Lucia Arsì - Poesie e Racconti

RI-COSTRUIRMI

 

Disordine. E nella minuscola stanza, ove m’involo con la lettura, 

fogli e fogli sparsi gridano alla mano violenta.

Il mio libro, il prediletto, stracciato.

Tanti pensieri invano, tante emozioni disarticolate.

Langue. Il foglio, giallo di melancolia, sotto il divano.

Un altro, dalla tondeggiante grafia, sul davanzale.

L’Idea, l’unica, che assomma tutte le altre e alle altre consente, perduta.

La Memoria, lì consacrata, inafferrabile.

 

“Ri-costruirmi”. Un urlo. Sale dal fondo. Eco dilata il suono delle singole sillabe. Preposta a ciò. Al rimbombo. Sempre prodiga. Sempre evanescente, per l’ira di Era. E c’è. Così di una profonda emozione rimane il sapore, la eco di un feroce vissuto. E quella flebile voce martella, martella e invita a non cedere mai. 

La odi al mattino, quando sollevi le palpebre, avvolta ancora nell’aura del sogno.

Al mattino, quando ascolti il picchettìo, tappata la bocca tese le orecchie.

E la sera, stravolta, spolveri il viso, svesti il tuo corpo e odi.

E’ l’Eco di te.

 

E’ andata via. Velocemente, afferrate le ultime cose, mentre dalle labbra socchiuse volavano sillabe arrabbiate, velocemente all’uscio. Ha rotto col falso. Col non-senso. Senza scendere a fondo. Non accetta il ruolo di spalla. Compagna fedele, consenziente, no….no……Esageratamente volitiva e dal ruolo deciso. 

Nuotare tra onde che investono, a lei va.

Affrontarle e scansarle, a lei va.

Se l’acqua odora di muffa e la mucillagine impera, se l’acqua intende coprirla di nausea, per inchiodarle le gambe, tamponare l’udito, ombrare la vista, il rifiuto è totale. 

Ecco….il senso del rifiuto. E non è fuga. E’ magnifica consapevolezza. Lotta impari. A chi dare colpi? Onde ruinose e fangose. Non meritano.

 

E poi?…..No…no…non  incenerirsi, abbrutirsi, scolorire….

Ri-tornare. Questo il monito. Nasce con noi. Impresso col fuoco. Leggerlo e sentire il senso riposto. L’Immobilismo è despota crudele. E’ una forza immane. Quale la Forza ancora piu’ forte? A chi fare appello? E’?

La stessa che al morente sussurra che l’altra vita è migliore. 

La stessa che al naufrago rassoda le braccia.

La stessa che sprona il perduto fra mille crocicchi.

Senza, visione lunare.

Ambiguità e incertezza.

E sempre lì, senza la tondeggiante solarità.

Così al mattino, quando allunghi la mano. Pigi il pulsante. Luce non invitante. E l’ombra, che proietta sul muro, ad impaurire. 

Solitudine. Tra tanti oggetti, tante evanescenze, sola col dubbio, col pensiero dominante, colla Paura di non ri-andare.

Attorno……tanti libri……muti, tanti oggetti….mal disposti. Specchi….pieni di forme, che non evocano ciò che tu brami. Immagini, caricate e non da te. Simili ai sogni. Scivolano scene. Crudeli, illogiche, talvolta fascinose. Forse è ciò che sarà e tu, entro, prevedi. Sono brame che alla luce del giorno tronchi colla falce affilata ma, caparbie, ti limano dentro fino a farsi accettare. E così modellano l’animo tuo.

 

E decide….

Imbuca gli inviti. Un simposio. Interpella le amiche. Scelte con cura. Diverse e ugualmente capaci.

 

Apro la buca. Tra tante missive, la sua. 

Leggo. Io a presiedere un vivace dibattito. Evento importante. Figura vitale. Evitare sovrapposizioni di voci. Testardi lamenti. Voraci primati. A ciascuno il suo. Ruolo imponente. Per sedare la calca. Così, per rifare il libro, a pezzi ridotto.

 

C’è un tavolo. Ovale. Smorzati gli spigoli. Gambe finemente intarsiate. Reggono bene il centro. Oggetto maestoso. Invita a sedere. Guardingo e provocante. Limato e pronto a limare. Splendente cornice per idee illuminanti.

Mi seggo. Accanto donne superbe. Alcune dallo sguardo arrogante. Altre immerse in un mondo lontano da quello di qui.

Io al centro. A dirigere la partita. Necessario spazzare la confusione di ruoli. Vitale il dire col rispetto dell’ordine. Alla fine, solo alla fine, il giudizio; alla fine, se possibile, se il dio lo consente, la scelta. Solo alla fine, e sempre nel recinto del forse, la calma, spazzata via la confusione iniziale.

Decido di dare la parola solo ad alcune. Ad aprire la bocca è una persona imponente. Dal vestito compito, dai modi eleganti, dalla loquela fluente. Gli occhi di ghiaccio. Il cuore mancante. Indossa la corazza della imperturbabilità. Gesti a misura. Le labbra appena socchiuse. Il sibilo del serpente. Sempre in agguato. La donna arrivata. Non dirà mai “ti amo”. Non è importante. Non può. Il cuore non si colora di rosso. Vive di niente. E parla, a mo’ di docente. Lei, perfetta, esige che lo siano tutti. Intransigente. Nessuno la prende a modello.

Io la rifiuto. E indirizzo lo sguardo ad un’altra. La faccio parlare. Ha le spalle piccine piccine. Sguardo dimesso. Sognante. Tutta all’indietro. Accanto c’è l’altra. La figlia. Quella che seguirà le sue orme. Dirà del suo transito. Senza di lei, che senso la vita? E se la rubassero? Una cerca perenne. Una preghiera il suo dire, per ri-ottenerla. Solo a lei affidare la misura dei palpiti interni. Il profondamente nascosto. E sarà vittoriosa sulla vita, matrigna, pronta a togliere. Vittoriosa, rinnovandosi sempre.

Tale ruolo di madre lo accetto, non lo prediligo. Non voglio confondermi. Alla figlia concedo lo spazio che merita. Diversa da me. Legata da un amore di sangue.

 

Sono stanca. Ascoltare è premere il piede sulle zolle morbide di rugiada di un vasto giardino.

Sensazione e riflessione.

Il pungente contatto allerta le pulsioni del corpo, e la Mente consente a procedere.

 

Non devo cedere. Rimpaginare il libro. Importante per la ri-costruzione di lei.

In sillabe bene allineate, forse uno spiraglio di luce.

E la guancia si offre. Ecco…il calore per sciogliere il ghiaccio.

Concedo a lei, a quella dall’aria svanita e dalla forma perfetta, attimi per rivelarsi. 

Diversa e trasgressiva. Nuova. Cangiante secondo il momento. Per sè e per gli altri.

E’ la pura bellezza, quella che attrae e dell’intimo tuo fa uno specchio lampante. 

Il bello dell’esserci, il bello del dubbio, il bello del non-utile, il bello dell’attesa perenne, ed è bello perchè rompe col già deputato.

 

La osservo. Non so rimuovere lo sguardo. Le sue mani danzano sul piano del tavolo. Le spalle diresti il ventre di una ballerina cilena. E la bocca a dire e non dire. A lasciare immaginare. Da essa suoni mai uditi. Dirà ciò che il tuo animo brama ascoltare. E tu, schiavo dei dettami secolarmente sanciti, e tu scopri e vedi l’altro da te.

Chi è costei che trasforma i sassi in viventi?.

Ha posto la penna in mia mano. Sussurra che il libro stracciato non è perdita grande. E’ monito alla non-sosta. E’ voce in contina mobilità. E se altri hanno rotto, se altri turbato, è per necessità.

 

Stanca. Infiacchita. La Paura mi domina tutta. 

l carisma di lei mi ammanta. Sancire parole di fuoco, svelare i reconditi aneliti, segnare nei fogli le immagini che svolazzano avanti i miei occhi, saprò?.

Devo, perchè lei legga e i pezzi d’un sconnesso mosaico tornino a ri-costruire la grande Figura.


No

 

E se fossi priva di fogli?

Se la stilo si rifiutasse di segnare il flusso scomposto delle mie emozioni, sostanziare il vapore nerastro?

Inevitabilmente la fine. Inevitabilmente il non-ritorno. E per sempre.

Ma la mano è lesta. Il pensiero vigile. Il cuore a brandelli. L’anima integra, alleata con la mente.

Ingredienti ottimali.

 

In tale bufera si salvi chi può. 

Inevitabilmente qualcosa verrà meno.  Assente Armonia. Da tempo fuggita di casa. Ha abbandonato l’uomo. Lui esageratamente pretestuoso. 

“La novità?”, ha gridato, stranamente scomposta. L’uomo…alla ricerca sempre sempre, e, peregrino confuso, s’attarda a leccare merda ovunque.

 

 Gli occhi serrati. Un brivido di freddo percorre tutto intero il corpo. Il pensiero sosta. 

Torno al sogno. Non permetto che cada nell’oblìo. Trattenerlo e vedermi e conoscermi.

Il sogno, quello di  un attimo fa è particolarmente strano, buio, opprimente. 

Appendevo panni, tanti panni neri. Poi lo sguardo volge a sinistra. Un luogo funebre. Una cappella. La strada intonsa. Accidentata. Luogo privo di difesa. 

Così il mio cuore. Buio, indifeso. 

Precipitata? Dove? 

Ieri coi piedi piantati nella volta celeste e lo sguardo volto alle cose di qui. La visione, come da un velo leggero. Le cose di qui a dimensione del mio vedere.

Così il mare. Stai dietro le tendine svolazzanti e lo  penetri con l’intensità del volere. 

Tocchi il fondo turbato e carico di lerciume…lì vorresti annegare. Non è possibile. Ti rigetta alla riva. E tu, sola e  naufraga.

Poi il risveglio. Altra illusione, altra visione e sempre dietro le tendine che si agitano al soffio del tuo respiro.

 

Oggi, malefico oggi, piombo fra le cose di qui. Anzi nella casa, la casa di qui.

Trovo? Tanta merda, aperto il sipario. 

E segno, autentica spettatrice, attimo dopo attimo, gesti ed emozioni.

 

Arriva lei. Apre il portone e, con passo elegante, si reca sù, per le scale scarnate dal tempo e dalle suole, ed è pazza di gioia. 

Che fragranza!  

Un pulito non formale. Strigliata dal tempo, dal costante rapporto col pensiero dei grandi.

La sua amica fedele è Dignità.

 

Dalla giacca, che cade a pennello sulle spalle ben modellate, m’avvedo dei battiti d’un cuore impazzito.

Dagli occhi, fasci di luce e gridano gioia, felicità.

Solo per poco. 

Il passo di lei è stabile, deciso.

Solo per poco. 

La figura morbida, corretta. 

Solo per poco.

La direzione voluta, tanto desiderata. 

Solo per poco.

 

Ecco la scena seguente….

….. avanti la porta c’è lui e non ha le braccia pronte all’abbraccio. Cascanti, sigaretta a metà, camicia scomposta, labbra serrate, sguardo vagante.

Un uomo bloccato. C’è e non vorrebbe.

 

“Già pentito? – mi chiedo – sente, fardello opprimente, la pochezza di un agire male approdante?”

Io lo avrei annichilito, lavandolo con sputi, sputi di un catarroso. Così coi vermi.

 

Una minuscola camera. Il provvisorio. 

Immagina di avere dimenticato le chiavi in macchina. Copri le spalle con l’indumento a portata di mano. Solo per quella occasione. Colori stonati. Intaccano gli occhi. Quell’indumento non veste, non compone. Così la camera. Solo per il fugace. Oggetti stonati. Pareti svestite. Odore di immobilità. Lì non ha sede l’anima, l’anima che sostanzia le cose.

La luce, assai fioca, che penetra da una fessura, grida di no. Vorrebbe ritrarsi. Un non darsi. Per lo meno lì e in quel frangente.

 

Erica s’avvede. Sente la fissità. Solleva la mano. Cala morbida sulla guancia di lui. Una abitudine. Una necessità interiore. Un modo elegante di trasmettere un “ciao” sincero. Giulio si abbandona, ma non dà. Privo di calore. Un tempo carico. Già consumato. Il trascorso lo ha inghiottito, slavato totalmente.

 

Io, annichilita in un angolo, avverto il dramma. Presagisco la scena. Mi lascia impietrita.

Quel gelo, che ammanta tutta la camera, nasce dalla grande Paura.

Paura di ciò che avverrà.

 

Grida di orgasmo. Pantaloni scaricati in una seggiola. Bottiglie già tracannate.

Erica s’avvede. Altre presenze.

Lo sconvolgimento. 

Immagina in estate un acquazzone. Inchina gli ombrelloni, deturpa l’aria sollazziera, impolvera il mare. Il fuggi fuggi. Lo sgomento. Il tutto ad un tratto. 

Lei s’avvia alla porta.

 

Giulio no, non si scompone. Afferma, con voce suadente, la presenza di amici. Normale. Interessante. Comodo. Audace. Non monotono. E ” se mi ami….”

Così lui e pretende la prova d’amore.

L’estasi in lotta colla dignità. Il godimento massimo. Vincente su un valore, che è fuori moda.

La Dignità scuote le briglie, morde il freno.

 

Io, da lontano, faccio cenni. Invito lei alla calma. Osservi, temporeggi, stia al gioco. Diplomazia.

Erica coglie il messaggio. Centuplica ogni sua forza, intanto accoglie con falso sorriso l’amico. E’ lì, in veste adamidica. Senza contegno. Mente bacata. Priapico. Porge la mano. A suo agio. Disinibito. L’amico insieme all’amica.

