Lidia Marsili - Poesie e Racconti

PETALI DI ROSE ROSA (versione con finale felice)

 

Sul tuo giovane pube
esposto candidamente
e senza pudore
al mio amoroso sguardo,
avevo cosparso petali
di rose rosa
raccolti nel tuo
giardino incantato.
Rigorosamente di colore rosa e setosi
come le pieghe
della tua vulva,
erano quei petali.
Il gentile soffio
di Zefiro, con la
complicità di Eros ed Afrodite, penetrò
tra le fessure della finestra ove si era
annidata la luce della luna,
i petali sparpagliò sul tuo letto di ragazza
dove, languidamente, giacevi.
La tua bellezza,
cosi evidente, così fragile, così impermanente, quel vento birbante
nella sua completezza
a me svelò.

Nel tuo sguardo
acceso annegai

e poi, preso da un desiderio folle di te
nel letto, anch’io mi poggiai iniziando
a baciare ogni parte di te,
mentre la luna nei tuoi occhi si rifrangeva


UN DONO PER TE


Stamane, di buon’ora
sono uscito a cercare
un dono per te.
Tutte le vetrine dei negozi
ho sbirciato ma nulla ho trovato
di adatto a te.
Una collana di perle
potuto non avrebbe magnificare di più
il candore dei tuoi denti;
un paio di orecchini di corallo
potuto non avrebbe rendere di più
li tuo roseo incarnato;
un anello con un diamante
potuto non avrebbe illuminare di più
il tuo magnifico sorriso:
un bracciale di ametista verde
potuto non avrebbe accendere di più
il verde selvaggio dei tuoi occhi;
un ciondolo di rubino rosso
potuto non avrebbe di più
esaltare il fuoco della tua passione.
Ho pensato e ripensato
ed a casa mi sono recato
dove ho scritto una poesia
perché tante erano le parole
che mi suggerivano il mio amore
sconfinato per te.
La mia poesia ed un fiore
ti ho donato
e, quando, da me ricevuti li hai
il tuo sorriso ha parlato per te


 

TI DIMENTICHERÒ


Ti dimenticherò
quando le rose perderanno le spine;
quando gli aquiloni
non si sollevarono
in presenza del vento;
quando la pioggia
si trasformerà
in petali cangianti;
quando i tuoni
saranno prodotti
da tamburi di latta;
quando la luna
oscurerà per sempre il sole;
quando le nuvole
smetteranno di veleggiare leggere
nel cielo;
quando le stelle
imploderanno e non
illumineranno più
le nostre notti buie;
quando sulla terra
impererà un eterno inverno.
Ti dimenticherò solo quando perderò
il senso della mia
vita solitaria e raminga;
quando il mio cuore ferito
dalla tua assenza
smetterà di battere
all’unisono con il tuo;
quando perderò per sempre il mio sorriso
e la mia anima.
Allora e solo allora..
ti dimenticherò….
forse….


 

CHIUDI GLI OCCHI E…


Immagina che io sia
l’aria che sfiora
la tua pelle…
il pensiero costante
che naviga nella tua mente…
l’acqua fresca
che scorre sulla fronte riarsa…
il fuoco ardente
che riscalda
le tue membra intorpidite…
l’essenza del tuo
profumo preferito
che inebria
le tue narici….
l’energia intensa

che risveglia
tutti i tuoi sensi…
le mani inafferrabili
che esplorano
la profondità del tuo essere…
le parole che descrivono
le tue emozioni…
Chiamami per nome
e verrò da te
sulle ali del
mio enorme desiderio di te
perché senza nome
non ci può essere amore


 

UN GIORNO IN MENO, UN GIORNO IN PIÙ


Anche oggi
stai sorgendo sole…
Stai sorgendo
per illuminare
le umane miserie;
per dare una speranza
a chi non l’ha più;
per fornire un’illusione
a chi si crede
invulnerabile;
per scandire il tempo
che manca a chi conosce già, almeno in parte,
il proprio destino;
per alimentare
l’indifferenza di chi
continua a calpestare
un bisogno di amore;
per lenire con il tuo tepore
il cuore di chi

non riceve più attenzione;
per evitare che
il cuore di chi amore
non sa più dare
a lungo andare
di ghiaccio diventi
Anche oggi, sole
accendi i colori
e risvegli attorno a te
l’estrema bellezza
nascosta nella fugacità.
Anche oggi, sole
porgi le incognite
di un giorno
che rende tristi
coloro che ne
contano uno in meno perché, loro malgrado,
tanta fatica compiono per gesti
semplici e scontati.
Anche oggi, sole, con la tua luce
rendi felici coloro

che ancora riescono 

a scorgere un giorno in più
e a camminare contenti,
lasciando da soli
coloro che più
non possono
compiere un passo
dietro l’altro.
Oh, mio sole,
al di là di tutto,
una sola cosa ti chiedo:
un po’ di tregua
per vivere questo
giorno in meno per me
con la pienezza e la gioia
di chi lo vive come
un giorno in più…


