L’ombra del passato
L’ombra del passato
oscura i nostri giorni offese mai digerite
sogni mai realizzati
e soli, biasimando sofferte rinunce
commiseriamo i nostri passi
quale tempo fu mai tanto ingrato?
già nella memoria l’immagine velata
degli anni orsono si agita frenetica
Angoscia soccombi!
Che il dì prossimo non potrà ridarci ciò che un tempo fu
ma solo buone nuove
che ostinati disprezziamo
quale inutile consolazione
a ciò che, ahimè, non sarà mai più
Vita che fugge
E lascio che la vita mi scorra addosso
di concitati attimi
che carezzi la mia noia ed il mio volto che lieve passi la mano tra l’agitarsi folto dei miei capelli ruvidi
Già il tragitto salato di una lacrima
si asciuga sullo zigomo e la guancia ispido intaglia le aride fatture del mento e fa da strada al prossimo tormento
o a qualsiasi dolo che nel cuore giaccia
Ascolta il suo trascorrere sereno
che mi travolge e in vero
ormai umiliato
mi arrendo alle mie torme
Niente di più in questi stanchi giorni urge
Senti?
La vita che in punta di piedi fugge
Profezia
All’alba
l’obbligo di un viaggio pieno di sangue
le mie lacere ferite si riaprono
sgorgando flotti di dolore
al risveglio il loculo angusto del corpo imprigiona l’anima mia ribelle
ogni idea trova presto il suo limite
Tiranni
vecchie oppressioni
le torture di morali costumi
carceri di leggi mai scritte
Ardi o Spirito!
Nel cuore della vile materia
consumati al suo laido calore!
Si avvera pian piano profezia dell’ignoto dell’Uomo dal Sacro vestito
l’aspra pioggia della disperazione mi bagna Maledetto il mondo che mi ha tradito!
Capodanno
Mi culla d’un calore paterno
lo sfrigolio discreto del fuoco
tra i ritorti ciocchi stipati
occhi di lava nella luce viva
tremule lingue senza verbo danzanti borbottano fumi profumati
le dolci cortecce
versando fievoli lamenti di ragia
tra lo scoppiettio vivace
dei ramoscelli acerbi
E là fuori se ne va un altro anno!
Dicono
come una porta che pesante si chiude
e un’altra s’apre
nell’apprensione dell’ingenuo
nel fragore suggestivo d’un’attesa struggente
Non riesco ad agitarmi
a fremere al fasto d’un giorno che passa mi basta l’umile affetto
e la muta quiete di questa stanza
il suo tepore amico
e la storia del Mondo
nel mio camino
la solita storia:
nuovi fuochi su vecchie ceneri
Novella madre
Donna che diletti le brame tue rabbiose tra crudi ludi di corpi stranieri
e mandi alla forca tormenti e pensieri
gridando il piacere a lodi scabrose
Il grembo tuo, ricorda, è pieno e in tumulto
un lume di vita lo intorba di gemiti e calci copri il seno cadente con gli umili stracci
principia a curar con amore l’interno singulto
Poiché non abbia il venturo a pagar dei tuoi vizi
volta il tuo sguardo di troia sulle sue implorazioni
e prima che il suo calvario volga agli inizi
trasforma i tuoi occhi di strega in materni lampioni
Che già la tua creatura, impaziente, il tempo incalza sistema l’empia gonna, rammenda la tua calza
ingegna la malizia dell’otre uterino a fertile sorgente
ch’egli delle tue laide sozzure non abbia a saper niente
Converti le tue moine, le tue lusinghe da bordello in immacolate carezze, in effigi d’amore
cogli di questa gloriosa alba il suggello
che la vita stessa non abbia a portarti rancore
Sei Madre, oggi, non più donna, amante o moglie Demiurgo e artefice d’un lieto spettacolo
questo dettavan le tue strazianti doglie:
sei il Santo Messia di un nuovo miracolo!
Lunga degenza
Nel vuoto candore d’alcove glaciali
di crudeli giacigli
contratte maschere ansimano
il loro impotente sconforto
affilato splendore della disperazione,
il suo funesto teatro
un solo corpo etereo rapisce lo sguardo
un corpo senza nessuno dentro
ammantato di lembi inamidati
di ruvide stoffe senza sollievo
e dietro gli specchi oscuri di due occhi di vetro
una vita bisbiglia ma non riesco a vederla
a distinguerne i tratti
solo un incerto perimetro d’umana figura
come essere onirico, dolente creatura
ch’evoca il senso d’un eterno calvario
ove ogni lieto impulso sopporta e langue
fasciato dalle bianche tele del suo sudario
vicolo cieco, intriso di sangue.
E dal profondo, commosso sospiro dell’anima
dalla coscienza che vince il suo amaro torpore dall’oscurità sepolcrale della sua tetra notte
sorge un grido che interroga senza pudore:
val la pena odiosa di vivere oltre?