 

Io, ridotta sempre di piu’, socchiudo le palpebre. Non mi va quell’osceno individuo, dal fallo impertinente.

“Perchè la osserva con estrema insistenza?, mi dico.

Ora le carezza le guance rosate. Ora…sì…ammira la figura perfetta e la pelle, la sua pelle sfiora al modo d’una morbida piuma.

 

Giulio gioca a carte scoperte. Se lei non consente all’amore di gruppo, sarà la rottura totale.

Erica sta al gioco. Impone il cambio di partner. 

Spera nell’unica arma, la gelosia.

Giulio d’accordo. E lei rimane, solo per poco, con quell’uomo, un uomo privo di nome.

Ma  Giulio torna prestamente. 

“Vieni, Erica, stiamo insieme….

 

Io faccio cenni. La dirigo verso l’uscita……

….e lei, mentre sussurra all’orecchio dell’amico, da poco conosciuto, l’immenso suo tormento, ridà colore alle  labbra, borsetta a tracolla e va……

 

Lo assassina, gridando forte il suo “no”…

…la sua alterità, per cui sempre ha lottato…

…la sua dignità, cresciuta con estrema fatica…

…il suo modo di amare….accettando la perdita.


Di-verso = Profondo

Un’e-mail e Sebiano sa. Piange e non solamente la perdita della nonna, libera oramai dal fardello pesante dell’esistere. Le sue gocce saporano di nolenza. Anche lui sradicato. Dall’Isola a tre punte, da un modesto comune partito e giunto in una grande metropoli, Sebiano, di giorno, frequenta il corso di Giurisprudenza, di notte, dietro il bancone di un bar di second’ordine, shakera e per passanti frettolosi. Io – intanto l’officiante dà il commiato terreno e riconsegna l’anima della defunta al Creatore – io dirigo lo sguardo all’attorno, sperando…No…Sebiano non c’é. Rifiuta il Ritorno. Non vuole ricordare, mi dico e so del dolore che avvinghia, quando la Mente non s’impone. Osservo i genitori. Affranti. “Per la dipartita della mamma o dilaniati dalla massa che blatera ed etichetta?. 

Tali pensieri scivolano nella mia mente e il file della memoria si apre e torno indietro nel tempo. Sono trascorsi cinque anni da quando…

…la stanza avvolta dalla silenziosa penombra. Un barlume occhieggia dalla scrivania. Mi indirizza e lo vedo. Viso sfatto, braccia inerti sui fianchi e i lunghi capelli carezzano gli occhi che tentano un approdo. E le dita, le dita di Sebiano rimandano a quelle di ricamatrici o di fanciulle che delineano visi porcellanati. In un angolo, un cappio. La corda sottile, strattonata ed ora fuori uso. Presaga e tempestiva la mamma. Ella ha impedito il folle gesto. Gli sfoglio i capelli, neri come il carbone. La bocca di Sebiano rimane serrata. La mente non c’è e i fremiti, appena percepibili, dicono lo strazio, urlano la ferita. Sebiano rifiuta di esserci: viaggia a ritroso, nel grembo, lì ove non serve individuarsi, ove l’Essere è, ma senza connotati, quel viaggio è l’unica àncora di salvezza. Il giorno dopo, nel corridoio del Liceo, mentre, proteso sul davanzale della finestra, lascia scivolare nell’incavo della mano alcune gocce di pioggia e ne ascolta il suono, lo blocco. 

“Come stai?, con tono complice. Sebiano avverte. Dischiude le labbra. “Sopravvivo…poi non aggiunge sillaba. Avverto che sa. Sa che può contare su di me. La sua disponibilità mi induce e aggiungo.

“L’analista sa di te?. La risposta é immediata. “No…non mi fido. Potrebbe rivelare a mia madre. Tutte le notti…lei… sprofondata sulla poltrona…i suoi singhiozzi…oh…i suoi occhi, segnati da quintali di lacrime…non ho pace…la colpa è mia…

Si blocca. Io lo aiuto a rivelare ciò che non ha osato confessare neppure a se stesso.

“Non hai detto che sei un diverso…, e il tono, il mio, è asseverativo. “Sì…, risponde, poi tace. Ho la conferma di ciò che da tempo presagivo. Vado via e sento innumerevoli squilli-sono i telefonini dei giovani-e vedo mani che cliccano e motori potenti e maglioni e zaini firmati,ma i piedi lenti si trascinano e gli occhi annacquati e la mente confusa e torno,senza volontà alcuna di lodare il tempo passato, al modesto grembiule che uniformava e solo per rammentare all’Umanità che la Terra è la nostra genitrice, che tutti siamo fratelli e tutti-occhi sgranati, lingua tagliente e spirito veleggiante-ad educare l’anima alla com-passione, contro lo sfrenato utilitarismo. Ora, l’Ora della tecnica crea solerti funzionari, validi progettisti, promette moneta, solletica, a tempo reale e in modo virtuale, pulsioni morbose; essa, mezzo demoniaco, incanta ma non ascolta le ragioni dell’altro, non annulla l’egoismo, non placa l’animo che sa della fine ma manca di fini. Depenno con la mano i ricordi,l e riflessioni, e, completatasi la cerimonia funebre, mi accosto ai genitori. Una parente osa sottolineare l’assenza di Sebiano e la madre prontamente.

“Non è potuto…, e, mettendo insieme sillabe mozzate, l’Università…la sua ragazza…l’incidente-.

M’impicciolisco. Mi sento un verme. Avverto che l’Esistenza è l’Inautentico.

“Quale il senso della perenne oscillazione fra la verità dell’Essere e la non-verità tumulata da millenni di norme, che pacificano gli animi di pseudo legislatori ma non allietano il percorso vitale? Bisogna morire dentro, bisogna scendere nel mondo di Pluto (il vero detentore della ricchezza), per vivere le essenze che vagolano nella natura e determinano il nostro essere? Perché tanta malvagità, tanta angoscia, mi dico. A Sebiano, che insistentemente chiedeva: “Leggere la Parola degli antichi, perché?, solevo rispondere da docente: “Non Deus nisi Dei. Possiamo cogliere l’Uno solamente se esperiamo la presenza della molteplicità, dentro e fuori di noi. Nel sentire l’estraneità, la dif-ferenza, balza fuori il confronto e prendiamo coscienza della parte più viva, più vera di noi, l’anima. Essa partorisce la Parola, edulcorata dal Pensiero, che appena nato è lindo e che inevitabilmente si contorce, sferzato da mille tentacoli.

Voglio uscire da quel luogo funesto. La nonna morta. Sebiano assente. 

 

L’assenza fomenta l’immaginario e, circa due anni addietro…

…picchiano alla porta. Con indolenza allontano il testo che m’immette in sentieri alieni. Mi avvolgo nella vestaglia di piquet ed apro. E’ Sebiano. Lo trascino in cucina. Deve scaldarsi. Preparo una tazza di the e attendo. Le sue mani tremano. Fissa il bordo della tazza, si sofferma a carezzare le due figure dipinte, che allacciano le mani per prendersi ed iniziare la danza e, con un cenno di smorfia, esplode. 

“Male, sto male. Oramai servo della Nostalgia. Procedo e non in avanti. Buio…tanto buio, ho paura, so, non so…

Gli accarezzo i capelli e oso. 

“Ti manca?”. 

La risposta non è immediata. Il dolore blocca il respiro. 

“Sì, mi manca da morire Franco. Un amico prima. Insieme a scuola. Insieme in palestra. Insieme al pub a scolarci la birra e chiacchierare e dire ed io ad amare i suoi occhi fondi e persuasivi, a toccare le sue mani carnose, a riascoltare, solo in camera, la sua voce cavernosa, perentoria, io affascinato dalla sua sensibilità. Io innamorato folle. Speranza! Attesa! Le sue telefonate, invocate e la sua voce consenziente all’incontro. E poi a passeggiare sul lungomare e lasciare correre gli attimi e non dire, non turbare gli aneliti magici. La Natura complice. Si blocca ed io immobile. Spero che riprenda e così è.

“Dopo l’ennesima birra, domenica, io e lui in macchina. La mia mano scivola sulla sua. Il contatto della pelle esagita i sensi. Voglio la sua bocca sulla schiena. Voglio le sue mani sul mio petto. Gli accarezzo le ciglia. Il mio respiro si fonde col suo. La mia bocca s’impossessa della sua. La sua immobile e mai fredda. Risponde alla invocazione e lo sento mio, totalmente mio.Nella fusione totale scopro che la Vita è bella, la Felicità è una Luce che non può durare, per non rimanere accecati…

Conati di vomito contraggono le labbra di Sebiano, che si dirige in bagno. Torna in cucina e, mentre due lacrime corrono su una pista gelata, continua. “Desidero altro incontro. Tento, insisto e Franco no. Sparito nel nulla, svanito…svanito.

Io non indago. Non importa capire se Franco è un diverso. Riesco a dire, per smorzare il dolore di Sebiano: “L’Amore imparadisa. L’Amore imbriglia. E tu a spiare…ciglia, mano, lo scompiglio dei capelli, il fallo infallibile e decifrare, sempre decifrare e lo sguardo all’ingiù, nello spazio ctonio, ove s’addensano le umane e molteplici forze. Tu…tu umano, consapevolmente ed inevitabilmente distrutto.


Perdonarsi

 

Sempre e in ogni dove. Prevale lei. Quella Forza immane che mette a soqquadro l’attorno e lascia stordita la Ratio.

Sì, la Ratio. Salda un tempo, impalata, fusto possente, che lotta cogli eolici soffi, senza scalfirsi. Così profondo il rizoma, abbarbicato ad una quantità infinita di zolle.

Sparpaglio i Ricordi. Uno si piazza. Così s’impone il piu’ inviperito, in un gruppo ove i giovani evocano temi toccanti.

Il Ricordo, proprio quello, emerge piu’ intenso che mai, piu’ crudo che mai, mai sbiadito.

Rivedo una modesta cassetta. Contenitore di libri, libri di scuola, storie d’amore, avventurose scoperte. E gli occhi, i miei, erranti fra le righe. Poi….su una biga, trainata da un solo bianco cavallo, volavo. 

Sempre così. In un mondo capriccioso, un mondo simile a chiome solari, chiome ricciute, invitanti, chiome beffarde.

Ecco….un giorno…..l’incipit mi sfugge e anche la cagione. Non importa. Mio padre è furente. Avvinghia la cassa. Affonda le mani nervose tra i fogli. 

Facile, molto facile se l’oggetto è innocuo, se la presa non fa resistenza.

E i miei fogli si lasciano tagliuzzare e finiscono.

Anche loro passano via, dal contingente frustrati.

Ma non del tutto. Il dentro, l’anima che dentro conservano, scivola via e riabbraccia quella del mondo.

Copiose le mie lacrime. Svuotano il sacco. E tutte, confusamente, sulle ginocchia piombano, adagio adagio a terra riposano. Lì si consumano. Insieme a tante, a quelle degli altri.

In me? Senso di spregio?

Nè rancore nè odio. Solamente il rammarico, solidale alleato, mi offre conforto, com me si confida e, accarezzandomi, mi insegna che una grande rivale è l’Ignoranza.

Lascia segni imperituri, segni malefici.
Torna sempre quel ricordo a riaprire la piaga. 

La Mente di allora, ben salda, non si scompone. L’accaduto non la scalfisce. Continua il lavoro di sempre, la lettura di sempre, continua senza mai sosta.

 

E oggi?…

…oggi la Ratio barcolla.
Incapace di sfoderare la logica arma, l’arma affilata, di spesso rigore.
Il sentiero dell’Intelletto è piano, interessante, facile preda per cacciatori incalliti. Importante sapersi destreggiare, mai dire di no. Importante caricarsi della forza della sorella gemella.

L’altra non poggia il piede, saltella e volge sempre lo sguardo alla cima, al punto piu’ alto, ammaliata dal raggio che lì trova posa.

Ed è la vincente, poichè la Ratio è stranamente confusa.

E sfodera le unghie affilate, bene si destreggia tra maglie infittite da nodi robusti e, col suo diktat superbo, solleva la cresta, prima tenuta nascosta, ed è pronta all’avvinghio.

Ecco…..un carro squassato, manco di bulloni, cadente ai lati, privo di telone, col capo scoperto.

A guidarlo è lei, la gemella, la forza spasmodica.

E sono tante le ancelle, che assumono il posto di guida. Si alternano e mordono il freno.

C’è Superbia, altera nella sua veste sgarlatta, col naso sempre all’insu’. Mai lo sguardo prostrato, suadente. Un filo la lega alla mano che il Cielo protende. Scaccia il qualunque, morbo letale.
C’è una donna diafana, qualcuno la dice Tristezza, ammantata da una stola dal colore della neve lordata dall’aria. Semicurva, guida e non ha esatta coscienza. Sconosce il rossore, che è quando il sangue ribolle. Mai assume il rosato, che è quando il Sole perde vigore.

E Inquietudine, con le mani parate in avanti, corda vibrante al tocco del musico, bene allenato.

E altre, tante altre.

 

Il Caos. Non il nulla. Anzi il tutto, in una grande mescolanza. La magnifica Confusione.

Distinguere? Scegliere?  Impossibile. 

Una forza intensa, l’Unicum, perchè tante e ciascuna di entità possente.

Distesa.
C’è un lui, una lei, un’altra. Comunione di cuori.

Lì, amare è donare. Il non-privato. Uscire dal grembo, tagliare il cordone e scambiarsi con l’altro.
Se ciò non è, l’egoico serraglio. Museruola che stordisce ogni senso. Nell’intensità il dono assume particolare importanza.

Amare è vibrare al ritmo dell’altro.

