Luca Guscio - Poesie

Spunti, come streaming

 

Tratto dal romanzo “L’apoteosi” di Luca Guscio

Claudio era stato in galera, poi era uscito, poi era rientrato ancora. Lo conobbi durante il periodo in cui era stato fuori. Mi parlò del carcere, della fortuna nel possedere un bel sedere, poiché, disse di essersi fatto un compagno tosto là dentro, ed i vogliosi lo lasciavano stare. Aveva dei bellissimi capelli neri e lisci e lunghi e sempre lucenti. Alto un metro e settantasette, la natura l’aveva provvisto di un paio di gambe da atleta, che lui omaggiava col suo tondo sedere, dentro dei pantaloni in pelle nera. Per questo non era affatto effeminato, anzi, era un vanto da duri per chi incrociava il suo sguardo. Andava anche con le donne, di questo ero certo, ma a furia di procurarsi i soldi battendo, alla fine, insomma, era come era. E quel giorno l’avevano di nuovo rimesso in libertà. Ed era sabato sera. E disse di voler proprio festeggiare.

“Ma è un Club privé!” gli esternai il mio dubbio.
“Macché privé e privé. Tu non ti preoccupare, qui basta entrare in coppia: e noi siamo una coppia!”
“Se lo dici tu”.
La porta d’ingresso al locale era chiusa e Claudio suonò. Si aprì una porticina e si intravide una porzione di viso. Poi gli occhi parlarono: “Siete soci?”
“Non ancora,” rispose Claudio. “Pensavamo di iscriverci. Mi manda Mario testa di moro”.
La porta si aprì e fummo registrati e pagammo 20 euro a testa.
Era lindo là dentro, ed estroso. C’era bianco marmo dappertutto e passamano, color oro. Ed in fondo al corridoio una tenda. Sulla destra una scalinata. Dietro al bancone del bar: il barista portava un gilè aperto, con un cravattino al collo e solo peli tutto intorno.

“Vieni di là!” mi incitò Claudio.
“Cosa c’è da vedere?”
“Vedrai Luca, vedrai!”

Seguimmo la musica aprendo la tenda e c’era questa stanza con un palco in fronte. Gente tutt’intorno ai muri e pochi al centro. Alcuni in coppia ed altri singoli. C’erano donne, uomini e qualche travestito. Sul palco c’era questa, o questo, o entrambe le cose, che cantava Mi vendo, di Renato Zero. Ed io mi avvicinai al palco e guardai con piacere.
Gli occhi della Zero sorcina incrociarono i miei e ci rimasero per un po’.
Poi venni strattonato alle spalle da Claudio.

Ritornato nella sala, c’erano le stesse persone di prima, agli stessi posti, ma, chissà perché, mi parvero diverse, migliori forse, più umane.
Claudio si trovava in un angolo e stava parlando con un ragazzo. Questi aveva lunghi capelli biondo ondulati. Li muoveva spesso. Li lanciava in aria, per poi spostare veloce la testa di lato: e loro cadevano giù lucenti a ventaglio.

Il sosia di Zero smise di cantare e mi mandò un bacio virtuale.
La gente si apprestò a lasciare la sala e Claudio fece segno nella mia direzione, ed io mi avvicinai.
“Questo è Michele,” me lo indicò.
Michele allungò la lunga mano affusolata. La strinsi e le sue nocche si chiusero, come palla di spugna e lui, noncurante, fece balenare un altro splendido ventaglio: “Volete venire con noi?” propose, con la sua vocina falsata. Non capii chi fosse l’altro, ma non feci lo stesso eccezione, né chiesi.

Alle 4:44 eravamo fuori dal locale ad aspettare la quarta persona: quando si avvicinò la sorcina. Non portava più la parrucca nera alla Renato Zero, ma un bel caschetto di capelli rosso fuxia. Le sopracciglia lunghe le aveva ancora e pure tutto il trucco: “Devo assolutamente comprare le sigarette e prendere un cappuccio con un cornetto caldo,” annunciò, dopo aver detto di chiamarsi Meryl.

Vi erano armadi tutt’intorno alla stanza e poggia abiti ed un tavolino ed una sedia al centro. Le ante erano a specchio e Meryl le aprì, ad un ad una. Ed all’interno c’erano dei copri collo, simili alla stola, ma più morbidi, che cadevano giù dall’appendino a mo’ di stelle filanti. In un’altra vi erano parrucche, nelle apposite teste, di tutti i colori e forme (mi piacque molto quella blu). Poi ci furono le gonne e le mini, le pellicce, le borse, le scarpe e via via sino al profumo. Claudio era molto interessato e non la smetteva di chiedere e rispondeva sempre Michele al posto di Meryl. Così Meryl ed io li lasciammo soli e tornammo nell’altra stanza, sull’enorme letto a forma di cuore.