 

AVREI VOLUTO….


che tu fossi vicino a me
quando ho deciso di affrontare
i miei mostri;
che tu mi cingessi
in un caldo abbraccio
per fugare tutti i miei timori;
che tu mi prendessi per mano
per evitare di cadere nel vuoto;
che tu mi aiutassi a sradicare
dalla mia mente i fantasmi
che infestano le mie notti solitarie.
Avrei voluto che tu mi porgessi
il fuoco del tuo calore per
far sciogliere il ghiaccio
depositatosi sul mio cuore;
che tu mi leggessi una poesia,
anche non tua, per
cullarmi con il ritmo delle parole;
che tu mi guardassi
come la prima volta per farmi
sentire bella e desiderabile come allora
che tu ascoltassi con me
una musica suadente per
lenire le ferite del mio animo inaridito
Avrei voluto…..condizionale passato!
Peccato che il condizionale passato non si
si sia trasformato in indicativo presente
ed io mi sento sempre più
senza sponde e senza remi
come una zattera in balia della tempesta.


 

PASSEGGIATA SENZA META


Lungo le vie
della città antica,
stamane, ho passeggiato,
senza meta e senza scopo,
tra un’umanità indifferente
e vetrine colme di niente.
Ho camminato
con il mio passo sempre
più indolente,
sbilanciata e sofferente,
mentre volti e sguardi
scivolavano su di me ciecamente
Passeggiando e camminando
a te pensavo,
a quando, qualche anno fa,

mi dicesti, amorevolmente,
che la tua vecchiaia con me
avresti voluto trascorrere fermamente.
Ora la città io giro,
curvata da una forza maligna
che da me, giorno dopo giorno,
ti allontana e ti fa paura
mentre tu, arditamente,
sali e scendi su impervi sentieri
con lo sguardo attento a sorvegliare
i passi sicuri di altri ma non i miei,
che per loro conto, come burattini
senza fili, s’ingarbugliano sempre di più.


 

IL MIO CUORE


Sì, per un attimo
breve come un battito di ciglia,
eterno come il mio amore per te,
il mio cuore, oggi,
si è fermato……
non voleva più battere
senza di te.
L’ho sentito
si è fermato sul bordo
del talamo nuziale
che, un tempo, tu stesso
avevi costruito per me
e lì rimarrà, ammutolito.
La tua mano, irrigidita,
trattiene il cuscino che custodisce
l’impronta del mio capo
Nei tuoi occhi, fino a ieri
colmi di luce, sostano
le ombre cupi di una notte priva di stelle
mentre i colori dell’alba allietano il resto
del mondo che più non contempla nè te nè me
Sulle tue labbra un bacio ho deposto
ma il tuo respiro con il vento se n’è andato
ed io, a rincorrere parole prive di senso,
sono rimasta su bordo del talamo
a reggere da sola
il peso del mio cuore…

 


LA CASA DI PIETRA

 

Il suo nome era Pioggia Che Ristora. Si racconta che alla sua nascita, avvenuta in un torrido giorno d’estate, una pioggia violenta ma benefica si era riversata sui campi aridi e sterili, lenendo la siccità che imperversava da tempo. Il cielo opaco e lattiginoso si era finalmente rinfrescato e l’aria risplendeva tersa. La capanna, di un’unica stanza e senza finestre, si era riempita dei vapori esalati dalla terra che, sotto forma d’impalpabile nube, si dirigevano verso il cielo. I suoi vagiti erano stati salutati da una lupa, che si era furtivamente avvicinata all’abitato penetrandovi chissà come, e da un’aquila, che, volando a bassa quota, aveva disegnato cerchi concentrici sul lembo d’azzurro che delimitava il tetto della capanna, catturando i colori dell’arcobaleno. La lupa e l’aquila erano poi entrate nella piccola abitazione, con la tranquillità di chi si avvicina alla propria tana o al proprio nido. Si erano dirette verso la neonata e, lambendola delicatamente rispettivamente con il muso ed il becco uncinato, le avevano lasciato in dono una piccola parte di sé: tre peli bianchi e neri e tre piume. All’interno, Pioggia Che Ristora era sola: era come se fosse stata partorita dalla pioggia di cui avrebbe portato il nome. 