Amare è specchiarsi nel riflesso delle scintille che slittano  dal corpo dell’altro.

Amare è sentire al di là della voglia matta.

E’ il non sapersi contenere, perchè le catene volatizzate e tu, in cima, ad ammirarti, a contemplare l’impossibile tocco, a contenere l’impossibile visione, l’esageratamente vasto, il numinoso.

E tanta paura. 

La dea infernale abbandona il torpore. Sale dal mondo dell’Ade e ti copre di brividi.

Quel brivido è l’aroma, che crea una raffinata pietanza.

Quel brivido è livido, in un corpo totalmente amputato.

Distesa.
Non completamente libera. Tutta compresa nello sguardo di lui. Magnetico, criptico, ambiguo e decisamente saggio.

La saggezza d’un già consumato, un dolce-amaro vissuto.

Il saggio che edifica, colla ruspa distrugge e ri-edifica con metodo nuovo.

Il saggio che misura dettagli, non detta all’impronta, nè offre precetti.

Sa del lungo viaggio.

Sa dello scavo, alla ricerca dell’ambito tesoro.

Sa che il massimo è in rapporto a ciascuno.

E nel raggiungerlo…..quanta difficoltà!….che fatica!….

E perciò la lotta. E perciò la guerriglia, tra forze che dentro si agitano.

La grande sommossa

E’ in ballo la vita.

La mente scotta ed è la fine.

 

Distesa.

Le labbra di lui a versare bolle infuocate. 

I denti a scontrarsi per aprire una breccia.

La voce, angelica melodia nel “…bellissima…”

E l’anima s’addorme, si acquieta. L’abbandono totale.

A concederlo è solo l’Amore.

 

Così una volta. Una casa piena di gente. Sorelle, amiche, compagne. Va e vieni. Tanto frastuono. 

Poi…..le tenebre bussano. 

Il mio foglio a metà. Il mio pensiero sterile.

E’ il momento della tisana, che scioglie le membra e allenta la presa.
Vado da lei. La mia mamma. Corposa e tanto fragile. Adagio il mio viso sulle maestose mammelle e mi appago…ora sono tranquilla, felice, serena, in quella fortezza sicura. Difesa. E sarà così per sempre.

Con lei, con lei che non è piu’, colloquio e da lei, dalla piccola-grande donna, traggo la grinta e m’involo.
La Pace. Miracolo dell’Amore.

Distesa.
La mano di lui s’insinua sul seno dell’altra.
In un campo, ove i belligeranti sanno che la vita è in grave pericolo. La vittoria sta nell’ardore. La forza è tanta quanta la necessità del ritorno. Ritorno tra i cari, soli nell’attesa, soli nella speranza di un vitto anche modesto.

E dentro cento armati. Si moltiplicano. Il numero è incalcolabile. Tanti per prevalere. Ogni guerriero al suo posto, ubbidienti al capo. Ed è vittoria. 

Quella mano forte e decisa, pesante come tutti gli armati. Quella mano tenta la grande difesa.

Quella mano infierisce contro di me.

Sono io la grande nemica.

Trucidarmi. Annientarmi per evitare il suicidio. La resa totale. Il darsi ad un altro. Perdere la Massa che tanto sostiene e soccombere ai colpi che dal centro rimbombano.

Quella mano….è un gesto….innocuo ma tanto crudele.

Solo allora la Mente torna a girare.

 

Distesa.

Il mio corpo è andato lontano. Fuori, abbagliato dalla luce nefasta che il cielo sprigiona, intontito dal rumore dell’acqua che piomba sui tondini colorati dalla ruggine.

Lontano da lì. 

Corro. Le gambe riacquistano forza. Corro per creare uno stacco.

Non farmi toccare dal fango. La pioggia s’impolvera. Le gocce perdono la luce di prima. Si seggono su basi di marmo, lerciate dalla gravità di altre sostanze. S’incuneano e piombano agli angoli, dalle feci lordati. Necessità impellente. E l’acqua si merda del tutto. Non c’è pulizia. Non c’è freschezza.

 

Un tempo. Tempi andati. Al centro di un verde giardino. Coglievo, aprendo le palme, gocce pulite. Facevo roteare e poi versavo sui semi.

E ubbidienti tornavano a me. Pulite e pronte a nutrirmi di sostanze benefiche.

 

Oggi non piu’. Oggi tornano lorde. Gocce profanate dagli sputi. Sputi di lerci. 

Che fatica!….grande fatica!….

E’ volato il tempo, piu’ impetuoso che mai, piu’ tiranno che mai. 

Oggi la grande fatica. Pulire le gocce. Darle un lucido, schiarirle col respiro di un grande Pensiero.

Impedire che la Mente tracolli. Perdonarsi.
                                                                                         
                           


FUGA

           Immagina…….

…un campo vasto tanto quanto il luogo natio. Lì, gli estremi sempre in lotta. Fisionomie diverse per crescite diverse in ambienti diversi. 

Immagina…

…il Nord ricco, carico di moneta ammassata. 

…il Sud carico sì, sostenuto da ancestrali conflitti, accalorati dai raggi d’un sole africano. 

Mai avverrà la rottura. 

Uno il popolo, uno il sentimento, l’uno che trova forza nel di-verso d’un quotidiano vissuto.

E la vita corre su binari talora consunti, ove slittano locomotive di vario spessore.

Sarà sempre così. Sarà così anche per lei, per Paola. 

Un campo enorme il suo essere. Ed esserci è per lei una necessità. 

Quanto dolore dentro!

“Essere…?, e piomba il dilemma della qualità.

Ambigua, sfuggente non per posizione, oscilla fra poli che affaticano ogni sua vena. 

E versa lacrime, tante tante gocce d’un salato struggente.

Distrutta da un sentire, ovattata da emozioni, che ad altri procurerebbero gioia.

In quel turbine, nel turbine della grande Emozione è, e non si chiede il perché. 

Sa che l’intenso sta nel flusso, che assume toni diversi. 

E un evento dagli esiti splendidi scatena un uragano di fuoco, che è principio per l’uomo, principio vitale.

E a Paola sono venute meno le forze. E’ crollata. 

Devastante lo sconvolgimento interiore, dopo la resa passiva. Dopo avere concesso a sé stessa l’assenso. Subìto una positiva disfatta.

Ha schiantato le mura, valicato i macigni, quelle che segnano l’ermetico limite.

L’oltre…e le gambe bloccate, anchilosate, il respiro fremente e le ferite aperte a versare vino anticato in un banchetto di uomini stanchi, fiotti di liquido rosso.

Rimanere crisalide?

Deciso il no. Farfalla e volare, volare sempre più su.

Poco a poco. Col rispetto della giusta misura. Lì il punto.

Quelle pietre, prima osservate, e poi odiate, con grazia divina accarezzate e con pacata maestria, al modo di chi punge la pelle per iniettare una dose che offra salute, forate per dirottare nell’altrove.

Un agitarsi, spingere in avanti, nonostante sia facile cadere nel baratro. 

Vitale è sporgersi. Tentare, per non morire del tutto.

Paola ha gli occhi spenti, sprangati.

Una fioca luce affiora, al pensiero di lui.

La Vita. La salvezza. La speranza. La simbiosi perfetta.

No…non la simbiosi…ecco…torna il tremore, la grande consapevolezza…la confusione col tu.

Qualcuno, bussando, dice:

“Sono io, e la porta rimane sbarrata. 

Paola bussa, dice:

“Sei tu, e la porta si apre.

Ora fugge. Fugge e non da sola.

È con lui, nonostante manchi la presenza. 

È col calore di lui e con la propria anima in pena, carica dell’anelito tanto sognato…e non accetta non permette che il tempo di un attimo si computi e malvagio la catapulti in altri sentieri.

Paola è fatta così.

Sa dal capo di un ponte slanciarsi ora in fretta ora claudicante, percorrere spazi, giungere in fondo e poi tornare per reiterate volte e con ritmi diversi.

Quando però un ritmo afferra il suo cuore, lo attanaglia e rende più calda la fiamma, e non è un evento che capita spesso, lotta per dilatare nel tempo quel sentire profondo.

È un castrarsi. Un volere vincere in un gioco fittizio. Inebetirsi nel sogno.

È fatta così, Paola.

Sa volare, molto in alto colle sue braccia bruciate.

Quanto, quanto durerà la fuga dal recinto normale, quanto tempo prigioniera di un sogno, sogno che la inchioda senza darle respiro?

A tale simbiosi perfetta Paola si ribella.

No…no…no…ecco il grido che la lacera dentro.

Non può distruggere sé e consumare l’altro in nome di una unione perfetta.

Felice? Non lo sarà mai, solo se si perderà nell’immagine altrui.

Il lui è il dio senza confini. Il lui è il completamento di lei.

E lei inevitabilmente sprofondata in tale immenso contenitore.

E fugge e va alla ricerca della forza, della grande energia.

E la invoca nelle strettoie, negli oscuri anfratti della via maestra.

Sola.

Agli altri è possibile, forse facile, battere il passo e, in uno spazio spianato, procedere.

A lei no.

Mendica, incurva la testa. Ora si copre. Ora converge la chioma in avanti, ora indirizza il piede manco in un buco, proprio lì ove il passo è stentato, ove la luce è monca e la Natura, sempre lei l’artefice di tutto, la Natura non si offre del tutto. A tentoni legge gli scritti sui muri. Interpreta i dipinti sui muri. Sì, i muri segnati, dilaniati da unghie rapaci, di chi vuole ferirsi, consunto già da letali ferite.

È una lettura scontata. Un rivedersi. Un guardare. Dionisiaco specchiarsi nella pluralità degli eventi.

E nel cogliere i vari fonemi, nella frattura dei suoni, nella percezione dei toni, mutevoli sempre, non accetta che a lui s’è arresa.

Avere dato il consenso. Donarsi al completo.

È lotta. Dilemma. Gioia e dolore. Sofferenza nell’immensità della gioia. 

Forse la resa non è resa passiva.

Paola non può svuotarsi. E, dentro quella carica enorme, si agita e detta le sue norme.

Arrendersi all’arciere più astuto del mondo, è inevitabile e così non si sente finire.

Arrendersi e gridare forte che la sua vita è la sua, deve alzare il vessillo della sua libertà, è inevitabile e così intende i confini col tu.

 

Paola…distesa nel letto.

Eco ridona il suono della voce suadente di lui e riascolta il nome di lui e le sillabe che tornano infinite volte.

Eco gagliarda…mozza il respiro la spinge a serrare le labbra su quelle di lui e lei soffoca e le sue labbra non si staccano mai.

Impossibile fare intendere all’anima, che s’è acquartierata al centro del cuore, di tacere, frenare i suoi palpiti.

Alla Mente non è dato il potere sovrano. La Mente non può dettare leggi, che non entrano nel campo della sua influenza.

Così avviene ai bimbi. Nel regno dei bimbi, nel campo dei giochi, assordati dal frastuono di voci scomposte, non odono il monito del maestro tanto accorto.

Quale dio, nell’Olimpo rimasto, saprà porgere il destro, dirle che il tramonto è dolce perché è nuova la luce che torna e l’attesa è trepida come il ponte che percorri a tentoni?

Lei…lei sì, cerca ma è vana ogni ricerca.

Un simulare, barattare e l’oggetto non c’è.

Il dio è dentro di lei. È quella forza che pesa e lei, consunta da tanto patire, non sa catturare.

Sorride Paola e con la stanca mano si terge il viso.

 

In tale campo, ove non cresce il frutto innestato, ove il Sole la Luna la Notte fanno capolino, ove il respiro esala sincero, spira il soffice Vento e ebbro le dà nutrimento e lei, Paola, pronta a schivarlo.


AMBIVALENZA

 

Occhi neri, accattivanti. Né alta né magra. Chiara, seppur di pelle non mielata. Chiara nelle movenze, leggibile nella linea del corpo, nel fiato che non sa trattenere. 

Non cela e cosa dovrebbe?

Il dibattito interiore è solo per pochi. 

Quei pochi che stendono lame affilate, sorridono e tendono mani leali in luoghi invisibili, nei profondi recessi. 

Recessi che, col correre del tempo, si ampliano e spazi altri rivelano.

Radici divelte e la lei catapultata altrove. E tanto sola. In balìa del naturale bisogno.

La lei, mentre procede e talvolta poco accorta, s’inebria per sguardi vaganti, predatori. 

Impersonale. Svestita. Ed è alla mercè di chiunque. Chiunque voglia frodarla. Il tutto al rallentatore.

Chi abusa di lei…….calcolatore del tempo.

Chi approfitta di lei…vaso visibilmente vacante.

E lei, stonata da un bla bla vuoto di senso, si prostra.

E quando un fascio di luce accarezza le guance, un segno gentile scalda il suo corpo, si perde.

E dice sempre di sì. E vaga in un perenne dormiveglia.

 

Alza la cornetta.

Le mani tremanti. Un mulinello macina il suo cranio. Le gambe molli. Vomitare quanto da tempo in serbo tenuto e trucidare ancora una volta. 

Ha deciso. Pugnalare la rivale. In tal modo decreta la morte di lui.

Impresa ardua. Calcolata a puntino, dipanata la confusione mentale. Adagio adagio. Sedersi al centro. Forzare serragli. Spalancare casse inutilizzate. Rovistare, sparpagliare, sfilare, da grovigli di fazzoletti di seta, uno, quello particolare e gettarlo in mezzo, tra tanto disordine. Sorretta da forze divine. Così l’eroe ed è vittoria.

La morte di lui è, solo se l’altra sparisce.

  Claudia…. Claudia…. trafitta nell’orgoglio, deturpata, defraudata, infangata, rifiutata. 