Quando Claudio tornò da noi non era più lo stesso. Portava in testa una parrucca verde smeraldo, che agitava sopra un body bianco con abbondante petto. Indossava una gonna in pelle nera e calze a rete larga; stivali coi lacci, alti tacchi; sul collo una di quelle stole e l’aveva avvolta a mo’ di sciarpa e sulla spalla una borsetta, che fece roteare e volteggiare e volteggiare più volte, muovendo il sedere a suon di musica e noi tre ad applaudire e Meryl disse: “Questo è un trans mancato!” E noi tutti ridemmo con gusto.

 

 

 

Tratto dal romanzo Psichiatria: paziente numero 407 di Luca Guscio

Dentro era buio, ed Antonella accese la luce. Era piccola quella camera. Vi era un unico letto. Mi ci sedetti.
Antonella prese dei fogli da disegno e li adagiò accanto a me. Su uno di loro vi era dipinta una cintura, con dei proiettili, da cow boy. Si trovava perpendicolare al foglio. Sullo sfondo un cavallo, ed un cappello. Me ne fece vedere altri. Poi vidi l’ultimo: si trattava di un corpo disteso in terra, a pancia in giù, con le braccia in avanti, ed un manico di coltello che gli lambiva la schiena, con un luccichio di lama, contornata di rosso.
“E’ mio padre!” esclamò Antonella. “L’ho ucciso io!”
Stetti in silenzio.
Tenevamo intensi lo sguardo fisso dentro gli occhi dell’altro, così in profondità da vederne il vissuto.
“Mi toccava sempre,” riprese noncurante. “Voleva fare quei giochi con me”.
Strinsi gli occhi. Li riaprii deluso.
Ed Antonella chiese: “Ma i grandi, possono toccare le bambine, vero!?”
Come non negare ciò che non viene dalla coscienza, di chi senza ha corroso l’anima di un altro: “No! No, che non lo possono fare. Hai subito uno sbaglio!”
Ed Antonella propose: “Mi piacerebbe disegnare il tuo volto”. Come se fossimo ritornati a scuola. “Dovrei tirare indietro i tuoi capelli,” aggiunse, allungando una mano.
“No!” mi ritrassi per allontanare l’innocenza. “Ti prego, Antonella, i capelli non si toccano”.

 

 

 

Tratto dal romanzo “Comunità! Comunità! – Un collegio per un debosciato” di Luca Guscio

1.

Ci sono dei sogni in cui tutto si avvera. Ci sono altri cui si sogna e basta. Poi ci sono questi ultimi che si realizzano senza averli né pensati, né sperati: sono il disegno di Dio!

2.

A tavola cerco di evitare lo sguardo di Goffredo.
Gino, l’anziano, si accorge del silenzio forzato e prova a dirmi qualcosa: “Non dare da mangiare al gatto, se non vuoi che ritorni da te per un altro pasto, diceva mia madre”.
Ed io: “Colei che, se fosse nata Regina ora tu saresti un Principe esiliato ed abdicato!?”
E Gino rispose, con la saggezza nell’animo: “Sì, Luca Guscio delle uova! Ti racconto una storia: Io ed il mio complice decidiamo di farci un appartamento in pieno centro a Milano. Lui rimane in auto, ad aspettarmi. Salgo sul balcone di una casa ed entro in una cucina. Non trovo né soldi, né gioielli. Innervosito, non volendo andarmene a mani vuote, decido di portare via il televisore. Era di quelli da 32 pollici. Ma dio se era tecnologico. Comunque, dicevo: apro la porta di casa, apro il cancelletto e col televisore in braccio scendo giù in strada. Quel deficiente del mio compare se ne era andato. Secondo te, Luca Guscio delle uova, cosa ho fatto!?”
“Non ho nessuna idea, Gino mancato Principe e quindi anarchico. Avrai probabilmente lasciato il televisore e sarai andato a cercare il tuo complice, ad insegnargli a vivere”.
“No! Per niente! Per me quello era l’unico metodo, lo sai. Dicevo: sempre con il televisore in mano, vedo passare un taxi. Mi metto di fronte e lo fermo. Parcheggio il mio baratto sul cofano e mi porto dalla sua parte. La portiera era chiusa. Gli intimo di aprirla, ma lui comincia a suonare insistentemente il claxon, ed io a dare calci alla portiera, per farlo scendere. Volevo portarglielo via quel Mercedes bianco. Il taxista urla qualcosa a qualcuno. Volto la testa di lato: tre auto in colonna, la terza: una pattuglia della polizia”.
Lo sguardo di Gino è ora vitale, pieno di acume, messo alla prova costante nella ricerca del denaro, per quel poco di dolcezza dell’animo e del corpo da ottenere, quando la vita non dà l’occasione di prenderlo dal prossimo, eppure, prima o poi tutti noi scendiamo dalla montagna, lasciamo nuovamente il bosco ed il sole in fronte, con la speranza di poter trovare nell’essere umano: la fedeltà che danno solo l’animale e gli astri.
“Cosa hai fatto?” chiedo, dando sfogo all’adrenalina di un ricordo.
“Cosa vuoi che abbia fatto. Ho preso ad andare spedito”.
“Il televisore lo avrai lasciato, suppongo”.
“Ma sei matto. Non hai capito che era la mia merce di scambio!? Quindi, dicevo, riprendo il mio baratto e mi metto ad andare. Vedo un Tram avvicinarsi alla fermata. Ci salgo sopra e proprio quando le portiere si stanno per chiudere sento urlare: Fermo! Fermati! Cittadini, fermatelo! Proprio così disse il pulotto, cittadini, fermatelo!”
“E ti hanno fermato”.
“Razza di incompresi. Aiutare i pulotti. A Milano. Non c’è più religione!”
“Cosa è successo, dopo?”.
“Un anno e tre mesi. Ecco cosa è successo”.