Storditi dallo stupore, gli abitanti del villaggio, avevano assistito allo strano fenomeno. Non erano abituati alla presenza ravvicinata di creature selvagge né, tanto meno, a nascite miracolose. Poiché amavano una vita tranquilla, priva di sorprese, avevano costruito attorno al loro abitato alte mura e non si avventuravano mai fuori da esse. Vivevano all’insegna del motto “Chi si contenta gode” e del “Chi lascia la strada vecchia per quella nuova, sa quello che perde ma non quello che trova”. La loro comunità era disciplinata da poche ma salde leggi, che tutti diligentemente rispettavano. Nel passato, qualche testa matta aveva caldeggiato l’abbattimento delle mura ed aveva cercato di aprire varchi. Ma la comunità aveva prontamente reagito, punendo i trasgressori con l’esilio.

All’esterno, la foresta si estendeva in tutta la magnificenza del suo mistero. Nessuno, però, voleva o poteva ascoltarne l’intrigante richiamo.

La comunità si riunì in assemblea. Doveva essere assunta al più presto una posizione. Episodi inconsueti, come quella nascita, non potevano essere tollerati perché rischiavano di scardinare i ritmi e le convinzioni su cui la comunità stessa basava la propria esistenza. Cosa sarebbe successo se il selvaggio ed il miracoloso avessero trovato posto nel cuore di ciascuno? L’anarchia avrebbe avuto il sopravvento e l’ordine sarebbe stato compromesso per sempre. No, no! Un rischio del genere era assolutamente da evitare. Al termine di un’accesa discussione, si decise, all’unanimità, di perlustrare attentamente le mura per arginare eventuali brecce, di innalzare una rete di protezione sopra i tetti delle abitazioni per evitare incursioni indesiderate dall’alto e di abbandonare Pioggia Che Ristora nella foresta. Dalla folla indistinta, una sola voce si levò per protestare contro quest’ultima decisione.

La vecchia sembrò sbucare dal nulla; l’abito di tessuto grezzo un arcobaleno di colori contro il grigio della piazza. Il viso appassito era segnato da infinite rughe; una fascia rossa, gialla, verde, blu e arancio le cingeva il capo; le piccole braccia scarne sorreggevano una cesta. Un raggio di sole le dardeggiò sul viso. Tutti la riconobbero. Era Mano Che Lenisce, la madre di Mente Colorata, l’esiliato!

Mano Che Lenisce viveva al margine della comunità. Nessuno poteva accusarla di non rispettare le regole ma, ciò nonostante, c’era in lei qualcosa di indefinibile e di inafferrabile che induceva gli altri a tenerla a debita distanza, tranne quando avevano bisogno di ricorrere a lei in virtù della capacità delle sue mani di lenire il dolore.

Quando prese la parola, nel suo sguardo giovanile riverberano bagliori di visioni lontane, colorate come i suoi abiti! L’immagine di suo figlio le era apparsa, nel volo dell’aquila! Per un breve attimo, il clamore si arrestò dinnanzi all’incedere della figura minuta e la magia del silenzio invase la piccola piazza.

Mano Che Lenisce non proferì grandi discorsi. La sua essenzialità la manifestava anche nel linguaggio. Sapeva che le parole non sarebbero servite a convincere menti ottuse. Si limitò a dire che nessuna ragione poteva giustificare il sacrificio di una vita; poi, entrata nella capanna di Pioggia Che Ristora, sollevò delicatamente la piccola, sistemandola nella cesta. Tentò di raddrizzare la sua schiena ricurva per gli anni e, con passo malfermo ma determinato, si allontanò, nel sole, verso la foresta, con il suo piccolo fardello. Da sola, si era sottoposta alla pena all’esilio, seguendo le orme di chi l’aveva preceduta.

Nessuno osò fermarla.

