Loris Grassulini - Poesie

L’ombra del passato  

  

L’ombra del passato 

oscura i nostri giorni offese mai digerite 

sogni mai realizzati  

  

e soli, biasimando sofferte rinunce  

commiseriamo i nostri passi  

  

quale tempo fu mai tanto ingrato?  

  

già nella memoria l’immagine velata 

degli anni orsono si agita frenetica  

  

Angoscia soccombi!  

Che il dì prossimo non potrà ridarci ciò che un tempo fu 

ma solo buone nuove 

che ostinati disprezziamo  

quale inutile consolazione  

a ciò che, ahimè, non sarà mai più  


 

 Vita che fugge  

  

E lascio che la vita mi scorra addosso 

di concitati attimi 

che carezzi la mia noia ed il mio volto che lieve passi la mano tra l’agitarsi folto dei miei capelli ruvidi  

  

Già il tragitto salato di una lacrima 

si asciuga sullo zigomo e la guancia ispido intaglia le aride fatture del mento  e fa da strada al prossimo tormento  

o a qualsiasi dolo che nel cuore giaccia  

  

Ascolta il suo trascorrere sereno 

che mi travolge e in vero 

ormai umiliato  

mi arrendo alle mie torme  

  

Niente di più in questi stanchi giorni urge 

Senti?  

La vita che in punta di piedi fugge  


Profezia  

  

All’alba 

l’obbligo di un viaggio pieno di sangue  

le mie lacere ferite si riaprono  

sgorgando flotti di dolore  

al risveglio il loculo angusto del corpo  imprigiona l’anima mia ribelle  

ogni idea trova presto il suo limite 

Tiranni  

vecchie oppressioni  

le torture di morali costumi  

carceri di leggi mai scritte  

Ardi o Spirito!  

Nel cuore della vile materia  

consumati al suo laido calore!  

Si avvera pian piano profezia dell’ignoto dell’Uomo dal Sacro vestito  

l’aspra pioggia della disperazione mi bagna Maledetto il mondo che mi ha tradito!  


Capodanno  

  

Mi culla d’un calore paterno 

lo sfrigolio discreto del fuoco 

tra i ritorti ciocchi stipati 

occhi di lava nella luce viva 

tremule lingue senza verbo danzanti  borbottano fumi profumati 

le dolci cortecce 

versando fievoli lamenti di ragia 

tra lo scoppiettio vivace 

dei ramoscelli acerbi 

E là fuori se ne va un altro anno! 

Dicono 

come una porta che pesante si chiude 

e un’altra s’apre  

nell’apprensione dell’ingenuo 

nel fragore suggestivo d’un’attesa struggente  

  

Non riesco ad agitarmi 

a fremere al fasto d’un giorno che passa mi basta l’umile affetto 

e la muta quiete di questa stanza 

il suo tepore amico 

e la storia del Mondo  

nel mio camino 

la solita storia:  

nuovi fuochi su vecchie ceneri  


 

  Novella madre  

  

Donna che diletti le brame tue rabbiose tra crudi ludi di corpi stranieri 

e mandi alla forca tormenti e pensieri   

gridando il piacere a lodi scabrose  

  

Il grembo tuo, ricorda, è pieno e in tumulto 

un lume di vita lo intorba di gemiti e calci copri il seno cadente con gli umili stracci  

principia a curar con amore l’interno singulto  

  

Poiché non abbia il venturo a pagar dei tuoi vizi 

volta il tuo sguardo di troia sulle sue implorazioni 

e prima che il suo calvario volga agli inizi  

trasforma i tuoi occhi di strega in materni lampioni  

  

Che già la tua creatura, impaziente, il tempo incalza sistema l’empia gonna, rammenda la tua calza 

ingegna la malizia dell’otre uterino a fertile sorgente  

ch’egli delle tue laide sozzure non abbia a saper niente  

  

Converti le tue moine, le tue lusinghe da bordello in immacolate carezze, in effigi d’amore 

cogli di questa gloriosa alba il suggello  

che la vita stessa non abbia a portarti rancore  

  

Sei Madre, oggi, non più donna, amante o moglie Demiurgo e artefice d’un lieto spettacolo 

questo dettavan le tue strazianti doglie: 

sei il Santo Messia di un nuovo miracolo!  