Non più protagonista nel cuore di lui. Non lo è mai stata e solo adesso sa con chiarezza.

La regina del reame è l’altra. 

Il suo cuore, colmo d’amore, agita il fratello gemello.

Per sempre…quell’indimenticabile distico che costella l’Universo e non di molti.

Non molti…randagi però e tormentati.

Feroce nel sillabarlo, profondo nel cantarlo.

Un sali e scendi di note che scuotono il ritmo interiore fino all’epilogo drammatico.

 Il “non so” proietta in una vastità che produce tanti “perché ” e intanto un pugnale macera l’intimo tuo “Odio e amo …..”

Se sei avvezza, provi il brivido e quando sei calda d’amore e quando sei gelida d’odio.

In tale frangente, il canto del gallo desta corpi infiacchiti e il mare, ceruleo del Sole che va, sopisce menti stanche.

Così il tuo sospiro. Ora spezzato ora disteso.

 

Alle orecchie di Claudia, una voce mesta e decisa “Pronto…

 Una voce solitamente invitante. Sussurra e promette. Insieme cogli altri. Comunicare, accettare, cogli altri procedere. Quella voce trasforma. Dirotta in luoghi accessibili.

 

” Ciao…, il fiato di Claudia.

Ed è panico. Facile intuire. Afferra la gola, strozza il respiro quando, sola, in un casolare squartato da belve, senti il dardeggiare del fulmine. Il tuo dio è irato. Ti sovrasta colla sua forza immane. E tu cogli il tuo minimo. E tu vacilli ancora di più. Monade. Quali armi per la difesa? L’esageratamente grande non si lascia attaccare nè esaminare. Furtivo. Incute solo paura. E tu…prossimo al lumicino.

Al modo di un foglio, salvato dal Caso. È parte di te. Parte del tuo respirare, camminare, sostare. Foglio ingiallito. Del tuo diario parte. In cui il pennino, despota crudele, ha infierito, coprendo la totale bianchezza. Coperto di neri grafemi, che dicono e no, che vincolano, monco di spazio, di luce, inerte e inutile.

 

L’altra tuona “Mi laceri l’animo. 

E Claudia, al di là del filo, singhiozza. Si libera. Raggiunta la meta. Mirava a questo. Annientare il nemico. Scardinare un poderoso macigno. E canta vittoria. Solo in quell’attimo.

Riprende fiato. Torna colla mente ai tempi andati, ai tempi felici. Già…..il suo animo, drogato dai sensi di lui, alimentato dalla speranza, palpitava della presenza di lui, della  protezione di lui, a lui cedeva. Colta dal fascino, sedotta dalla loquela fluida. Facondo e mentitore, attendibile fino ad un certo punto e perciò degno di nota.

E Claudia, pilotata da lui, evadeva dall’ambiente di lì. Luogo di baldoria, minuscolo sito, morsa che agguanta con l’invisibile mano e decreta la tua nullità. 

Fino a quando il lui rivela il suo amore per l’altra.

L’altra….altra vittima.

Claudia stende le narici. Ingoiare una quantità infinita di aria.  Trattenere il fiato e rigettarla. La paura di un attimo prima perde vigore. E’ già calma.

Distruggere. Chi? La rivale è già una vittima.

Il grottesco. Aborto della natura. Lo strano per eccellenza. Ridere solo per dilatare le labbra e dentro, un pizzico, anzi tanti, e sì pungenti da squartare la pelle, renderla esanime.

E tu non provi dolore. Non ci sei. Distruzione totale.

Già…anche l’altra….vittima…consunta e dall’imbelle natura di lei e dal tono amorale di lui. Nessun limite nei loro rapporti. Sesso sfrenato. E l’Amore, che pretende il silenzio, il luogo più buio, che rompe col Senno, dove?…….

Per un attimo Claudia spera.

L’altra è morta.

“Lui torna da me. Saprò consolarlo. Ritrovarsi. Al modo di prima. Giocare a fare l’amore. Poco, in verità, mi concede. Ai suoi amici, con amore, mi dona. Stargli accanto. Così voglio. Sostenerlo. Mirarlo, quando vaga cogli occhi splendenti, quando ansima, quando tende le braccia, dischiude le labbra, interamente avviluppato dal Sogno…e Claudia anela e ansima.

 

L’altra, di rimando, solo un sibilo:

“Non intendo più offrirti il mio destro. Non intendo più placare il tuo animo. Voglio convincerti che le foglie a terra si adagiano, colle stagioni si alleano, concludono e poi ri-tornano.

Un addio. Chiusura totale.

Ha compreso. Il gioco viziato e balordo. Contiene in entrambi le mani l’odio di una donna beffata. Quintali di pece. Per sotterrare lui. Tale l’intento di Claudia. 

 

No…non può il lui morire del tutto.

E’ nel vortice, frullato sì da perdere il senno. Vi rimane, a meno che qualcuno, da un luogo elevato, decida di no. Qualcuno forte, deciso, di animo grande, scaldato dalla fiamma di un cuore che arde.

E lei pronta a riportarlo a riva…

torni con qualcosa di più…esperienza…esperienza di vita.                                               Ecco….il gelo immobilizza a Claudia le vene. Il sangue si blocca.. Bianche le guance. Le mani immobili. Vitrei gli occhi.   

Quel gelido senso agguanta il filo, vi scivola dentro, all’altro capo perviene.

E l’altra elettrizzata. Un brivido. Una massa di neve la copre.

 

“Perdere lei?, Claudia  fra di sé. 

“Non intende più colloquiare con me?…, si dice e sente la fine e il funereo sapore del crollo.

A chi cedere il suo grande tormento?

Chi violentare?

E il filo per uscire da tante strettoie?

Dove un cuore tanto leale?

Claudia…Claudia…da Afrodite scaldata, da Ermes trascinata, da Zeus schiavizzata.

 

“Preferisce te…singhiozzando, finalmente si libera.

E l’altra, calda di umano, chiede perdono.

Così un giorno, in una certa ora, da un paese lontano.

“Io, l’elemento turbante. Dileguarmi. E torni la pace…, intanto le sillabe, gocce dal cupo colore, tonfano e bucano il suolo. Forano l’animo di Claudia.

 

“Quale colpa, di cui deve pentirsi?…, è il vero, che balena nella mente di Claudia.

Attonita.

Il retrocedere dell’altra paragona al sogno, quello che all’alba si mostra. Verosimile. Non vero. Probabile perché fortemente desiderabile. Così il Reale. Sul suo palcoscenico, gli attanti svolazzano, litigano, si alleano, si mordono. E tu dapprima osservi, poi ti cali. Sei protagonista. Probabilmente. Come nube che appare e vola via d’incanto. Così il tuo agire, in quel finto scenario. Ci sei e non ci sei. Così in una immensa vallata. C’è vita, se l’uno orchestra col tutto. C’è vita, se tutti sono invitati a muovere il passo. E un concerto di note, ascendendo e posando in luoghi beati, colorano cielo mare terra e purgano e lavano e spazzano quanta vi è di sozzura.

 

Claudia è crollata. La cornetta cade di mano.

“Se rimane priva del calore, se perderà la chiarezza, la nota dolente, la enigmatica ricerca, il sentire sincero, cosa sarà di lei, di lei, in balìa di un sogno, che, all’apparire del vero, s’è prontamente dileguato? Saprà accettare le tracce? cibarsi delle molliche?, tali i pensieri di Delia, l’altra, l’eterna rivale, il doppio.

 

Claudia ha bisogno di aiuto. 

A sì profonda disillusione si sopravvive sì. Illudendosi.  

Illudersi che il Male è sconfitto dal Bene. 

E c’è sempre lei, l’amica – rivale.

                                                          


AUTENTICA

 

Novembre. E’ notte. Una qualunque.

Il manto che copre le cose di qui, pungente.

Così, in un mattino brinato, si accappona la pelle.

Il manto che turba le cose di qui, ha un tono speciale. Lo stesso del mondo di lì. Bucato, a tratti solamente, da una presenza sfuggente. Enigmatica ed infida Luna.

 

Gocce feroci si sciolgono sul selciato del tutto levigato. Oramai specchio. Specchio che manca di presenze.

 

Si offre a te.

Soffermarsi, incuneare le ciglia, pilotare l’immediato, spogliarsi del subito, sfogliarsi d’ogni pittura, sfrondare il superfluo e….attendere la visione mirabile…non piu’ viscido selciato.

Da lì emerge qualcosa o qualcuno.

Il tono non è per nulla brillante. 

Duplice aspetto. Bestia o essere umano? 

Di genere ambiguo. Immagine scontornata. La non-risolvibilità.

Si offre a te.

Il volto che empie lo spazio, si para davanti.

E’ quello che brami, che recide ogni fibra.

Ha il colore che la mano dell’Anima crea.

Si offre a te.  

Simulare, barrare le palpebre, volere non vedere, è assumere la norma a soggetto del vivere.

Dondolarsi sulla cresta dell’onda di un fiume, mai coniugarsi.

 

Ai bordi del selciato invitante, macchine, lucidate dal gelo, in riga perfetta. Svelano la grande voglia di stare nel rango. 

Non contravvengono. Smonetate, bloccate per timore di multa. Prostrate al rigore.

La regola….un dettame che viene dall’alto.

” Da chi? i fari sembrano chiedere.

” Un dio ha abbandonato lo scettro?

 Un dio, dalla eccelsa bontà, s’è scaricato del potere del fulmine?                                                      Un dio concede la delega?                                 

Un dio si fida d’un suo surrogato?

E se l’uomo, nell’uso del regolo, traccia una linea per nulla corretta? Se sconfina? “, il suono è catarroso.

 

Quella notte di Novembre.

Coppie, dai volti celati da larghe fasce di lana, si sottraggono al gelo. Stanano da locali fumosi e volano via, svaporano come nube, quando il raggio si impone. Si nascondono.

Così la Natura. Ama celarsi. E si fa rincorrere. Specie quella notte.

Quella notte essenziale. Picchia nei cuori.

Si destino!

Sappiano dell’inesorabile Ora, del rifiuto, del desiderio mai appagato, del figlio che c’è o non c’è.   

Sappiano che morire è rincorrere il Buio, quando la Luce è esageratamente evidente.

 

In tale gioco feroce, cogli occhi bendati, vince chi sfodera il meglio di sè

Il resto si perderà, strada facendo.

 

Ella sta fra il muro di cinta d’un palazzo d’altri tempi e un vasto edificio, di struttura attuale.

Rannicchiata nel punto d’incontro.

Un mantello cade fino alle caviglie. Scoperto il capo, scoperti i piedi minuscoli entro minuscole scarpe.

Le spalle, non vedo le spalle e tutta la parte all’insu’. Forse ne è priva. Vedo gli occhi, socchiusi. Avvolti dalla chioma solare. E da una breve fessura, minuscoli canini, nati e non per addentare la preda. Aborto della natura.

 

“Priva della parte piu’ calda?,dico fra me e, mentre tali pensieri folleggiano, mi accosto adagio adagio.

Non intendo destarla. Partecipare sì, insinuarmi tra le sue cose nascoste. Disvelarmi.

“Avverte un’altra presenza? Raccoglie il filo che rotola entro la mia mente? rimugino.

Diresti di sì, nonostante gli occhi vaganti e il pallore d’un cadavere andato.

 

Ecco….le mie orecchie odono…

“Ho gridato forte il mio no…..

“Da dove tale suono?, balbetto.

Solamente un luccichio. Il bagliore del sogno. Al risveglio nulla piu’.

Eppure è accaduto e nei fondi meandri, nelle caverne piu’ ardue.

Sì, quella larva ha gridato. Tirato fuori il nascosto, ciò che vive nel fondo piu’ fondo, dall’elmo reso invisibile, il mistero, il necessario impellente, che sgrava da macigni pesanti e disvela.

Al modo di un complice sguardo,

dello sguardo che trascina la massa,

dello sguardo che infuoca l’amante,

dello sguardo che preannuncia il verdetto.

 

A lei mi accosto. Accarezzo la sua mano tremante. Osservo la linea del viso. D’una bellezza, andata col tempo, consunta dalla violenza che impera nei tempi presenti.

Strano….quel mucchio di ossa sconnesse mi esagitano dentro.

“Una persona dell’Ade – mi dico – profondamente dilatata. Nè spazio comune nè tempo comune. Al di là della sostanza normale. E’ da immaginare. E non puoi mai contenere del tutto.

“Una di quelle che non può rimanere tra quelle di qui…e tanti, tanti altri pensieri frullano e non hanno mai tregua.

 

Torno in me.

Io, io perchè tanto attratta?

E quelle sillabe, che rimbombano, al modo del tuono che le orecchie rintrona, mentre il seno salta e poi si prostra avanti all’evento divino.

Io, come un bimbo innocente, quando è punto dal veleno di una serpe ostile. Non armi nè forza. Sente i morsi del Male e, inerme, soccombe al triste destino.

 

Una larva carica tanto da gridare forte il suo no. Rifiuto totale. Un mostrarsi autentica.Volontà tenace….però…manca della parte piu’ viva, della zona centrale, quel dove prediletto dall’Anima, quel vaso a forma di cuore.

 

Voglio indagare. Scoprire. Entrarci. 

Si può solo se si svia dalla via maestra.Giri a destra. Una piazza con mille viuzze. Ciascuna ne ha altrettante, si legano tra loro, danno il braccio ad altre.  Non c’è mai fine. Forse il fine è non da raggiungere. E’ la molla per andare, non cedere alla stanchezza. Il fine è ricominciare a scoprire, dopo il già risaputo.E ancora ancora ancora……..

Chiedo, molto rapita “Quel “no” ?. 