Da un residuo capannello di nuvole, un fulmine saettò nel cielo ed incenerì la capanna che aveva ospitato Pioggia Che Ristora. La comunità salutò l’evento come prova della saggezza della decisione presa. A nessuno venne in mente d’interpretare il segno come disapprovazione.

Mano Che Lenisce e Pioggia Che Ristora s’inoltrarono nella foresta. Vagarono fino a che non giunsero in prossimità di un grande albero cavo, che elessero a propria dimora. 

Gli anni trascorsero. Pioggia Che Ristora divenne una bella fanciulla, che ammaestrava scoiattoli, inseguiva farfalle, rincorreva caprioli. Nei suoi occhi, dello stesso colore delle felci, si concentrava tutto lo stupore del mondo. Non temeva la foresta, che era la sua casa. Si allontanava spesso senza paura di perdersi; sapeva che, al ritorno, Mano Che Lenisce l’avrebbe stretta nel suo abbraccio. Adagiato sull’esile e bianco collo, un amuleto la proteggeva: tre peli bianchi e neri e tre piume, legati tra loro dalla bava di una lucente ragnatela, a cui Mano Che Lenisce aveva conferito robustezza e spessore.

Pioggia Che Ristora non aveva compiuto ancora il suo undicesimo anno quando, un giorno, mentre stava raccogliendo funghi insieme a Mano Che Lenisce, all’improvviso, una spessa nebbia cadde loro addosso. Pioggia Che Ristora avvertì un grande peso, come se il mondo le fosse piombato sulle esili spalle. Con voce strozzata, chiamò Mano Che Lenisce. Non ebbe alcuna risposta. Si guardò attorno. Un senso di perdita l’aveva afferrata e le chiudeva la gola in una morsa d’acciaio. Smarrita, al dileguarsi della nebbia, si rese conto che Mano Che Lenisce era scomparsa. Su un nembo leggero, rimasto impigliato sopra un ramo dell’albero cavo ove avevano finora dimorato, le parve di scorgere, come in sogno, il volto di Mano Che Lenisce, circondato da due figure: un’aquila dalle grandi ali e una lupa dalle robuste zampe.

Pioggia che Ristora non sapeva nulla del suo passato; non aveva idea di dove collocare il suo futuro. Sul presente incombeva la visione della nebbia che le aveva portato via Mano Che Lenisce.

Per un attimo, ebbe l’impressione che qualcuno le sfiorasse dolcemente la fronte. Sentì la carezza di Mano Che Lenisce. Alzò il braccio per afferrare il nembo, ma questo si dissolse prima che lei potesse raggiungerlo. 

Pioggia Che Ristora iniziò a vagare per la foresta; sul viso, l’impronta della carezza svanita. I suoi passi erano grevi e pesanti. Stava perdendo la leggerezza di un tempo. Era come se, ad ogni passo, un piccolo sasso le si depositasse sul cuore, fino a che l’ammasso dei sassi assunse le dimensioni di una montagna. Non aveva mete. Qualsiasi direzione andava bene, purché la conducesse lontano. Camminò fino a sfinirsi. Camminò fino a quando il verde lussureggiante della foresta cedette il posto all’ocra spento di un arido terreno. Giunse in un luogo brullo, quasi desertico, nel bel mezzo del quale sorgeva una grande casa di pietra. Durante il percorso non aveva incontrato anima viva, neppure animali. Facendo leva sulle sue ultime forze, si diresse verso la casa e bussò. Nell’attesa, le sue mani si strinsero attorno all’amuleto che le ornava il collo. I peli bianchi e neri e le piume fremettero, come foglie esposte al vento. Sulla soglia buia apparve un uomo calvo dagli occhi di ghiaccio, dalle labbra strette e dall’espressione tetra. L’uomo l’accolse e la invitò ad entrare. 

Pioggia Che Ristora entrò nella casa di pietra. Le pareti erano grigie, come i sassi che le si erano depositati sul cuore. Dai vetri, spessi ed opachi, filtravano i raggi di una luce opaca. Lo sguardo di Pioggia che Ristora aveva perso lo stupore del mondo. 

Non ci fu bisogno di parole, tra loro. Pioggia Che Ristora comprese che l’ospitalità che l’uomo le offriva comportava un prezzo. Da una parte un perenne vagare senza radici, dall’altra l’oblio di sé. La scelta cadde sull’oblio di sé.