 

 Lunga degenza  

  

Nel vuoto candore d’alcove glaciali  

di crudeli giacigli  

contratte maschere ansimano 

il loro impotente sconforto 

affilato splendore della disperazione, 

il suo funesto teatro 

un solo corpo etereo rapisce lo sguardo 

un corpo senza nessuno dentro 

ammantato di lembi inamidati 

di ruvide stoffe senza sollievo 

e dietro gli specchi oscuri di due occhi di vetro 

una vita bisbiglia ma non riesco a vederla 

a distinguerne i tratti 

solo un incerto perimetro d’umana figura 

come essere onirico, dolente creatura 

ch’evoca il senso d’un eterno calvario 

ove ogni lieto impulso sopporta e langue 

fasciato dalle bianche tele del suo sudario 

vicolo cieco, intriso di sangue.  

E dal profondo, commosso sospiro dell’anima 

dalla coscienza che vince il suo amaro torpore dall’oscurità sepolcrale della sua tetra notte 

sorge un grido che interroga senza pudore: 

val la pena odiosa di vivere oltre?  

Tutto qua! Tutto ciò che resta di sogni e vittorie 

di speranze e paure 

tutto quel che adesso rimane dell’esistere 

cieche forze, esauste, costrette a resistere  


 

 Per l’amore perduto  

  

  

Mi resta difficile non pensare  

al tuo sorriso verace 

nel grido d’un lampo che albeggia 

tra gli scrosci della notte in lacrime 

il cuore tumefatto gettato là nella campagna fradicia  

nel singhiozzo fangoso dei fossi traboccanti  

  

In questa prigione di vetri appannati s’è smarrito il tuo odore 

sopra un letto asettico

ho vomitato scuse per la codardia 

e vivo e sogno sopra il tuo nome aggrappato a cimeli sbiaditi  

quasi ostili  

quasi…  

quasi mi pento d’aver bestemmiato l’amore 

e i suoi dolci vezzi 

d’esser fuggito dai tuoi occhi pregni di gelosia resta adesso da goder di questa eresia rifugiato nel mio covo ombroso 

negli artigli spinosi di dubbi eremitici 

a raccattar angosce  

  

Il tuo sorriso limpido 

tuona nel mio cranio 

dolente e indispettito 

come un’impietosa vendetta  


 

  Malato terminale 

 

 

Fa cuccia entro al letto, com’un cadavere in attesa 

e va e viene, nel suo disgusto, della morte il penoso invito com’in balia del vento s’un’arida rupe scoscesa  

umiliato e stanco a guisa d’un leone ammansito 

 

Tiene in cuor, geloso, il ricordo della forza che al rammentar gli si gonfia il petto 

or che la vita gli è stretta in una morsa 

e più il suo sguardo non suscita rispetto 

 

Eppur si regge forte alle coperte coi denti e la disperazione 

al mondo invece appare inerte 

inetto a compiere ogni azione 

 

C’è sì tanta vita in quel relitto umano 

che neanche l’impietoso tempo può cancellare e da tanto male esala un beneficio raro 

il segreto che solo il dolore può insegnare 

 

Vivere!  