Nessuna risposta giunge alle orecchie.

Voglio scoprire. 

“Che cosa?,dico.

“Perchè priva della parte piu’ viva? Tagliuzzata da altri o è lei l’artefice?

 

E per dare un senso corretto e leale, volgo lo sguardo al riflesso che la Luna ha dipinto. L’Ombra di me. Muta, potresti dirla. In verità piu’ loquace dell’aedo della reggia itacese.

L’Ombra conserva la vera coscienza di ciò che vive nascosto. 

All’emergere sarà Bene oppure sarà Male.

Nell’Ombra,contorni non bene definiti.

E’ una immagine buia. Non la tocchi con mano. Nè si lascia serrare. E’ sempre presente, efficace e incute tanta paura. Impossibile imporsi. E’ lei che domina.

“Come farla parlare?

Impossibile. Non ha lingua.

           Io devo comprendere. I segni ambigui e tanto evidenti. 

Così il suo mondo. 

Buio e pieno di luce. La luce del vero. Nel suo mondo intelligenze sepolte. Dal suo mondo idee, che brilleranno nel mondo concreto. Da lì valori sopiti, che daranno frutti superbi nel mondo di qui. Da lì, da quell’incognito mondo  e dal tono della Notte, la Notte di quel Novembre, la scintilla che alimenterà il falò.

 

E l’Ombra dialoga con me.

E’ buona. A me confida le pene dell’altra.

A quella, quella mutilata, è dato gridare forte il suo “no”. 

A lei risulta facile. Una Mente non riscaldata. Non sessualizzata. Una mente che vive a temperatura glaciale. La non-conoscenza. Non toccata dalle forze mulinanti, che scompensano ogni parte del corpo.

“Chi….perchè…..? il mio dubbio.

L’Ombra si sposta, quasi svanisce.

Non vuole, forse non sa rispondere. La invoco.

 

“Ed io,io, perchè non grido forte il mio “no”, io,io, arbitra e dispensiera di giuste sentenze?, balbetto.

Tace.

Forse è l’umiltà di offrire la mia debolezza?

La chiarezza nel non negare quel tanto cercato?

Quel mio che l’altro riflette?

 

Il forse è la sola certezza.

E accetti l’errore.

E il cuore non sa dire di no.


 

EVOCAZIONE

           “Stolti gli antichi…../hanno scoperto inni…../canti per feste…../non c’è chi abbia trovato…../

per alleviare gli affanni degli uomini…../.

Alla riflessione di uno,uno che ha sapientemente scrutato l’intimo mondo femminile,

non sfugge che chi dispera ha insaziabile bisogno di note.Un animo esacerbato si

Un animo esacerbato si placa al suono della melodia.

     Così il marinaio, all’apparire di un porto.Che fatica il lungo viaggio!!…….

Ormeggiare è prepararsi ad una serata di danza.

 

Ilaria attende quel suono. Un attimo di felicità.

Lo sguardo assente, i gesti misurati e tesi rivelano.Indizi che uno sguardo distratto non coglie. 

Carte segrete, a pochi riservate.Auto blindate per la via maestra, brunite per non mostrare……

 …quella parte,murata,segregata da chiavistelli….un tempo inflessibili.Sì….quei serrami si allentano.

E un sentire,che varia sempre di timbro,si sprigiona.A lei non consente di farlo tacere.

La “sua” volontà? La “sua” libertà?

Se il terreno vacilla -è un dio a volerlo? -alle gambe viene meno la forza.

Il passo,alquanto ridotto,si dirige là dove non tende,pesta e non vorrebbe neppure sfiorare.

 

Ilaria è nella grande piazza.

Un mattino,fotocopia di tanti già corsi.Banale per la luce sbiadita,banale per il saluto indolente.

Una lucerna,all’angolo destro,frena il passo.Lì piantata,invita a sostare. Spenta è la luce. Bardata con ferri ricciuti,

appare molto piu’ bella.

IIlaria sosta e immagina.

 

Non piu’ una piazza deserta/ non piu’ faccendieri/ uomini e donne dal cuore gentile/ non mani plaudenti/scintille che

 accendono focolari in disuso/ un cappio dalla corda sdrucita messo da canto/ non c’è il potente per pecoroni incalliti/ 

un sommesso vocìo gradevole pizzica i timpani/……………

In quell’angolo, che sfocia in una via trascurata, c’è una imponente colonna. 

Sopra, l’effigie d’un uomo.I muscoli tesi,le gambe sottili per la strada percorsa,bocca ridotta a lama tagliente. 

Il bianco marmoreo,maculato di chiazze nerastre,rapisce. Una luce,superbamente nascosta,sfreccia dagli occhi.

Ilaria si blocca.Avvinta dal fascino. Uno qualunque potrebbe dire di no. Uno qualunque non ha gli artigli affilati,

allo stesso modo di lei.Nel guerriero dalla chioma fluente,dal dorso scavato,dai nervi evidenti,avverte un gran movimento.

In quel fuoco ella legge.Intuisce.Avverte l’Umano. Un caldo fluire,oltre lo schermo.L’imperturbabile  che sa dilaniare.

  E’ la grande provocazione.

Riversa Ilaria la testa in avanti.Tendine ricoprono gli occhi.La visione è altra da quella reale.C’è un modo,

che non tutti intuiscono.C’è un modo di intendere,pilotato dal cuore.

Un modo mirabile nel dire,nel dare.Non è il guardare di un morto.Cadaveri erranti,cadaveri che si abbeverano a fonte comune,che,pur tra rovi,non ricevono graffi.Fra tanti cadaveri,è facile non discernere il vivo.Solo pochi hanno arguta la vista.Solo chi,eremita,intende col pensiero del cuore.

  Ilaria alza gli occhi e avverte:non piu’ padrona,non possiede la chiave,non piu’ carceriera.

Fugge,spinta dal vento,l a sua Volontà. E lei sotto l’influsso di una diabolica forza.

  Un nemico, un dolce nemico.

 

Al tornare dell’Io,un senso di rabbia.Non è odio,un sentirsi incapace, partoriente fra dolori terribili che non vuole evitare,luna crescente che sa di ridursi.Il desiderare senza l’accordo del proprio volere. Dare il consenso a ciò che viene strappato.E’ lotta e per sempre.E’ la tensione continua.

E’ il viaggio che non porta al confine.

 

   Quel guardare col cuore ha un senso. L’illogico senso di frodare ciò che è tenuto segreto.

  E’ il grido squarcia la gola.Il “no”,la ribellione,è sì forte che introna le orecchie.Il cervello non consente.Inizia la lotta.Il cuore professa il suo “sì”. 

E’ duello.

 

La piazza vacante.Non c’è uomo che si fermi davanti alla statua.

E’ un errore.Stolto chi crede alla prima battuta.

C’è qualcuno……disagiato……non comprende il conflitto……non sa donare……uno sguardo……d’amore……..

Crede di amare,fa l’amore e prende per sè.

L’Amore è…..e,colla sua forza vincente,

scatena i sensi riposti,

incatena il furbo volere. 


INCANTO

 

           Incanto….

….quando le pupille si bloccano.

Sollevi la testa. E le ammiccanti faville rapiscono. Coprono il manto  azzurrognolo. Il tono già mesto si attenua.

Le stelle. S’addensano. Solitamente tante. Numerosissime ora. Accorse premurose. Vestono il solito ruolo. Autonome e energiche. Caparbiamente d’accordo.

Osservano me te ogni zolla ogni uomo.

E, da un luogo distante, spargendo sprazzi di luce, annuiscono, perché sanno.

Sanno della potente Madre, spesso infeconda, dell’evirato padre padrone, dell’ordine che manca di assetto.

Che incanto!….

……..la luce stellare somiglio alla forza mentale, carica del colore del cuore avvampante.

Senza di loro, carcerati entro la logica griglia.

Solamente pochi gli scelti e sono liberi e temprati dal perenne travaglio, liberi e dal volto sfacciato, liberi e dal polso nodoso, liberi e moderati dal Fato.

Gli altri, pecore pascenti su scardinati pendici, dominati da guide arrugginite, si sperdono.

Gli altri, bramosi dell’innaturale infecondo.

Il resto sarà il grande sconfitto. Crocifisso dal sé.

 

Incanto…..

 ……..in periferia. Una strada in penombra.

Lampade fracassate. Marciapiedi logorati da passi. Quintali di avanzi a gravare la terra.

Entrambi procedono. Splendenti. Così le stelle.   

Lei è con lui. Lui è Amore. 

Lei…a lei non è dato osservarlo. Non può. Un fascio di luce sì intenso potrebbe accecare. Sfiora la mano. Carezza i capelli. Respira l’odore.

 

Incanto…..

….vetrine brillanti. Luce s’aggiunge a luce. Due Soli.

E le pupe perdono lo strato di polvere. Spalancano gli occhi, stupite e felici. Le dita assumono una docile curva. I seni sottraggono all’inutile presa.

L’imperturbabile per nulla immobile.

Le figurine odono vedono toccano i sensi. Partecipano. Alla gioia e al dolore di chi si sofferma. Di lui si fida. Solo poi confida.

 

Incanto……

……tutto va. 

Il ritmo……incalza se sei tu a volerlo.

L’ordine…..a piacimento di ognuno.

Il Cosmo….un grande Pensiero una grande Anima.

Gemelli che spesso s’avvinghiano, spesso fanno le bizze.

Che disordine la loro stanzetta!

Ora l’uno ora l’altro a imporre la grinta, sfoderare surrogati di vita.

Se alleati, regolano e fondono i ritmi e regna la Pace.

 

Incanto…..

….c’è un’antica sorgente. 

Bimbi, distratti dal gioco, incuranti del tempo implacabile, giocano a dadi.

  Due cinque sette, la somma balena in un attimo. Vincere non è quanto voluto. Esserci e tirare un profondo sospiro. Tocca a me a te, ora nuovamente a me…….

Intanto la linfa s’affaccia, si versa, si dà. Lei, che ha steso fili per chilometri e più, indugia all’origine.

Le gocce limpide fluiscono. Gorgogliano. Volentieri si offrono. Ristorano.

E lei, accorta, accostandosi, beve l’acqua non ancora fangosa.

Incanto…..

……..l’aquilone è già pronto.

S’invola. Tentenna. Sta per cadere.

No….un soffio – da dove difficile dire – alimenta la forza e va sicuro, inflessibile.

E lei viva. Ne è l’artefice. E’ il suo aquilone. Scolorito forse, di dubbia fattezza, non esageratamente visibile. E’ suo.

 

Incanto…..

…..volare e seguire il proprio figliolo. 

Abbandonarlo? A volte succede. E quando, lacrime sgorgano dai petti anche inariditi. E’ il tuo fallimento. Precaria la nutrizione. Sostegni fasulli. Cordone mai divelto. 

La tua creatura non autentica. La non autonomia. Sterile.

 

Incanto….

….i due attratti. Dalla fessura di una finestra, che volge a ponente, mai scaldata dal sole e da tutti obliata, un tenue chiarore. Di una luce che entro sospira. Così loro. Anziati e beffati dal vento frustrante e dalla calura del sole d’agosto. Anche loro vittime. E il figlio tarda a tornare.

Stretti dalla morsa dell’Attesa gigante. 

L’Attesa ha lo stesso colore di lei. E’ calda e rossa d’Amore.

 

Ecco….

…..l’incantamento si smorza.

C’è un lui solo e svanito. 

L’Amore, sì, è di sesso maschile. E’ essenza. E’ virilità manifesta. 

Ma ” il lui ” ha gli occhi proni. Le mani cascanti. Prive di forza.

Si alza il sipario. 

Cosa vede quel lui, all’apparire sì spento?

Il luogo prediletto è una buia cantina. Un luogo creato dal tempo. I muri solo sporgenze di rocce, dalla muffa coperti. E quell’odore di stantio, di umido che accappona la pelle. Sente il mondo di là. Memoria del già. 

Pochi i cani randagi, pochi i frutti, da menti sagaci prodotti, pochi i curvi, spezzati dall’impegno costante. Lì né luce nè cibo nè grida. Lì c’è un’anima persa. Battuta dalla grande Paura.

Ora sei in alto. Sul picco di un monte. Assillato da serpi che avanzano. Tendono a te, iniettare veleno, colorare il tuo sangue di nero. A torto o ragione. I tuoi nemici. Quelli che procedono in senso contrario. Ora vincenti. Hanno corso di più, su un selciato agevole. Solo per poco. Non più la strada. Anche loro rimarranno bloccati frementi e disperati. E’ lei l’artefice, la stanchezza, lei pronta ad afferrare la gola.

Sei lì. Molto in alto. 

Sotto, l’acqua d’un fiume in piena. Corre veloce, adirata. Manca l’attimo. La riflessione. Ammantato del nero. Senno e cuore in una morsa.

Un’aquila….dispiega le ali, regina del cielo.

Invoglia….a volare. Istilla gocce di grande energia e col capo annuisce. Si duole di ciò che è stato e di ciò che sarà.

La rabbia si smorza, il già varia la tinta e un calore avvolge i talloni. Sale. Senti stridere le ossa delle giunture. Il viso incipriato di polvere rossa. Il colore dell’Amore. 

Per la Vita e quella andata col tempo e quella che il tempo offrirà.

E il panico è la tua energia.


Afrodite, bella e giusta

 

 

Comprensibile ma imperdonabile è l’uomo 

che disconosce gli eterni Invisibili 

(paradigmi entro cui si snoda l’esistenza umana). 

E l’uomo Anchise, incolpevolmente errante,

 paga, 

incolpevolmente colpevole di aver guardato 

la dea della bellezza Afrodite nudata,

e per aver inficiato l’Amore, il Silenzio, la Fiducia. 