Pioggia Che Ristora si tolse dal collo l’amuleto e lo consegnò all’uomo dagli occhi di ghiaccio. Da allora, l’esistenza della fanciulla si dipanò, giorno dopo giorno, nella più stretta osservanza del rigore. Su ordine dell’uomo dagli occhi di ghiaccio, si spogliò degli abiti leggeri, dello stesso colore di quelli di Mano Che Lenisce, ed indossò una specie di armatura, che non toglieva mai, neppure nel momento del sonno. Il gelo che promanava dalle pareti della casa di pietra, che all’inizio l’aveva fatta tremare, divenne un suo compagno abituale. Alle piaghe che l’armatura aveva procurato al suo corpo minuto, non faceva più caso. Anche il dolore era diventato un’abitudine. Le sue giornate si declinavano tutte allo stesso modo, nel rispetto maniacale dei ritmi e dei compiti imposti dall’uomo dagli occhi di ghiaccio. Non c’era spazio per altro. 

Solo in pochissimi istanti, nell’arco della giornata, l’ordine dell’oblio subiva scosse. All’alba ed al tramonto, nei due momenti in cui il giorno e la notte s’incrociano, una sorta di sospensione del tempo favoriva il riaffiorare di emozioni sepolte, di desideri nascosti, di aneliti inafferrabili. Nella bruma che, spesso, accompagnava il trapasso del giorno e della notte e viceversa, Pioggia Che Ristora scorgeva due figure, un’aquila ed una lupa, che, però, si dissolvevano velocemente nell’aria non appena la troppa luce o il troppo buio prendevano il sopravvento. Nel cuore di Pioggia che Ristora rimanevano esiti di incolti presagi.

Un giorno, l’uomo dagli occhi di ghiaccio fu costretto ad assentarsi. Era stato chiamato dalla comunità che abitava il villaggio dalle alte mura, dove era nata Pioggia Che Ristora. Nel villaggio stavano di nuovo accadendo strane cose: l’aria era stata invasa da petali profumati che ottenebravano la mente dei suoi abitanti, inducendoli a danzare senza sosta. Non appena, caduti a terra, venivano spazzati, nell’aria se ne riformavano in numero maggiore ed il loro profumo diventava sempre più ammaliante. I petali non potevano essere esiliati: contro di loro, le decisioni della comunità nulla potevano. C’era bisogno dell’intervento di una volontà superiore: della volontà di ghiaccio, che tutto immobilizza. L’uomo si allontanò, col suo passo greve. La testa calva, una liscia palla su cui la luce rimbalzava senza riuscire ad illuminarla.

Pioggia Che Ristora rimase sola nella grande e fredda casa di pietra. Cominciò a perlustrare tutte le stanze, fino a che i suoi inconsapevoli passi la condussero nella taverna. Si guardò attorno. La sua attenzione fu catturata da una stufa di maiolica in disuso, invasa da fitte ragnatele. Sulle piastrelle, consunte dal tempo, ombre indistinguibili di figure dipinte d’azzurro. Aprì con cautela il piccolo sportello che celava il ventre della stufa. Tra residui anneriti di un fuoco antico, estrasse, miracolosamente integro, un amuleto: lo stesso che, un tempo, aveva cinto il suo collo innocente. La forza distruttrice del fuoco aveva dovuto soccombere alla perseveranza della memoria. Dalla nebbia dell’oblio le giunse, nitido e prepotente, il volto di Mano Che Lenisce. L’armatura che indossava iniziò a scricchiolare. Non erano scricchiolii sinistri; erano note di una melodia sconosciuta che, con le sue vibrazioni, stava disintegrando l’armatura. Una forza nuova s’impossessò di Pioggia Che Ristora. I suoi passi, divenuti leggeri, la condussero, stavolta, fuori dalla casa di pietra.

Un vento tiepido l’accolse. Un vento che lei bevve d’un fiato con i pori dilatati di tutto il suo corpo, libero dall’armatura. Ranuncoli, nutriti dal freddo, erano spuntati dappertutto. Il terreno attorno alla casa non era più brullo: era diventato un tappeto di colori. Rosso, giallo, blu, arancio…come la fascia che aveva cinto il capo di Mano Che Lenisce. Nel mezzo della radura, l’albero cavo si ergeva maestoso. Accompagnate da strisce di luce ritagliate dalle nuvole che, cullate dal vento, si ricorrevano nel cielo, un’aquila ed una lupa le si avvicinarono.  Ripetendo un gesto dall’antico sapore, le lambirono il volto con il muso ed il becco uncinato, in una carezza avvolgente.  Lo sguardo mobile e acuto dell’aquila e la saldezza delle zampe della lupa, le avevano fatto comprendere che le radici vanno cercate dentro di sé, sforzandosi di vedere oltre le cose così come ci appaiono. L’oblio non era la panacea del dolore; era il tiranno dell’anima. 

