di dover fare un’ultima cosa nella vita per essere pienamente se stesso, completo: doveva disegnare quella porta, scavarla nel legno, renderla visibile e apribile. E lo fece, senza se e senza ma, poiché ormai da tempo aveva smesso di farsi domande o di mettersi in dubbio, e quando la terminò, organizzò un’inaugurazione a cui nessuno andò, ma per nulla scoraggiato, prese la sua cornamusa e andò egli stesso a chiamare a sé la gente.


Gravel Walk – The Rogues

 

Suona la cornamusa.

La sentite?

È una parata in cui sfila, solo, quest’uomo, per farsi sentire dalla gente e per farsi vedere.

Tutti s’affacciano alle finestre con espressioni interrogative, mentre i piedi si muovono da soli: è la magia della musica.

Scendono tutti, giovani, adulti e vecchi s’uniscono alla parata coi loro strumenti arrangiati e con essi i suoi ragazzi, prontamente schierati ai suoi lati, il solito alla sua destra.

Ora tutti lo vedono a intermittenza, vecchio-giovane, giovane-vecchio, poi solo giovane e iniziano a credere alla magia e alla musica, e quando s’aggiungono i corvi gracchianti, il fiume chiacchierone, i ruggiti dei leoni, le melodiche zampe di milioni di formiche, i battenti che sbattono su tamburi di vetro indistruttibili, si sentono le voci dei soli e dei muti, che hanno smesso di esserlo, e quelle della gente, che ha smesso di essere solo rumore.

Non è più solo, in questa parata un po’ buffa, un po’ surreale, quest’uomo.