Ha reso vacillante il legame comunitario 

che stabilizza ogni società. 

 

 

 

“Ti chiedo perdono…”, e il respiro piagato di lui conferma.

“Quale esecrabile peccato? Nel mio libro leggo altro. Comprendere, al di là del bene e del male. Comprendere che l’errore è dell’uomo.” 

Tali pensieri rincorrono lei, che ha subìto l’ennesimo torto.

La lettura di lei, umana troppo umana, non esamina la regola, quella che trascende l’umano: il consenso alla dea dell’amore.

Totalmente umana è la celestiale saggezza, la comprensione di lei.

 

Lei, umana, freme. Di dolore. Di rabbia. Disistima di sé.

…ecco, le corde vibrano, destano il pensiero ed esso bussa, s’intrufola là ove casse serbano blocchi di niente e di tutto, custodi dell’immateria, così pregnante da valere per sempre.

E già scivola, lenta ma nitida, l’immagine….

…è più bella che mai, ancora più radiosa, l’amica dell’oro, Afrodite, e si dirige alla grotta. Una forza (è il potere di Zeus che opera la solita vendetta) la spinge da lui. Una dea e un uomo. Connubio imperfetto. 

“Afrodite macchiata…eviterà di vantarsi.” Così Zeus.

Sul monte Ida. Lì pascola il gregge, bello come un dio, un pecoraio, Anchise. E, mentre il gregge riposa, stanco e solo, pizzica la cetra e vola.

Fato, necessità? Un ragno tesse la tela e Anchise sconosce tale ordito. Oserà, lui innocente, un rapporto singolare e pagherà il fio.

A Pafo, Afrodite, l’amica del riso, si sofferma. Le Grazie la lavano, la lucidano, la imbellettano e si dirige, non deflorata, nella grotta, in alto, sul monte Ida, e lì lupi, leoni, orsi, ammaliati dal suo cinto d’oro, scodinzolando freneticamente, giacciono con le damme. 

Tutto si empie dell’odore di lei. L’amica dell’oro appare ad Anchise. Sbigottito di tanto fascino. Ammira l’aspetto, la statura, le vesti. 

“Anche se me lo dicesse Ares in persona, io non ti lascerei andare…” così mormora a Lei, già totalmente ammaliato. Dopo avere assimilato però l’inganno, la bugia, chiave d’ingresso. 

“Sono una vergine, – graziosamente dice la dea della bellezza – della terra di Frigia. Giunse il messaggero degli dei, io danzavo fra il coro di Artemide e mi impose uno sposo troiano, m’impose le nozze con te, Anchise. Conoscere tua madre desidero, tuo padre e recare notizia ai miei, che invieranno dote e doni per le nozze…” . Solamente per ritardare l’approccio e infuocare i sensi di lui.

 Eh…sì….l’effetto è immediato. 

Un desiderio acre stuzzica il capraio, lo punge sì da non potere attendere oltre e la adagia sul letto, la libera dalle collane, spille, le scioglie la chioma e, come la Sorte ha già sentenziato, giace con lei, si nutre di lei.

Quando l’Aurora dalle rosee guance invoglia i montanari a condurre al pascolo il gregge, la Fulgida appare, divina, ad Anchise.

Terrore coniugato a brivido s’impossessano di lui.

Sa che non è dato ad un mortale ammirare la nudità di una dea e ancor meno giacere con lei. Pena la vita. E implora pietà. 

E Afrodite? Lesta a confortarlo, calmarlo. La salvezza di lui solamente se tacerà. La Bellezza non consente al fedifrago.

Ma il silenzio, il Silenzio alberga nel cuore degli uomini? 

Esageratamente debole l’uomo. Sopraffatto e inevitabilmente annientato. 

Da chi? Un dio opera, ma i connotati strani, diresti negativi, se la scala è quella di norma.

Quel demone opera su Anchise, latente, malvagio e Anchise tradisce la luce, ottenebra la bellezza. 

Intacca il sacro. La bellezza della fedeltà. La luce dell’amore.

 Un giorno, Krono lento si muove e malinconico e lascia scivolare i granelli che segnano il ritmo, un amico osa “La figlia di tal dei tali è più bella di Afrodite in persona…”. 

Anchise non gli permette il confronto. Ammette di averle conosciute entrambe. La più bella è senza ombra di dubbio la Divina.

E decreta la sua fine. Schiantato dal potere, da Zeus che non ammette deroga. Zeus non permette. L’amore è sacro. Il giuramento è sacro. E acceca Anchise. D’ora innanzi il capraio vedrà meglio. La visione sarà più nitida perché interiore, fonda. 

 

Un attimo e ripone le immagini. Ben conservate entro il cassetto e torna. Torna al suo tempo. Alle circostanze insidiose, all’inevitabile dis-velo delle forze che s’intrufolano dentro e rammemora… 

…la sua mano scivolava sulla sua guancia. Morbida, un po’ timida per non sciupare, non deturpare e intanto gli occhi immaginavano e la bocca dava fiato a quel desiderio nascosto.

“Sei bellissima…”, il lui e null’altro.

Però…cosa s’annida dentro fuori a destra a manca? Cos’è ciò che depista, pur nolenti noi, pur pregni d’una gioia intima? 

Sì, s’annida la forza oscura, contraria e quel buio inevitabilmente si fa strada e esplode. Deve. Spinto da chi? Demone insidioso! Quanta irruenza!  Sempre pronto. Presente anche non invocato. Il solo che mai richiesto e disponibile a darsi e trionfa e distrugge.

Si avvicina l’altra e con quell’ansia che significa il tormento per ciò che non ha e vorrebbe, lo circuisce e lui s’abbandona. Lui anzi pretende. A lui spetta tutto. Quella è “cosa” e di lei si sente il padrone. Il potere sugli altri. Quel potere decreta la sua fine. Deturpa la bellezza di un incontro con l’Amore, con la bellezza.  

Zeus acceca Anchise, il Potere priva il lui della felicità.

 

I piedi toccano terra. E lei continua a non rispondere. 

Non può rispondere “Sì, ti perdono.” 

Può soffrire solamente. Sentire la debolezza dell’esserci, e qui, nel borgo assolato, avvertire, toccare la precaria ambivalenza dei corpi animati. Umani, troppo umani. 

Viluppata dall’umano, Ella avverte l’eterno umano errore, segno dello spirito di ogni Tempo e noi tutti figli della colpa, figli incolpevoli.


Medea

 

 

  • Mito

 

 

Medea, figlia del re della Colchide Eeta e nipote di Helios, s’innamora dello straniero Giasone, giunto insieme agli Argonauti per riprendersi il vello d’oro. Lo avrà però se supererà alcune prove di forza, sostiene Eeta. E Medea, sapiente nelle arti magiche, aiuta l’uomo a superare le difficili prove. La fanciulla non può rimanere in patria e fugge con lui, e uccide il fratello Absirto durante l’inseguimento. A Corinto però la scena muta. Il greco, razionale e tornacontista, intende sposare la figlia del re Creonte, abbandonando Medea nella cupa disperazione. Medea, esule, sola e abbandonata non sopporta l’offesa e medita la vendetta. Ottiene dal re Creonte, che intende esiliarla, un lasso di tempo esiguo ma sufficiente per ordire e compiere il misfatto: uccidere la sposa e il padre della sposa. Realizza il suo piano. Poi uccide anche i figli perché non cadano nelle mani dei nemici; in verità per punire nel modo più atroce un uomo amechanos e un marito irrispettoso della fedeltà in amore.

 

 

  • Racconto

 

 

“Ti distruggo…”

E lui di rimando, il tono fondo, “Perché?”

Nessuna risposta.

Quali le sillabe! Quali suoni a denunciare!…

…immagina…occhi sgranati, mani tese e, se alle spalle briganti ti inseguono per il borsello o la vita (il dubbio, quello è il vero tarlo), le pupille guazzano su onde scatenate. 

Oh! E se si riuscisse ad impastare e rendere codificabili i fremiti storpi? E chi? La donna. La donna sa e sapientemente avverte. La donna è una figura. Inevitabilmente solare. Inevitabilmente al limite, là, dove il sole scompare ad occhio umano (sì, inevitabilmente nell’umano tutto questo accade), al limite, ove l’ombra s’insinua e agguanta. Figura speculare. Su di lei si proietta. Cosa? No, non è possibile coniugare i fremiti, ora smembrarli. E’ concesso solamente appropriarsi e delineare figure, mitiche figure che altri hanno datato e nominato. E torna la figura di lei, della donna, della vendicatrice, della primigenia, la madre delle madri. La Potnia insegna alle donne a castrare l’uomo, se agita la sua innata violenza.

I sospiri di entrambi, al telefono, un sabato di un settembre anonimo, pregno di lacrime umane, saporano di diverso. 

La paura di lui, la perfidia di lei. All’erta i sensi di entrambi. La necessità di un approccio. La stanchezza di una snervante attesa. Il compimento. A seguito di una serrata consapevolezza: il non-essere-distanti.

Un attimo di profonda complicità, uno scorrere di guance, sfregate e un legame indissolubile. Una rete tessuta di odori, di battiti, di intrecci, di energia, su cui s’insinuano serpi, aquile, formiche, si aprono nodi e si ricuciono strappi, per incanto, forse per necessità. 

Di fatto si apre un mondo, in cui il pensiero è accessorio e il respiro attinge lena, consapevole di sé.

E’ in interiori homine, nel fondo del nostro essere carnali che vivono gli immortali. Mai fuori di noi. 

E il demone del male, l’immortale mortale, a gambe divaricate, sentenzia: Ti distruggo…se mi fai del male. E lo fa per bocca di lei, quel fatidico giorno, quando il “lui” non osa, forse non sa, forse non può, impegnare se stesso. Difesa banale, se banale è il gioco e le corde non vibrano. 

Eh sì…la donna e la sua perfidia, tanta quanta la sua debolezza nel concedere tutta se stessa.

Quale dea si agita dentro, quale forza spinge una donna a porsi al di sopra dell’energico maschio?

Un attimo…e la figura di Medea si pianta.

“Sono lei, ogni donna fra di sé.

  No, a lei simile. Tutte le donne simili alla figura primigenia, perché primigenie le forze, allorché gli accadimenti similmente tornano.

Che maschio insensato, quel Giasone! Eroe, buon compagno di viaggio, amico fedele. E l’amore? 

Solamente un mezzo lei, Medea, giovane e spontanea fanciulla, che, con la sua maliarda energia, gli concede gloria e vigore giovanile, lo sazia di vita, lo salva e lui continua a non comprendere. 

Eroe di una stagione, mai uomo per sempre. Ingordo di potere. 

L’amore…un numero esiguo di uomini, i graziati, affinati i sensi e vibranti, si abbandonano alle sferzate.

I più girono attorno e cercano cercano un ammiccamento, uno stratagemma e cercano fuori, paventando di sentirlo dentro. Pavidi, inetti, deboli. Temono il dolore e allontanano Cupido.

“Convolo a nozze con la figlia del re…tutti tranquilli, bene accasati… e per te prestigio, ricchezza e figli in comune.”

E’ la proposta di lui.

  E Medea di rimando “…ed anche il letto…”, intanto prega, grida, piange.

Troppo poco se misurato con l’intensità delle forze che si colorano dentro di uno smalto non più lucente, quello che una volta la indusse ad abbandonare il padre a ad uccidere il fratello e solo per l’intensità d’una forza che ordinava di serrarsi, con legame indissolubile, all’altra sua metà.

In gioco la sua esistenza.

Che forza, veramente virile quella di Hera!

In un passo omerico leggiamo di Zeus “Lo sposo della Regina…” 

“Senza di lei?, è giusto chiedersi. Senza la “Donna” solamente svolazzanti avventure.  Mai la pienezza.

Ora deserto nell’animo di Medea, ove erbe s’afflosciano e grigie foschie e malinconici soffi frusciano e ledono.

Assassina, lei oramai Male, matricida e potrebbe essere ogni nefasto demone; sì, donna fino in fondo, per istinto, innato marchio che il dio Kronos ha regalato, dio smembrante e divoratore, lui il per sempre, il ritenuto saggio. E lei Medea, non può cedere al sopruso di lui e si ribella, anche lei kronide smembrante, divoratrice, ribelle. 

Il tragico in assoluto. Male dal solido rizoma. Necessità esistenziale.

Mai trascurare le dee, pronte ad annientarci. Mai disconoscere il valore eterno dei travagli, che si datano con la specie umana.

 

Le ore, i giorni, i mesi insistono sugli uomini che tendono a gozzovigliare. E lo fanno con superflua ovvietà.

Capita a tutti, capita al “lui”.

Un gioco. Una telefonata e l’altra è lì, disponibile, come lo è stata sempre, ad ogni richiamo.

Una mano sconfina sui fianchi d’un corpo che dà e nulla riceve, l’altra mano di lui afferra le dita, le induce là, sul suo senso, per sondare…l’intensità…ma quale intensità se la mente è altrove, a pezzi scorre su arroventati carboni che già urlano violenza e tanta paura?

Un sensuale richiamo alla sfrenata sessualità e…ha già decretato la sua fine.

E lei? La Donna, impietrita al cospetto di tanta vacua crudeltà?

Lei, con estrema lentezza, sbuffa una catena di inesistenti composti, di sillabe ovviamente.

Lei, fa scivolare il nero mantello, in segno di lutto, di fine.

Lei, spolvera con la mano l’aria inquinata e va.

E lui? 

Cumuli di attimi. Pesanti come fascine che rompono i dorsi, se la mala sorte regala miseria, in una casa dove bocche infantili reclamano cibo.