3.

Quando salgo sul pulmino scopro che siamo in quattro ad aver aderito. Bene, mi dico, meglio pochi che miscredenti.
Un utente tira fuori dalla tasca un Rosario, bacia più volte il Cristo, chiude gli occhi ed emette dei suoni.
Attendo che esca dall’incanto, cerco il suo sguardo, quando, si accorge della mia curiosità e sospira, infastidito dal dover spiegare alza la testa ad indicare il cielo e sussurra: “Solo lassù c’è chi può donare il tempo quaggiù”.
Ed io esternai il mio pensiero: “C’è poco da doversi dispiacere nel dover lasciare questa vita”.
E quel pio, con voce che pareva non giungere dalla bocca di un ragazzo, mormorò: “Solo chi non soffre può permettersi il cinismo”.

Entrati in Chiesa, vedo l’utente pio andare in confessionale. Mi siedo accanto all’educatrice Valentina e le chiedo a bassa voce: “Cos’è che ha quello!?”
“Non lo sai?” mi domandò scettica.
“Cosa dovrei sapere”.
Valentina alza gli occhi al cielo e bisbiglia: “Ha paura di morire”.
“Perché dovrebbe morire. È solo un ragazzo”.
“C’è una cosa che tu non sai. Ed io non posso dirtela”.
“È forse malato!?”
“Non chiedermelo Luca, ti prego. Se vorrà, te lo dirà lui”.
“Va bene Valentina, non insisterò. E poi, devo pensare a me stesso. Sono venuto qui perché ho bisogno di capire”.
“Qualunque sia il motivo del perché sei qui Luca è sempre un buon motivo”.
“Grazie, Valentina”.

La messa finisce, ed usciamo fuori.
L’utente in questione è davanti a me con il Rosario in mano che inciampa e barcolla. Tento di afferrarlo ma cade, rovinando con le mani su un gradino.
Valentina urla: “Tiratelo su! Aiutatelo!”
Vedo Mario e Luigi che, invece di soccorrerlo, indietreggiano.
Io e Valentina lo prendiamo per le braccia e lo tiriamo su. Ha un taglio sulla fronte. L’educatrice prende dalla borsetta dei fazzoletti e cerca di tamponargli la ferita, ma non si accorge che la sua mano si sta impregnando di rosso sangue. Quando glielo indico, diventa pallida. Butta il fazzoletto e strepita: “No! Dio, no!”
Il pio, ancora sanguinante, comincia la cantilena delle scuse.
Impossibilitato all’aiuto, guardo negli occhi Valentina con un interrogativo, che la fa parlare: “Non l’hai ancora capito!?”.
“Cosa dovrei capire, Valentina”.
“Hai gli occhi chiusi Guscio. Lo sanno tutti che è sieropositivo!”
“Valentina,” le indico, “tira via quella mano dalla faccia”.
Quando lo fa, tento di pulirla con le sue lacrime rosé che bagnano il fazzoletto.
Quelle lacrime, quel giorno e i seguenti, bruciarono come il fuoco fa con l’alcol i miei torvi pensieri, riportandomi ad un’ameba, in simbiosi col mio lenzuolo.