Tutto qua! Tutto ciò che resta di sogni e vittorie
di speranze e paure
tutto quel che adesso rimane dell’esistere
cieche forze, esauste, costrette a resistere
Per l’amore perduto
Mi resta difficile non pensare
al tuo sorriso verace
nel grido d’un lampo che albeggia
tra gli scrosci della notte in lacrime
il cuore tumefatto gettato là nella campagna fradicia
nel singhiozzo fangoso dei fossi traboccanti
In questa prigione di vetri appannati s’è smarrito il tuo odore
sopra un letto asettico
ho vomitato scuse per la codardia
e vivo e sogno sopra il tuo nome aggrappato a cimeli sbiaditi
quasi ostili
quasi…
quasi mi pento d’aver bestemmiato l’amore
e i suoi dolci vezzi
d’esser fuggito dai tuoi occhi pregni di gelosia resta adesso da goder di questa eresia rifugiato nel mio covo ombroso
negli artigli spinosi di dubbi eremitici
a raccattar angosce
Il tuo sorriso limpido
tuona nel mio cranio
dolente e indispettito
come un’impietosa vendetta
Malato terminale
Fa cuccia entro al letto, com’un cadavere in attesa
e va e viene, nel suo disgusto, della morte il penoso invito com’in balia del vento s’un’arida rupe scoscesa
umiliato e stanco a guisa d’un leone ammansito
Tiene in cuor, geloso, il ricordo della forza che al rammentar gli si gonfia il petto
or che la vita gli è stretta in una morsa
e più il suo sguardo non suscita rispetto
Eppur si regge forte alle coperte coi denti e la disperazione
al mondo invece appare inerte
inetto a compiere ogni azione
C’è sì tanta vita in quel relitto umano
che neanche l’impietoso tempo può cancellare e da tanto male esala un beneficio raro
il segreto che solo il dolore può insegnare
Vivere!
Con supremo orgoglio
Saper accettare con coraggio ed onore i vuoti amari e profondi che la vita c’impone
Veglia funebre
Si restò sospesi nella pallida penombra del giardino
per la notte intera a veglia d’un addio
tra l’ululato timido dei salici dimessi
Si restò seduti con occhio languido di fanciullo inghiottendo spinosi mugolii di megera pregando Iddio
annuendo ai gesti dei figli commossi
E al ché pareva di star buttati là in attesa
di un nulla imminente
a sorseggiare un tempo amaro di lapidarie pantomime a mani giunte,
a testa china e pesa a maledir in cuore un tal destino avaro
Le sagome dei cari, a lente processioni d’ombre nere avanti e indietro dal letto di morte all’aria fresca svegliavan la memoria dell’altre simil sere
quando si vedeva, sul far del buio,
bimbi ridendo ruotare a tresca
ma null’era di tal gioiosa fatta
in quel silenzio cupo
tra i passi furtivi di quel corteo in frantumi e l’urlo atroce della moglie mesta
come il canto del lupo
tra i drappeggi d’incenso
nello stanco pianto dei lumi
si restò sospesi in quell’aria insidiosa ed arsa
galleggiando su tele di ragno appese alla notte contemplando sfiniti le sontuose piaghe d’una scomparsa
sedendo come infami relitti presso la morte
si restò immobili ubriachi di dolore
con la mente gonfia e ulcerata
pietrificate le vertebre tutte d’un muto torpore nella gelida afa
nello sguardo spietato di quell’assurda nottata
Soffio di vento
Fischia e sbraita il mugolio del vento
contro tisiche armonie di fredde ore da patire langue l’affannoso sospiro d’un tempo mesto vuoto d’eremi vissuti
Dalle lugubri campagne desolate
al rintocco greve e incerto del mio costato s’odono tetri richiami d’angoscianti lagne
a suoni cupi di cavernosi rantoli
stringe veemente i tralci con disprezzo
delle vecchie vigne ignude e scarne
calcando la terra livida e gonfia
ch’erge a stento tisici arbusti
come indegni figli indesiderati,
sorvola i brulli fossati girando, ghignando, ululando
dai cigli sussurra alle felci
dall’erba sussurra alle genti
racconta di tempi passati, lontani
di storie dolcemente crudeli
d’onirici paesi incantati
a cui la storia non regalerà alcun vanto
trema la minuta fiammella della lucerna adagiando il seme del fulgido cuore
a destra e a manca come impazzita
quando il suo fiero respiro incalza
e robusto il suo volto rialza
verso l’immaginario tramonto
quando stanco rallenta e par che si fermi mentre invece, minaccioso, circonda il cortile e tremulo emette il suo fischio virile
lo puoi vedere, quasi sfiorare se cede l’anima al rapimento lieto d’un melanconico trasporto insensato lo puoi scovar che danza
da un albero all’altro
al ché sparire furtivo nel folto di un campo
e riprendere a volare sempre più forte
finché non svanisce laggiù all’orizzonte serrando il tuo sguardo dal tedio velato
inutile aspettare
il vento è passato!
E’ passato e già t’arrovelli nell’implorarne il ritorno come la donna che un dì ti voltò le spalle
per svanir dal tuo destino
regalandoti l’atroce indifferenza che può uccidere
e di Lei che avesti a ricordo?
Di Lei che trovò salvezza
dal delirante giogo del tuo amore?
Sulla sabbia delle impronte
ed un solco in mezzo al cuore.
E’ così che t’odo, sì vivo e violento
com’anima di donna, selvaggia e voluttuosa
perché non sei soltanto ‘Vento’
semplice e scontato com’ogni altra cosa?
Forse perché dei miei pensieri hai l’impeto e l’orgoglio e il sepolcrale timbro dei miei sogni
perché risvegli al cuore la cupa pace del cordoglio d’un amor perduto di cui sempre, ahimè, abbisogni lasciami almeno qualcosa da ricordare, vento!
Un presente per la mia stanca follia
magari solo un gioco inquieto d’istanti nel tempo Spietata Ironia!
Al languir della tua melodia
all’angoscia si prostra il tormento