Pioggia Che Ristora riprese il cammino che aveva interrotto, lasciandosi alle spalle la casa di pietra. A turno, l’aquila e la lupa le offrirono il proprio dorso. Sul dorso della lupa, riscoprì la selvaggia bellezza dei sentieri nascosti; sul dorso dell’aquila, riscoprì l’eterea meraviglia dell’aria. 

Insieme giunsero nei pressi del villaggio dalle alte mura. Quello era il luogo dell’eterno partire e del perenne arrivare. I petali, pur con la loro leggerezza, erano riusciti a scavare brecce. L’ingresso non fu difficoltoso. La comunità, stranamente in festa, li accolse danzando. Nessuno più si curava di spazzare via i petali; tutti se ne adornavano, intrecciando ghirlande. Il selvaggio e il miracoloso non facevano più paura. 

Dell’uomo dagli occhi di ghiaccio nessuna traccia! Si era liquefatto come neve al sole nel momento in cui Pioggia Che Ristora aveva ritrovato il suo amuleto. In terra, una piccola pozza di fango, ove era annegato il timore.

Fu allora che le oscure trame degli avvenimenti si chiarirono. 

Nulla accade a caso! Pioggia Che Ristora era stata il riscatto dall’ottusità. La sua liberazione aveva permesso la liberazione di tutta la comunità. Pioggia Che Ristora era l’anima errante che nessuno può circoscrivere; era lo spirito libero che nessuno può impunemente esiliare.

Il villaggio dalle alte mura assunse il nome di villaggio senza confini. La parola esilio venne da esso bandita. L’aquila e la lupa ne divennero il simbolo ed effigi a loro dedicate vennero posizionate agli angoli del villaggio.

È per questo che, ai viandanti che non temono di perdersi, le effigi continuano ad apparire in qualsiasi luogo si trovino: la mancanza di confini le rende mobili.


 

 

LE FARFALLE DALLE ALI IMMACOLATE

 

Era buio e stretto, quella specie di tunnel ove si trovavano in quel momento. La fatica per uscirne, tanta. Ogni sforzo, anche il più piccolo, produceva un lancinante dolore. Ma, più che il dolore, ciò che rendeva difficoltoso il cammino era il timore dell’ignoto. Dove le avrebbe condotte il tunnel? La direzione era segnata. Non erano state loro a scegliere il percorso: lo subivano in virtù di una necessità superiore.

Non si conoscevano. Ignare l’una dell’altra, piene solo delle rispettive solitudini, si abbandonavano al loro processo di trasformazione senza esserne consapevoli. Erano vicine, ma non si vedevano: il bozzolo in cui erano reciprocamente rinchiuse impediva la possibilità di qualsiasi visione. Strane protuberanze, che cominciavano a percepire sul proprio dorso, le ostacolavano. Sentivano il minuscolo corpo tendersi fino allo spasimo. I muscoli erano come corde di un violino in mano ad un principiante: ne avvertivano il fastidioso stridio. Non sapevano ancora che lo stridio può essere l’esordio dell’armonia. I loro movimenti erano lenti. Man mano che progredivano, le protuberanze si facevano più ingombranti ma più forti. Nella cecità, indotta dal buio, intuivano che ormai mancava poco. Ancora qualche piccolo sforzo e il percorso si sarebbe compiuto. Al di là del timore, un inizio, comunque, le attendeva, con tutte le sue incertezze ma anche con tutto il suo stupore.

All’esterno dell’involucro, che avrebbe costituito ancora per un breve periodo di tempo la loro prigione ed il loro rifugio, un cielo tempestoso, ancora intriso di un gelido vento, sembrava farsi gioco della volontà della primavera. 

Il primo giorno di primavera non era stato accolto dal gentile soffio di Zefiro ma da nubi che piangevano l’ira puerile dell’inverno, incapace di rassegnare il passo al disordine festoso della nuova stagione.

Il cielo, però, non era uniforme. Tra le nubi si facevano lentamente largo piccole e timide pozze d’azzurro.

