Lilia Bellucci - Poesie

Rosa del deserto

 

Come terra senza solco o deserto senza meta,

resto qui,

presenza senza nome, per sempre rinnego

emozioni in offerta promozionale,

lo “svendo tutto” dell’apocalisse

del sé, dei sensi, dei sentimenti,

incentivo alla rottamazione del rischio dei sogni.

Resto qui in silenzio,

rinuncio per sempre  all’ipocrisia del pathos patetico

di appetiti urbani e commerciali.

Come terra senza solco o mare senza vento,

resto qui. Non più il fare, non più il dire.

Attendo solo

il bacio di una luna nella notte oscura,

rito che mi faccia rinascere come rosa del deserto,

disorientante articolazione del sentire.

Voglio giorni ed attimi di me

come petali di una rosa del deserto.

Nel deserto voglio fiorire come rosa

al bacio della luna in una notte oscura.


 

Coltivazione del silenzio

Procurarsi vasi vuoti di varia grandezza

dedicarsi compulsivamente

allo shopping gratuito  e benefico dell’emozione naturale

 

all’attraversamento di terra umida e grassa

odorosa e seduttiva

 

attraversamento con dita come vasi vuoti

scorrimento di granuli di terra come grani di rosario

 

stringere e lasciare

 

imparare come accarezzare

 

riconoscere e sentire terra in un corpo divenuto nudo

 

anima come terra da plasmare

 

attraversare e plasmare anima come vaso,

primavera da allestire,

Flora e Zefiro da accudire,

 

demiurgica creazione tra le dita

fino a individuare radici

 

invasare, innestare, aprire

 

vaso pieno del silenzioso coltivare

vuoto di seme e di frutto

aperto all’ attraversare.


 

Stalattiti di felicità

 

Spaccarmi il cuore

con stalattiti di felicità,

incuneate

in questo antro oscuro

di solitudini e

di abbandoni e

di sterminati smarrimenti.

Spaccarmelo in mille e mille pezzi ancora,

perché non lo ricomponga più

neppure in una parvenza

di quello che era.

Tremare di paura fino al midollo,

percependo come

ineludibile

questa felicità nascente.

Sentirmi persa,

vinta,

all’angolo,

liquefatta quasi

in questo amore

silenzioso e gigantesco

come luna piena, immensa

su città ed anime assediate.

Spaccarmi il cuore e

dirtelo con i miei occhi

in questo istante.


ORFEO

 

Novello Orfeo,

procedevi dinanzi a me.

Seguimi.

Io ti guiderò,

ti proteggerò.

Conosco la via.

Poi ti voltasti

e io lessi

nei tuoi occhi

il nulla segreto

del tuo cuore.

E mi ritrassi.

Preferii le tenebre

alle lusinghe del tuo canto.

Tu neppure ti accorgesti

che persino il buio

era migliore

del tuo vano tornare e ritornare.

Continuasti il tuo canto altrove

e io non c’ero neppure allora.

Ti voltasti,

ma non sapevi guardare.


 

CARO BELLI

 

Ecco, come ogne giorno,

ricomincia ‘sto tormento d’annà a scola.

Sona er campanone e in un attimo

semo, tutti assonnati, dentro a ‘sto androne.

Firmo qua, firmo là:

registro de’ presenze, registro de classe, registro personale,

giustificazioni, circolari, communicazioni.

Me sembro ‘na scribacchina,

altro che esimia Professora.

Vabbè, semo pronti,

se comincia finalmente co’ a lezzione.

“Ehi, regazzì, hai studdiato?”

“M’è morto er gatto…c’ho er mar der panza…”

“Posso annàin bagno?” – già me chiede una,

elegantemente cor fazzoletto de carta in mano.

“E tu costì, co sta bella casacchetta,

c’hai fatto l’essercizzio?” – insisto co quella

der primo banco, er banco de’ sapientoni,

speranza de sto istituto.

Se illumina tutta e, tutta compita, dice : “Certo!

Ma stanno a casa…

L’ho lasciati sur comò!”.

E lì – penz’io- ce resteranno un ber po’.

“E tu?” – chiedo a quella affianco.

Me guarda intensa e me sorride tenerona:

“C’ho sbaiato materia, professorè…

Su feisbùk questi qua numm’hanno detto gniente,

sti fetenti!”.

“E nun c’hai er diario?” – insisto io a bella posta.

“See, professorè, lei è antica!”.

E vabbè, mò puro questa me tocca digerì,

penz’io e guardo fora a ‘sta finestra.

C’ho ‘a signora che stenne i panni

e ce guarda incuriosita dar barcone

der palazzo appiccicato a ‘sta scola anni sessanta.

Anni Sessanta…eh, già. Peccato che stamo ner 2011,

ce so eddifici de classe A, sta pe’ fini er monno e

a noi ce mancheno le sedie e a vorte

puro li banchi.

Intanto er frastuono de clacsòn, sirene, ambulanze, pompieri e

urlatori vari de prima mattina,

ce copre tutte le parole che se dicemo qua.

Faremmo mejo a sta un po’ zitti, dico io,

che er silenzio ner 2011 me sa che è l’oro del futuro.

Mo scrivo cor gessetto “rosa, rosae” e

nun c’ho neppure er cassetto,

mentre me sogno n’aula tutta mia, solo pe’ latino,

tutta colorata e piena de carte, libri, poster, giochi e

computere a volontà.