Cumuli di ininterrotta mancanza di…sospensione verso…pesantezza per…

…e il “lui” non userà mai più quell’organo che sa penetrare, solamente se l’altra parte di sé é d’accordo.


 

Aretusa

 

  1. Mito

 

Stanca tornava nel bosco Stinfalio la ninfa Aretusa. Un giorno assolato. Giunta presso un corso d’acqua, placido e silenzioso e trasparente sì da potersi contare i ciottoli in fondo, si sveste e vi s’immerge, guizzando e allungando le braccia per far sprizzare tutt’intorno le gocce azzurre. Ecco… un mormorìo la turba e corre verso l’orlo della fonte. “Dove corri, Aretusa?, mormora dai suoi flutti l’Alfeo. Aretusa, atterrita, inizia la lunga corsa, e Alfeo la insegue, avvezzo a correre, conoscitore di quei luoghi. E quando Aretusa s’avvede che un’ombra lunga la precede e ode un suono di passi e sente l’anelito della bocca che soffia sulle bende che avvolgono la  chioma, implora la dea Artemide, e urla perché venga in suo aiuto. E la dea consente e fa cadere sulla ninfa una densa nube. Intanto il fiume Alfeo, ignaro di dove la ninfa si trovi, va gironzolando. Si blocca, osserva la nube, si posa a far di guardia. Intanto Aretusa, come imprigionata, non osa muoversi, teme di essere scoperta e trema di paura al punto che tutto il suo corpo si trasforma in piccole gocce. Ecco…ora Aretusa è acqua. Ma chi non riconosce l’oggetto del proprio amore? E Alfeo sente che quelle sono le acque amate e, deposto l’aspetto umano, si trasmuta nelle sue acque. Aretusa è sconvolta e prega prega. La dea Artemide ode, ha compassione della sua ninfa, apre il terreno e lascia che Aretusa sprofondi sotto terra per riemergere in Ortigia. Ed è fonte, la fonte Aretusa, in Ortigia. 

E’ il racconto di Ovidio.

 

  1. 2. Racconto

 

Nell’Uni-verso, dai più contestato perché pensato tale, il di-verso funziona da attributo o da condicio sine qua non? 

Vitale la riflessione, per scansare il pantano socio-politico, morale, intimo. Vitale in-verare la cultura. Privi di contenitori, viviamo (è solo un dire…) paralizzati. 

Indico la via: ritorno alle Radici. Nel tentativo di ri-animarmi, rivisito il mito, che svela i molteplici itinerari del mondo psichico. La geografia dell’inconscio si situa nella Grecia mitica, politeistica, chiaramente trans-territoriale, per il fatto che i mitologemi rivelano pulsioni e complessi connaturati e trans-generazionali. 

Armata di una forza, che è consapevolezza di stare con le punte su una vetta, sballottata da Eolo e carezzata da Zefiro, preda di una voragine che annienta, solo che le corde si allentino e la Mente non intenda allearsi con l’Anima, sciolta, scompagnata, re-inizio il cammino.

Re-inizio allo stesso modo dell’Aurora. Il suo tornare continuamente è un monito, una puntura vitaminica. Sorvola, ancora assonnata, spandendo il rosso stemprato. I più non s’avvedono. Quella immane deità sbircia la maldestra mano dell’uomo che, quando cala senza stupore, tende all’Utile, interrompendo l’intesa colla Natura. 

Io la miro. Sto coi gomiti premuti sull’inferriata. Le spalle ricurve a stento sorreggono il capo. La visione è mirabile: Aretusa e Ionio, con la fantasia Alfeo. Mi sforzo. Inutilmente. Non affiora la mia immagine.

L’acqua è torbida e non perchè contaminata dal sangue delle vittime delle gare olimpiche (così Ibico), ma dall’egoica pulsione di autodistruzione, che la Comodità ha sancito. 

“Aretusa è bella e le sue acque spiccano sulle pietruzze…e sono d’argento…”. Così Luciano di Samosata. 

E su quelle originarie acque proietto la mia figura e tento di vedere…

Aretusa, l’essere in germoglio, nuvola bianca, i capelli annodati da delfini, che dicono di spazi oceanici, soffia alla mia mente “il nocciolo” da cui si snoda la plurivalente complessità del Reale. Sposto lo sguardo e osservo la mia Fonte. Voglio scoprire perchè l’acqua fluisce stentatamente e talvolta sa di rancido. Torno all’indi mi nega la luce. Un brivido storce le membra. Ho paura…degli animali…dell’uomo…Strano!!…Io, agli occhi di chi mi guarda, appaio macigno forte, irremovibile. 

Affiora un’immagine. Vedo la coppia Aretusa e Pan. Il caprone peloso e fremente (così Platone nel Cratilo) si mostra completo nel suo essere. Rozzo, sporco, turgidamente eretto nelle parti inferiori, fondamentalmente istintuale, rivela, nello sguardo intenso e ambiguo, la profondità dell’elevazione spirituale. Pan e Aretusa: l’istinto ridimensionato dalla vergogna. Istinto e vergogna componenti archetipi. La coppia archetipica mi ha immaginato. La Naiade e Pan si inabissano nei fondi meati, dirigono l’acqua nei solchi impermeabili, la colgono quando Urano la cede alla Grande Madre. Lo scroscio dell’acqua accompagna il fragore del tuono e lo scintillio del fulmine. 

E ho paura. L’altro può farmi del male e sono indifesa. Eppure al passaggio di Pan le belve si ammansiscono. Da buon pastore dirige il pascolo, i docili animaletti s’imbucano, gli arbusti tenaci sfidano i soffi. Accanto a Pan vedo Selene. Lo sovrasta colla sua luce ambigua e avvolgente. A chi la ammira offre l’umida rugiada, regola il flusso, illumina le caverne fonde colla sua torcia. Enigmatica Selene, naturale complice dell’innamorato tormentato dal dubbio. 

C’è Eufeme. E’ lei che fa vibrare le sillabe, prima tartagliate. 

E Siringa, la ninfa prediletta, offre la canna. I rumori si mutano in canti e Pan danza e canta al ritmo di note malinconiche. 

E’ un prodigio. La Natura, imperfetta, sgrammaticata, informe, si anima, si muove seguendo il ritmo del suo respiro. 

Chi può cogliere i battiti del pensiero fremente? Sicuramente chi sente le di-verse fratture. Solo poi l’armonia. 

E non voglio che Pan, dentro e fuori di me, muoia. E’ indispensabile. Vibro quando la paura mi attanaglia, e, in cospetto del numinoso, rinasco più intensamente. E seppellisco il prima che è meno al confronto del poi. Accettando Pan, accetto il “pavor”. 

Pan e le ninfe: un di-verso che mi rimanda al Volto del Dio, da me tanto cercato.

“Erotikòn tò pràgma estì…è una faccenda d’amore…”. Nel dialogo greco di Luciano, Alfeo appare innamorato pazzo, follemente desideroso di raggiungere l’amata. 

Storici e poeti greci e latini hanno molto fantasticato, variando qualche ingrediente. Non ultimo Shelley, che così si esprime:

“Aretusa balzò / dal suo giaciglio di neve / …allora l’audace Alfeo / dal suo freddo ghiacciaio / le montagne colpì col suo tridente / …oh!…salvami!…guidami…/ e ordina agli abissi di nascondermi / poich’egli, omai, mi afferra pei capelli!”. 

Aretusa fugge, Alfeo rincorre…

Io lo vedo così…

Potente nelle facoltà razionali, ostinato e duttile, anima completa del virile e del femminile tanto quanto basti a smussare spigoli e fornirlo di ali, Alfeo è rotto dentro. Da sempre ha lottato contro le forze della Natura, quella parte della Natura malefica, che insidia e toglie.

Rare volte scivola tranquillamente, lui tranquillo, nel suo alveo ben disposto. Fondamentalmente integro, nonostante il sudiciume, Alfeo scava nel profondo, salta gli argini e riaffiora, lambendo terre obliate. E’ stanco. E per di più le frecce di Cupido hanno lacerato l’anima. E la mente, una volta certa del dove e del quantum, sessualizzata dal fuoco intimo, attanagliata dai “se” e dai “ma”, torna indietro. E’ lotta. Psiche e Amore: la coppia archetipica: morte e rinascita. Se Amore è assente, la mente rimane vergine. Senza Amore, all’uomo nessuna possibilità di copularsi col divino, la possibilità invero della tragica linearità. E’ necessario che Alfeo porti ordine. E scende nel mondo ctonio. Lì la risposta. Deve seppellire il prima, per ri-animarsi. Deve scendere in profondità, perché l’anima diventi coscienza della vita, del destino, della morte. Nella profondità non verticale, affidato a Proserpina, in una scatoletta, il tesoro della verità. Così Apuleio. 

Anche Enea visita il mondo degli inferi. L’impero romano ha radici salde e profonde. L’aquila romana guarda il reale e il latente. 

E Alfeo supera l’ennesima e ultima prova. Non raggiungerà mai Aretusa. 

Ella gli ha dato tanto, senza concedergli nulla. Gli ha profilato l’enigmaticità del vivere, la latenza del conoscere, la necessaria centroversione per la vitale estroversione, la certezza del dubbio, il preambolo dell’amore, la magnifica speranza. Non importa raggiungere l’unicum, importa avere coscienza del suo esistere, dato che le di-verse tappe confermano. Aretusa (l’amore per intenderci) si rivela pura salvezza. Dall’etereo connubio, nasce il “piacere”: la Voluptas della conoscenza. 

I fotogrammi si interrompono. 

Nel recinto “sacro” dell’amore, c’è speranza di salvezza.   



Er, il destino

 

 

  1. Mito

 

Il soldato panfilio Er, morto in battaglia, nel momento in cui sta per essere posto sulla pira, torna in vita e racconta ciò che  ha visto nel mondo di là: le anime, dopo la morte, arrivano in un luogo mirabile, in cui due voragini contigue immettono sotto terra e due di rimpetto al cielo. Al centro i giudici che inviano i giusti a destra in alto e gli ingiusti a sinistra in basso, in un viaggio di mille anni, carico di pene o di delizie. Scontata la pena, le anime si dirigono nel luogo ove si trovano le Moire. Un araldo prende dalle ginocchia di Lachesi  sorti e modelli di vite e le scaglia, invitando le anime a scegliere. Scelte le vite, le anime si recano da Lachesi che affida un daimon, come custode della vita e responsabile della sorte prescelta. Questi conduce l’anima da Cloto per la conferma del destino e poi da Atropo che rende irreversibile il destino filato. Senza voltarsi le anime passano sotto il trono di Ananke e si recano nella pianura di Lete. Già sera si attendano presso il fiume Amelete e bevono l’acqua che farà loro dimenticare tutto. Messi a dormire e fatta mezzanotte, scoppia un tuono e un terremoto e tutti sono trascinati alla nascita.

E’il racconto di Platone.

 

 

2.Racconto

 

E’ un pomeriggio aggredito dai raggi. Il calore soffoca. Oltre la norma. Oltre la norma ed è errore, inevitabilmente. E nell’errore la spinta. Dove?…una casetta, minuscola e linda. Un novantenne, lì. Accanto una giovane figlia. Le braccia di lei contengono il corpo del padre, oramai insecchito. Diresti un ramo consunto dal mal secco. Un ramo…un tempo…foglie nutrite da linfa, ora verdi poi… senti il tonfo della caduta e nuovamente ri-tornano e la zagara bianca come una palla di neve e poi…schiantato dal Tempo impietoso, frustato dalla mancanza, privo degli umori della terra, quel ramo sradicato. 

Ella accoglie sul petto il capo del vecchio, un tempo tondeggiante e birbante. Ora palpebre socchiuse, occhi vaganti e spenti al senso del qui. Le labbra tumefatte dai batteri e che importa?…non servono a lui, assente al richiamo del cibo, della voce. Non intende. Ha rotto con il senno. Nullo il gesto che segnala il volere. Il cuore pulsa, tremano le labbra e il delirio prima fioco “…un odore…sento un odore…antico…strano…bello…”. Lo sproloquio diventa ardito “…sento… l’odore di lei…  della mamma…tu sei la mamma…”.

Il fiato condensa il suo profondo sentire. Cacciata  via la ragione, quella che disgiunge. Il vecchio interamente abitato dalle percezioni primarie, mai tradite, mai abbandonate. Seppellite in anfratti mentali che solo l’olfatto di un bimbo riesce a disseppellire. E si riappropria dell’odore della sua mamma, che non vede da ottantatre anni. Ora la voce del padre morente diventa querula. “Corri…corri…presto…- un tale urla e gesticola e mi indirizza lungo la battigia – …vai…corri…é sulla riva”. L’ uomo-puer – rosse le guance per l’emozione del rivissuto – prosegue. “Io corro…sai…veloce…sono lesto e lei, la mia mamma  là…stesa sul bagnasciuga…c’é un lenzuolo bianco sul corpo e…mi avvicino e lei non mi parla ..non mi guarda…non mi risponde…non può…è rigida…assente…”. Serra le labbra e si rannicchia sul petto della figlia e su quella morbidezza, carezzato dalla tenerezza, ammaliato dalla sicurezza, il vecchio –bimbo riposa. 

La figlia è la mamma. In quell’attimo il tempo aionico. E quando accade, assapori attimi di eternità, di memoria del sangue, del perduto che sa ritornare, del mare che ha tolto e ridona, della voluttà che è piacere non mirato. Quando accade, sei nella grazia di Dio, perché partecipi del mistero che sei e non sei. Sei nella totalità e non hai coscienza. Quando c’è l’eternità non ci sei tu, e quando ci sei non c’è l’eternità.