Ecco, un ultimo grande colpo e, quasi contemporaneamente, si liberarono del fastidioso involucro che le rinchiudeva. I loro piccoli e mobili occhi si affacciarono sul mondo.  Il furore della pioggia, che continuava ad imperversare, ed il grigiore plumbeo delle nubi minacciose le spaventò. Si ritrassero, nascondendosi dietro una specie di paravento di cui ancora non conoscevano la natura. L’acqua le avvolse disorientandole e percotendole.  Avvertirono una sensazione di privazione. Era come se la loro fatica non avesse trovato un adeguato compenso.

Inaspettatamente, da una pozza d’azzurro, un raggio di sole si allungò verso di loro e le illuminò. I loro sguardi, resi coraggiosi dalla luce, si incrociarono. L’una trovò nell’altra il proprio specchio. Cosa erano?

 Erano farfalle: due splendide farfalle dalle grandi ali immacolate. La miracolosa luce del sole, che allontana il grigiore del mondo, aveva annullato timori e imperfezioni. Le ali immacolate erano la loro difesa dal buio.  D’ora in poi avrebbero seguito sempre la luce.

Attesero che la pioggia cessasse. Non volevano infangare le ali immacolate. Quando le nubi si sciolsero nelle loro ultime lacrime, s’involarono nel cielo terso, rincorrendosi. Sfrecciavano veloci e sicure. Erano riuscite a vincere la paura del buio, il timore dell’ignoto ed il furore della gelida pioggia. Nel loro volo avevano incrociato altre creature simili a loro, da cui si erano però allontanate. La maggior parte delle altre farfalle aveva ali colorate. Alcune le avevano bianche, sì, ma di un bianco impuro che, in trasparenza, rivelava imperfezioni e striature. La trama delle loro era, invece, perfetta. Nessuna macchia ne adombrava il candore. Anche la neve non avrebbe potuto sostenere il confronto. 

Insieme decisero di fondare una loro comunità. Oh, sì, avrebbero mantenuto i contatti con il resto del mondo, di cui facevano comunque parte, ma il loro candore era il segno di un diverso destino: non potevano ignorarlo.

Scelsero un luogo isolato, da cui, con infaticabile determinazione, estirparono erbacce con la loro minuscola ma tenace bocca. Nessuna impresa era impossibile per loro. Bastava armarsi di volontà e di pazienza! Terminata l’operazione di pulitura, vi trasportarono semi di fiori dalla corolla rigorosamente bianca. Non potevano correre il rischio di inquinare il loro candore esponendolo agli altri ibridi colori. No! Gli altri colori procurano disordine; troppe sfumature disorientano. Ciascuno poi comincia a pretendere di essere preso in considerazione, di avere un suo posto, una sua credibilità, un suo ruolo. Troppo clamore, troppo frastuono! Molto meglio il silenzio e la verità di un solo colore! 

Bianca e Lucore, così avevano deciso di chiamarsi le farfalle dalle ali immacolate, rimirarono compiaciute la loro opera. Non c’era nulla fuori posto, nel luogo che avevano eletto a propria dimora. I fiori dalle corolle bianche erano sistemati in ordine tale da formare tanti cerchi concentrici, separati tra loro. Visti dall’alto, sembravano tanti piccoli soli bianchi senza raggi, come appare il sole nelle brumose giornate invernali. Ammessi nel regno del bianco, ma solo per farne risaltare il candore, c’erano solo il giallo dei pistilli ed il verde degli steli. 

Inseparabili, le due farfalle si avventuravano a visitare altri luoghi che, però, si limitavano a sorvolare. Non vi atterravano mai perché temevano di sporcare le ali immacolate. Nei loro viaggi non si affidavano al caso; consultavano sempre cartine e disegnavano itinerari. Volando incrociavano altre farfalle, che, colpite dal loro candore, le avevano, a volte, seguite nel loro piccolo e ordinato regno. Ma le altre farfalle non riuscivano a sopportare tutto quel bianco. Dopo un po’, il riverbero si faceva troppo intenso e gli occhi cominciavano a gonfiarsi e a lacrimare. Erano costrette ad allontanarsi.