“Rosam, rosa, rosa…”

“A professorè, ma a che ce serve? E’ ‘na lingua morta!”

Caro Belli,

amico mio,

morto puro tuo como sta lingua morta,

qui ce preoccupamo tanto

de la carta, der vetro, de la plastica

che vanno affinì nella discarica,

ma mesà che in mezzo a ‘sta spazzatura

ce stanno affinì arte, musica e letteratura,

e giustizia e libbertà se stanno accatastà là,

insieme a cert’artre belle parole come pace,

amore e solidarietà.


 

Nemica di Penelope

 

Il cuore aperto,

esposto alla bufera,

lacerante amore per la vita,

travaglio cieco di cieco andamento,

come musica indecifrabile

parla oggi parole come germogli e

mi lascia stupita

sul suolo dei sogni sepolti.

I sensi dormienti                                                                                  

rispondono inquieti al balsamo inebriante.                                       

 

Ricchi d’amore

i rami si protendono nel corpo,

intrecciano anelli di linfa

sull’anulare medio,

connubio fino alla vena del cuore,

eterno foedus di comune sentimento.

I fiori all’improvviso come   pupille del cuore

scopri tra le  labbra e   l’ omero sinistro,

abbagliante fastidiosa coscienza

da preservare in eterno

come pane dorato e fragrante ad ogni risveglio.

La  mano s’intreccia intorno

alla  penna che scrive,

come liana che s’inerpica

intorno ad albero assopito

e lo solleva al cielo,

sacro alleluia di ninfe redente,

coro osannante di ogni parte di te.

Diventi così                                                                                

vorace primavera,                                                                                      

nemica di ogni Penelope,                                                                       

riottosa ad Itaca-viaggio organizzato,

donna come vela lascata al silenzio dei venti

con timone alla poggia,

fieramente protesa nel pollineo mare

del tuo nascimento.


PROMOZIONE COMMERCIALE

 

Confeziono me

come scatola di biscotti

etichetta a colori

profumo chimico

tradizione artigianale

ingredienti biologici

promesse allettanti.

Mi metto in bella mostra

sullo scaffale intermedio

ad altezza sguardo.

Usufruisco persino di una giornata di sconti.

Ma mi agito troppo.

Non riesco, sto stretta.

Questo tappo mi rinserra

e forse è male avvitato.

L’etichetta pende a sinistra.

Fa caldo, spostati.

Un movimento di troppo

e rotolo dietro lo scaffale.

Buio senza fine.

Qui non mi troveranno mai.


AUTUNNO

 

Naufragando tra vie di città

in oscuri ondeggiamenti

di auto e di semafori

incessante alternarsi di

automatismi inquietanti

tra il baluginare di

semafori e di segnali

Naufragando esule

in disperata ricerca di

significati perduti,

tento di afferrare con lo sguardo

mesti viali di alberi autunnali

involucri vuoti

mi chiedo: sono morti?

Neppure la natura resiste

al devastante non senso

del quotidiano sussistere.

Naufragando in questo mare

di vie, vicoli, strade, raccordi e

ricordi,

dove sono i sentieri del pensiero

da percorrere per dire:

io sono?

Quale salvezza nella sonnolenza

della danza di una foglia esangue

per inerzia giacente sul mio parabrezza?

Quale speranza

nel non odore di ogni cosa?

Neppure il vento travolge,

ma dominano gelo e umido

come coltre che offusca e pietrifica,

come caput Medusae

ci rendono identica sequenza di

sciarpe, ombrelli, impermeabili,

omologati annullamenti.

Desolato naufragio mattutino

il mio, il nostro andare

senza accorgerci di restare

identici a noi stessi,

perdute foglie

di un Autunno senza stagione.


Kerygma

 

Sfiorando occhi

kèrygma

di consonanza-assonanza di spiriti fratelli,

anime sorelle,

indistinto fulmineo fluire

di stati, atomi emozionali, esplosioni nucleari

come alveari,

api ronzanti nell’aria tersa

questi infinitesimali attimi di

cum-patire

con occhi che si sfiorano

atomi di vibrazioni che attraversano.

Aria calma, colma e sospesa = cuori svuotati.

Occhi che si sfiorano:

kèrygma di attese e di sorprese.

Cosa ne sarà

di me, di noi,

di questi occhi, di questi atomi ronzanti?

La lingua divien tremando

muta.

La parola giace, soggiace,

kèrygma su labbra

socchiuse e dischiuse,

richiuse.

Occhi come soglie.

Sfiorando occhi,

sfiorando soglie.

Non-parole. Non-azioni.

Solo vibrazioni. Solo presenze.

E peragere. Attraversare.


Nonostante

 

Sognandoti nonostante.

Arrendersi all’impossibilità di viverti,

io,

fragile e senza senso.

Custodirti nel cuore che

si chiude

come una corolla in tarda sera,

ostinata e ribelle.

Proibirti alla richiesta

dei miei occhi,

all’esplorazione delle mie mani.

Negarti a tutti i miei sensi.

Un po’ come morire.

Ma ritrovarti a notte fonda,

nel silenzio di tutto,

io e te,

con passi furtivi di amanti,

chiamarci nel sonno e

varcare soglie.

Esiste l’infinito amare

nel rito di questo incontrarti

altrove,

solo mio.

Sognarti,

amarti,

nonostante.