Loris Costa - Poesie

E ora il silenzio

E ora il silenzio, la chiusura sonora che ci smonta in atomi, gettandoci di fronte come Dio fece con l’uomo; sento i tuoi lacci masticare, insieme ai miei; scriveremo due storie, senza Noi.
Mi farebbe bene ridere, con tono spontaneo che non dia peso alla bulimia dell’essere.
Siamo ora vicini, non abbastanza per toccarci i fiati, non abbastanza per l’allegro spirito.
Non volto lo sguardo. Temo che la sintonia ci pervada, in un incontro di iridi al sapore di vuoto.
Ci incontrammo come due molliche su una tavola, imbevuta d’alcol, e noi nell’unico punto pulito concesso. Ridevamo, frivoli d’animo, come il riso di due Soli che si stuzzicano nel vento.
Arrivò la Luna.
La tavola fu spogliata, ristretta, sbattuta, e noi finimmo a terra, tra le briciole che mai più si ritroveranno, nella perpetua solitudine che farà dei nostri corpi
un magro fiore
sui binari.

 


 

Dalla raccolta la fenice che non volerà

1.

Sei lì,
tra la linfa di rupe
e il grasso dei pini,
nel torrido granito
ancora sporco e ribollente
di te.

 


 

2.

Non fu la sorte a sceglierti.
Forse il cloro della brina,
all’alba dello strepito,
il fremito del labbro per gelo di vita
o dell’averno.
Fumavi la luna, e l’Orsa forgiasti
con iridi di color selva e fango,
e venature accese e terree
pigmentate di santuario.
Facesti il cammino dei ciechi
nel livor duro di quella notte,
ma nel cuor tuo
inerte eri.
La tua smania è fastidio;
il tuo fiato è spartito.
Nuda,
sulle mura del monte ti ergevi
con la contezza di
una Venere,
incenerita dall’ombra.
Della tua buccia
un lembo,
che divenne seta,
per celar la nausea d’arato
e impuntire i graffi
di trama e ordito.
Nella flemma mattinale di quel solstizio
tu tramontasti in un atomo di sole,
nel volo di Icaro, di una fenice,
e la tua parola franò,
nel silenzio degli abbandonati.

 


 

3.

Di Orta i lumi
E di San Giulio le onde
Come candele di Betlemme,
spente dalla prece di lago
nell’attesa
del tuo risveglio.

 


 

Gentil seme

E’ nel partorir d’un fiore
ch’io riserbo ravviso,
l’indomita timidezza
che d’allegria il verzier dirama,
come l’aere d’un volo
che a uno a uno china il gambo.
Gentil seme, mormorami
Del tuo poetar le belle viti;
i fati di donna, che al mio cor commisti,
rosseggiano d’amor il sangue
e ‘l suo fervido impeto
sarà ‘l cavalier morente,
a riportar tuo nome
nel corteo dei tristi attesi.

 


 

 

Sei cieli, sei inverni, due lunedì

Sbiettò il sale
Dal seme dei nostri pianti,
posando nel midollo,
su una polvere di natura.
Era l’altro versante,
ove il balsamo dei larici
a sé fasciava i nudi istanti
e l’impero nostro
marciava in grida,
sotto il fuoco di sei cieli,
sei inverni
e due Lune.