Un giorno, dopo un violento temporale, simile a quello che le aveva spaventate al loro affacciarsi alla vita, Bianca e Lucore assistettero ad uno strano fenomeno. All’improvviso, al decrescere dell’intensità della pioggia, le altre farfalle avevano tutte diretto gli sguardi verso uno stesso punto. Con gli occhi colmi di estatico splendore, immobili, sembravano inseguire un’immagine. Incuriosita ed ammaliata, Lucore decise di avvicinarsi ad una loro per domandarle cosa le attirasse, visto che né lei né la sua amica riuscivano a comprenderne la ragione. Non vedevano nulla di più di ciò che avevano visto poco prima. Bianca la diffidò dal farlo. C’era qualcosa che la intimoriva. Si accorse, per la prima volta in vita sua, che le altre farfalle possedevano un’ombra di cui loro erano prive. Non si chiese perché mai le altre la possedessero e lei e Lucore no. Visse l’assenza dell’ombra come un altro segno di distinzione. Fu questa convinzione a darle la forza di non cedere alla curiosità. Si allontanò, invitando Lucore a seguirla. Ma Lucore non riuscì a resistere al richiamo sconosciuto dell’immagine a lei invisibile. Già da tempo, non riusciva più a trarre piacere dal bianco. Dentro di sé cominciava a sentire il fascino degli altri colori. Troppa luce iniziava ad infastidirla. Anche lei si accorse per la prima volta dell’ombra; ma, contrariamente a Bianca, il fatto che loro non la possedessero lo visse come mancanza. 

Sorda agli inviti di Bianca, Lucore si avvicinò ad una farfalla dalle ali multicolori e le chiese la ragione della loro meraviglia. 

“Stiamo ammirando l’arcobaleno”, rispose la farfalla dalle ali multicolori.

“Cos’è un arcobaleno?”, chiese di nuovo Lucore.

“L’arcobaleno è il luogo magico da cui hanno origine i colori. È un luogo a cui si arriva perdendosi!” ribatté la sua interlocutrice.

“Perché voi lo vedete e io e Bianca no?”, incalzò con fervore la farfalla dalle ali immacolate.

“Perché avete scambiato l’innocenza con la purezza di cuore. Avete peccato di presunzione. L’innocenza, data all’inizio della vita, è mancanza di conoscenza. La purezza di cuore è il frutto di una conquista e di un’accettazione della propria ombra. Dal bianco non si parte; si arriva dopo aver percorso tutte le vie dei colori, anche quelle del nero e del grigio. Vedi, non sempre è facile riconoscere l’arcobaleno dopo il temporale. Ma, solo cambiando di poco la prospettiva, si può iniziare a distinguerlo e vederlo, sempre più nitidamente.”, rispose pacatamente e saggiamente la sua nuova compagna.

Lucore si spostò, avvicinandosi sempre più alla farfalla dalle ali multicolori. Fu allora che cominciò a distinguere l’arcobaleno. Non aveva mai visto nulla di così meraviglioso. Il regno ove aveva finora abitato le parve pallido e smunto. I colori non erano disordine; erano ricchezza.

Si voltò. Bianca era scomparsa all’orizzonte, inghiottita dal crepuscolo incombente. Un sottile, tenace velo di tristezza la pervase. Peccato, Bianca non avrebbe potuto vedere l’arcobaleno. Si sentì smarrita senza la sua compagna di sempre. L’avrebbe cercata, pensò, e l’avrebbe condotta con sé. 

Spiccò il volo, decisa a raggiungerla. Ma la farfalla dalle ali multicolori la trattenne.

“Non andare!” le disse. “Bianca non ti ascolterebbe e non ti seguirebbe, ora. Non è ancora tempo, per lei. Non è pronta a rinunciare allo scudo del bianco. Ciascuno deve capire da sé che non esiste mai una sola verità e che accettarsi si può solo se si accettano gli altri, senza timore di sporcarsi le ali. Lasciala fare il suo percorso, così come tu hai fatto il tuo! Ciò che vi siete reciprocamente date finora rimarrà per sempre dentro di voi: niente potrà annullarlo!”

Lucore capì che la farfalla dalle ali multicolori aveva ragione. Avrebbe peccato di presunzione se avesse preteso di condurre Bianca verso di lei.

“Attenderò!” si disse “So che un giorno la rincontrerò!”

Nel giro che il suo sguardo fece per tornare a fissare le ultime tracce dell’arcobaleno, notò che un’ombra le accarezzava le ali, non più immacolate. “Vieni da me”, pensò. “Non ti rinnegherò.”