Con supremo orgoglio 

 

Saper accettare con coraggio ed onore i vuoti amari e profondi che la vita c’impone 


 

Veglia funebre 

 

 

Si restò sospesi nella pallida penombra del giardino 

per la notte intera a veglia d’un addio 

tra l’ululato timido dei salici dimessi 

Si restò seduti con occhio languido di fanciullo inghiottendo spinosi mugolii di megera pregando Iddio 

annuendo ai gesti dei figli commossi 

 

E al ché pareva di star buttati là in attesa 

di un nulla imminente 

a sorseggiare un tempo amaro di lapidarie pantomime a mani giunte, 

a testa china e pesa a maledir in cuore un tal destino avaro 

 

Le sagome dei cari, a lente processioni d’ombre nere avanti e indietro dal letto di morte all’aria fresca svegliavan la memoria dell’altre simil sere 

quando si vedeva, sul far del buio,  

bimbi ridendo ruotare a tresca 

 

ma null’era di tal gioiosa fatta 

in quel silenzio cupo 

tra i passi furtivi di quel corteo in frantumi e l’urlo atroce della moglie mesta 

come il canto del lupo 

tra i drappeggi d’incenso 

nello stanco pianto dei lumi 

 

si restò sospesi in quell’aria insidiosa ed arsa 

galleggiando su tele di ragno appese alla notte contemplando sfiniti le sontuose piaghe d’una scomparsa 

sedendo come infami relitti presso la morte 

 

si restò immobili ubriachi di dolore 

con la mente gonfia e ulcerata 

pietrificate le vertebre tutte d’un muto torpore nella gelida afa 

nello sguardo spietato di quell’assurda nottata 


Soffio di vento 

 

Fischia e sbraita il mugolio del vento 

contro tisiche armonie di fredde ore da patire langue l’affannoso sospiro d’un tempo mesto vuoto d’eremi vissuti 

Dalle lugubri campagne desolate 

al rintocco greve e incerto del mio costato s’odono tetri richiami d’angoscianti lagne 

a suoni cupi di cavernosi rantoli 

stringe veemente i tralci con disprezzo 

delle vecchie vigne ignude e scarne 

calcando la terra livida e gonfia 

ch’erge a stento tisici arbusti 

come indegni figli indesiderati, 

sorvola i brulli fossati girando, ghignando, ululando 

dai cigli sussurra alle felci 

dall’erba sussurra alle genti 

racconta di tempi passati, lontani 

di storie dolcemente crudeli 

d’onirici paesi incantati 

a cui la storia non regalerà alcun vanto 

trema la minuta fiammella della lucerna adagiando il seme del fulgido cuore 

a destra e a manca come impazzita 

quando il suo fiero respiro incalza 

e robusto il suo volto rialza 

verso l’immaginario tramonto 

quando stanco rallenta e par che si fermi mentre invece, minaccioso, circonda il cortile e tremulo emette il suo fischio virile 

lo puoi vedere, quasi sfiorare se cede l’anima al rapimento lieto d’un melanconico trasporto insensato lo puoi scovar che danza 

da un albero all’altro 

al ché sparire furtivo nel folto di un campo

e riprendere a volare sempre più forte 

finché non svanisce laggiù all’orizzonte serrando il tuo sguardo dal tedio velato 

inutile aspettare 

il vento è passato! 

E’ passato e già t’arrovelli nell’implorarne il ritorno come la donna che un dì ti voltò le spalle 

per svanir dal tuo destino 

regalandoti l’atroce indifferenza che può uccidere 

e di Lei che avesti a ricordo? 

Di Lei che trovò salvezza  

dal delirante giogo del tuo amore? 

Sulla sabbia delle impronte 

ed un solco in mezzo al cuore. 

E’ così che t’odo, sì vivo e violento 

com’anima di donna, selvaggia e voluttuosa 

perché non sei soltanto ‘Vento’ 

semplice e scontato com’ogni altra cosa? 

Forse perché dei miei pensieri hai l’impeto e l’orgoglio e il sepolcrale timbro dei miei sogni 

perché risvegli al cuore la cupa pace del cordoglio d’un amor perduto di cui sempre, ahimè, abbisogni lasciami almeno qualcosa da ricordare, vento! 

Un presente per la mia stanca follia  

magari solo un gioco inquieto d’istanti nel tempo Spietata Ironia! 

Al languir della tua melodia 

all’angoscia si prostra il tormento