 

 

 

Tratto dal Romanzo “Cuor di pasticcio & Cuor di Gesù” di Luca Guscio

1.

Volli aprirmi a te: “Il tuo sguardo per me Chiara è quello di una cerbiatta che si ferma sulla grigia pietra di una collina, volta la testa aspettandosi una mia reazione, fissandomi con i suoi curiosi occhi verdi da farmi pietrificare, per non farla andare via. E mi fa un segno, da interpretare, muovendo ad est il capo, per poi voltarsi audace e proseguire su in alto, verso la cima, aspettandosi che io la segua”.
Sorridesti e confessasti: “Mi piacerebbe trovare una tana. Non so però se ci stiamo in due”.
Mi si strinse lo stomaco a questa tua indecisione ma proseguii: “Sei un’ape che aspira il mio nettare. Lo cosparge nell’aria come fiocchi di manna, fecondando la mia aurea”.
Alzasti la mano a contare con le dita: “Conosco: Il mondo delle Api. L’Ape Maia”.
Sorridemmo. Ed io continuai: “Sei come l’aquila che torna dagli aquilotti per donare il cibo nei loro becchi sfamandoli. Tu nutri me!”
“E gli aquilotti? Tenerissimi. Che fine fanno?”
“Sei un quadrifoglio tra mille trifogli, ed io sono colui che ti tiene nel taschino”.
“Allora devo cucirtelo. Ieri ti è caduto l’accendino”.
“Sei di notte: la luce tiepida della luna, che penetra sul mio cuscino, attraverso l’oblò sul soffitto: facendomi sentire al sicuro”.
“Se è questo ciò che ti fa star bene, potrei illuminarti in eterno, ho il carica batterie solare”.
“Sei l’eroina di tutte le vicende drammatiche raccontate, ed io, accanto a te è come se assistessi alla gloriosa fine di ogni loro episodio”.
“Non ricordo bene il finale di Ghost!”
“Sei per me, Chiara, la lettura dell’ultima frase di tutti i best seller rosa”.
“Dopotutto, domani è un altro giorno! O forse si tratta di un drammatico!?”
“Sei la lampadina che nei fumetti manifesta l’idea e che ora fa luce nella mia mente. Sei colei che mi sta dando l’inventiva per le frasi che sto concependo. Sei Beatrice per Dante, Silvia per Leopardi, Chiara per me. Sei la mia musa ispiratrice”.
Restammo assorti, nel nostro congiunto sguardo. Il mio: come uno che attende. Il tuo: che divenne pretenzioso.

2.

Ripenso a Sara, a quando mi passò accanto vestita come lo fu Eva, la primogenita, dopo il peccato originale, con il proprio palmo a lambire il proprio scettro, quale simbolo di potere. È giusto così, pensai, non avesse quello non verrebbe da me ascoltata, né io avrei inteso che è solo un segno di forza non avere altre argomentazioni se non lasciare le parole, che sono solo fiato e suono, ed usare ciò che ha un’infinità di risoluzioni, dove ci si può parlare sopra e venire lo stesso ascoltati; dove l’appartenenza è proprietà: per l’unica volta che si possiede l’altro senza violarne l’io, l’identità.
Seguii quell’aureola sulle scale.
Quel corpo, come se implodesse per non esplodere, irradiò me col suo bagliore, incantandomi ed aspirandomi a sé, come il flauto con il cobra, ed io danzai e strisciai su quei gradini, trovandomi come un sonnambulo nel mondo dei sogni e della chimera.
Sara approdò e si stese.
Come la vera Afrodite, dea dell’amore e della procreazione si aprì a me, senza pudore. E come il pianeta più caldo dell’universo s’illuminò, si infiammò ed arse, libera da tabù, dove tutto è concesso ed apprezzato mi fece capire cos’è veramente il sesso, con la certezza di una padrona, col carattere di una dominatrice che non ha pudori, né accortezze, sottomise me, il suo schiavo, il suo ritornato all’ovile marito.

E fu dopo l’esplosione dei sensi che sentii un nodo alla gola, che mi fece apprendere che la definizione per me sino all’ora corretta: Chi può farmi piangere è soltanto Dio, non era più veritiera, poiché, una lacrima percorse la mia guancia, giungendo alle labbra che sapeva d’amaro, come il sale sulla ferita ustionò me, la mia incertezza, quel dubbio di non comprendere, di non realizzare, la verità mi era lontana e lei più vicina, là dove trionfava, là dove poteva alzare il calice della vittoria per avere esaltato e prosciugato un maschio stupido che soccombé ancora una volta al grido della Gigia!