Questo respiro eterno, che ha avuto la meglio sull’egocentrismo, svolazza e potresti ri-conoscerlo nel viso tumefatto del vecchio. Respiro che è il sigillo della vita di ognuno, e tale sigillo chiamiamo Anima. 

 

L’anima?…lasciamo ad Er, il soldato panfilio, il difficile compito di riferire le cose di lì, dire dell’anima…

“ Trascorso il tempo stabilito, le anime giungono dall’alto, dal basso e si incontrano e riferiscono e gioiscono e fremono. Scontato il fio, é tempo di tornare sulla terra. Ecco…un araldo getta tanti “kléroi”. L’anima  sceglie il kleros ( destino, pezzo di terra, immagine della vita?) e si avvia da Lachesi, una parte del destino, che le affida il daimon (angelo custode ), compagno utile a rammemorare. Poi Cloto fila gli eventi e Atropo li rende irreversibili. Passa infine, senza voltarsi, sotto Ananghe, che le imprime la forza della Necessità…”.

Le Moire hanno filato il destino, dall’anima liberamente scelto.

E noi? Noi liberi e necessitati. Strozzati da una forza più forte della nostra volontà. Eppure forza che nasce con noi, si alimenta dentro di noi e ci spiace di averla nutrita, quando rivela l’efferatezza. Ospite gradita, quando ci accompagna nel bosco umbratile e lascia intravedere la luce. 

 

La figlia continua ad accarezzare il viso consunto del vecchio, un attimo prima sorriso di bimbo che tocca l’Eterno coniugato con il Tempo. E sulle sue rotaie corre la memoria e sosta ove le luci delle stazioni abbagliano maggiormente. 

Incidono gli eventi, quelli strani, paradossali…. 

…scende dal treno una ragazza. Tredici anni. Studentessa accorta. Compagni fedeli i libri, in un ambiente in cui la carta stampata non è di norma.

“Figlia mia, è destino… accade perché voluto dal destino…La poggiatura della voce strana. Gli occhi fissi. Non è la mamma che prepara il budino quando la bimba a letto per la temperatura elevata e il latte e il cacao e l’amido e i biscotti e la bimba risorge. Quando la mamma chiosa il discorrere quotidiano con quella lapidaria sentenza, ella si rivela altra. In lei la Parola lapidaria.  Il destino aleggia in casa come un estraneo. Si piazza e impone il diktat. E sempre tutti bloccati dall’imponderabile, dall’inconoscibile. Non ci si ribella. E lei, la mamma orfana, nutrita di preghiere a stomaco vuoto, alza la testa, spalanca gli occhioni speciali e canta e il tema rimane lo stesso “E’ destino… 

 

Un giorno triste… torna la scolara tredicenne, torna a casa. La camera da letto invasa dall’enorme telaio. Al centro, su una seggiola dalla spalliera emergente e filigranata, la sorella, parecchia la differenza d’età. Il pollice e l’indice sinistro a strofinarsi su un ago minuscolo. Il medio incappucciato da un ditale argenteo. Il filo, luccicante e sottile, lì. E sui braccioli della poltroncina, un panno lindo. Le mani della ricamatrice eternamente umide di sudore. Il ricamo floreale sulla balza del lenzuolo di lino sancisce l’entità della dote. E il rito di preparazione si svolge senza tregua. 

Quel giorno…gli occhi neri non si sollevano dal telaio. Pungono con forza il lino d’accordo con l’ago e attendono…ecco…la voce della mamma, rivolta all’allora tredicenne.“ I tuoi libri…in una cassa…a mare…non li vedrai più…così ha deciso tuo padre…”, e la voce è carica di lacrime.

Il misfatto? …una passeggiata con un giovane…non si poteva…non si doveva…

Quale il senso?  C’è senso nel distruggere i libri? Manca il senso. Rimane l’errore. Necessario per imprimere forza agli eventi. 

“ Senza divorare le parole entro i libri stampate? E la gara di storia? E i compagni a chiedermi lumi? E come soffocare la curiosità galoppante?, quegli interrogativi sferzano la mente e provocano un dolore lancinante; intanto l’angoscia agguanta perché s’affioca la luce che accompagna giorni algidi ad altri calorosi. 

Avverte, la tredicenne, la mancanza. Anzi sente un richiamo. Forte la  chiamata. Affina l’udito…quei libri le mancano e i giorni diventano inutili. 

 

I giorni a venire non la salutano. Forse è lei che si nega. Non importa. Ha bloccato le imposte e se ne sta accovacciata sul lettuccio e le mani graffiano la parete, che perde lo smalto. Il viaggio, anzi la danza nel labirinto delle immagini, è movimento di salvataggio, per non finire del tutto. Le ombre sono dolenti e insecchite. Sono pesanti e claudicanti. Così le cose e le persone che le stanno attorno. E sono più buie di una notte d’inverno.

Poi…inevitabilmente il nostos, il viaggio di ritorno alla vita, in virtù della perdita; il risveglio dopo la notte profonda. 

Si può non rispondere alla chiamata? A quella forza che pesa quintali e ti obbliga a fare a dire al di là delle normali possibilità? Da dove viene? Quale dio ha sancito il predominio su di te?.

L’angelo bussa forte e non puoi non comprendere le emozioni dell’anima e non rispondi responsabilmente ai dettami di fuori e ubbidisci al tuo profondo sentire.

 

Quella tredicenne oggi è un’accorta quarantenne. 

Quanta tenerezza visita la figlia! E lei accoglie fra le braccia il corpo esanime del vecchio padre! 

La diresti un mantello imbottito delle piume di Fiducia e Pietà e Amore verso il padre, ora tornato all’origine e per sempre…; potresti toccarla, imbottita di Gratitudine verso il suo mentore, indefesso custode del gomitolo di vita, della vita della figlia. Il gesto del padre, quei libri distrutti, avevano un senso: rammenta il tuo destino, riappropriati della immagine che ti accompagnerà nel corso della vita, una vita dedita alla riflessione, attraverso il rapporto con la parola scritta.

Quel pomeriggio, martoriato dal calore di un Sole che ama nascondersi e si rivela necessariamente ambiguo e promettente, vede due contendenti e un febbrile ping pong fra ragione e sentire.  Più forte è la parola del cuore: “ L’anima?, il destino?, un estraneo sceglie e la vita di ognuno sarà solamente riflesso del già stabilito?…”.

No…no…e cosa fare, dire? 

… schiudere le imposte e accogliere gli dei… la loro visita…e concederci . 

Loro sono le Essenze. Forze della Natura e campeggiano sulla terra. Condite da noi. Nani dotati e datati, viaggiano e nell’etere si confondono, s’incontrano, si amalgamano. E ora più acri ora più dolci ora soavi. In rapporto al luogo, alle persone, al tempo. Le essenze ci scelgono, si svelano al modo di appartenenze ereditarie. 

…accade… il fuoco… brucia…non sai da che parte…le narici si affilano…distingui…confronti…pesi l’entità del disastro…vuoi salvare?… cosa?… non ciò che è utile…soddisfare lo stomaco è necessario ma a discrezione d’ognuno…custodire… quella… quella….non so…so che gli occhi brillano senza avere nulla mangiato o bevuto…s’irradiano d’una luce sì intensa e il suo opposto è il buio di una notte di dicembre, quando assenti le stelle e la volta priva dell’ambigua deità…e ancora salvare…custodire…difficile perché non si chiude  nel pugno, non si pone ora qui ora lì…lottare per… è tuo e lo senti nel grigiore delle ore, infinite perché non conti i tuoi battiti, e non puoi… manca la testa, alleata perenne, e loro, le energumene forze, oramai affilate lame di bisturi, armi che tagliano in modo diverso le diverse parti del corpo, spadroneggiano e ti spingono, con forza, loro trascurano ogni quadrato perfetto e intensificano la luce e quando manca – solo luce trasmettono, sfavillante scarica elettrica – il fiato si strozza e le orbite simile ad un campo spoglio, e la testa non c’è e piangi, al modo d’un bimbo che non si chiede il prezzo del giocattolo né avverte che mancano i soldi, quelle lacrime dicono di strappo, di mancanza del proprio oggetto, quello che gli procura gioia infinita, pienezza e ora basta coi preamboli, con le contorte misure, dosate solamente ad ovest, là ove il Pensiero si cruccia del limite, impotente a squarciare il suo interno. Basta con l’angoscia che sfibra ogni fibra. Perché quando la materia si sfalda, le forze volano via. E custodiscono il codice di ogni individuo e affidano, anzi regalano alle torbide nuvole tutto ciò che è manifesto.


                                                                                

   Piramo e Tisbe/Giulietta e Romeo

 

  1. Mito

Piramo e Tisbe: tragedia degli “errori”, tragedia di un amore infelice, di un amore fomentato dal tertium, da un vitium, che è una crepa nel muro confinante attraverso cui i due innamorati lasciano transitare parole, sospiri, aliti. Quel difetto di costruzione, mai notato da alcuno, balza evidente agli occhi dei giovani (quid non sensit amor?). Impediti dalle famiglie che ostacolano l’unione, i giovani sostano davanti a quel “difetto” e si sussurrano parole d’amore, parole strazianti. E i baci? Decidono entrambi di vedersi, quella notte, presso i resti del monumento del re Nino. Tisbe arriva nel luogo dell’appuntamento per prima. Un leone, le cui fauci sono impregnate del sangue di una vittima da poco divorata, è lì e, alla vista di Tisbe, le strappa il velo. Tisbe fugge via. Giunge poco dopo Piramo. Vede il velo della sua amata macchiato di sangue, si colpevolizza per il ritardo, piange la morte dell’amata e si trafigge con il pugnale. E’ la volta di Tisbe. Tornata nel luogo dell’appuntamento e annichilita alla vista di Piramo morto, strappa dal petto il pugnale e compie il medesimo atto di morte. E il gelso bianco muta il colore in vermiglio.

Così Ovidio

 

2.Racconto

 

 

Non so. E perciò il mio dire è oscuro. Allusivo.

Al tramonto, gli spifferi ingravidano le pupille da tempo spalancate, sul punto di….decidi di no e poi…poi non importa se torni daccapo o non torni. Il computo è lungo. Infinito. Tu sei finita. Le labbra, le tue mani, le cosce sinuose, gli occhi che implorano. Il neo un po’ sopra, sull’arcata che suggella la polpa carnosa, a suggerire sventagliare dettagli d’un immenso finito. 

All’aurora ancor gravida del peso della notte, svesti le pupille, spulci i granelli che s’annidono tra i fili dorati, e vai.

Continuo a dondolare il capo. Sussurrarmi il dubbio oneroso.

So…so che mi è negato serrarmi a quel muro, muro allestito da ciclopiche braccia. 

A dirmi di no, chi? L’altro ostile?  No. L’altro sopporta. Partecipa. Com-patisce. 

Io…a non volere.

Oh se potessi – entro una insidiosa palude guazzare e lampeggiare vermi serpi e viscidi insetti e abbonirli e squamarli dei loro toni consunti e offrire intensi colori e carburante agli arti depressi – 

Oh se potessi – con le braccia bloccare onde funeste, che dai fondali s’arrampicano, toccano il cielo, e fendere marosi e la pelle perennemente levigata – 

Mi arrendo. Io…non giungo mai. 

So di non potere. So di non volere. 

Avanti a me non mura ossidate dall’implacabile materia.

Avanti a me nebbia e i miei singulti e la necessità di un nuovo edificio, ideato da me.

Allargo le braccia. Contenere te…sì…è possibile se determino l’ora, il giorno, solo se decido la foggia del vestito, appronto il trucco, collego il colore dei sandali col tono dei capelli e basta. 

Nel tempo, che la materia compatta determina, c’è un prima un poi, un istinto che volge verso o non, potresti discernere forme, variegate, in perenne movimento.

Quando…quando dirò dell’altro? Della eternità?

Non so. Crollato quel muro, non so se l’azzurro che fascia il mio seno sbiadisce e…quali i colori che sono oltre la materia e vi sono o tutto è allo stesso modo della visione dei cani?

Mi accosto. Timida, le ali non ancora tarpate, spicco il volo, osservo, mi confondo e torno e dico.

 

Due, anzi tre. Piramo Tisbe e una parete. Ispessita dal tempo ma forata in un punto e permette al respiro, anzi osa il respiro il suo viaggio. Solfeggia dall’una verso l’altro. Respiro illogico. Soffio scaldato da un illogico umano senso. E allora senso divino. 

Umana la voce che si connota e quella di lei “Amore mio prezioso… 

E’ un incanto. Il soffio mielato segna suoni, lancia molecole che dritte toccano centri vitali e lui oramai illanguidito risponde o non risponde, totalmente immerso nel suo languore. 

Ancora lei “Amore mio delizioso…

…e poi, poi nulla.

L’animo guizzante di gioia è una rarità. Corallo preziosissimo, perché raro, perché naturale. E non deve impegnarsi a costruire sillabe. Deve, quando un’oasi di pace fiorisce in un deserto abbandonato, lì immergersi e partecipare.

Accade in una terra esotica, civiltà primordiale, il luogo entro due fiumi.

Bellissimi entrambi. D’aspetto e di animo. 

Chi non s’irradia d’amore e per amore?

Ostili i genitori e di Piramo e di Tisbe. Tumulate le menti da quelle mura cementate dal tempo.

La fiamma brucia la carne. Ogni molecola disubbidisce all’ordine del capo. Gran scompiglio.  

           

La decisione sorge in entrambi.

Lei “Al calare delle tenebre sarò accanto al sepolcro del re. Ai piedi del gelso. Presso la sorgente. Toccare la tua carne, sentirmi terrena e …

Lui “Una sola carne….tornare al modo di sempre….con te sentire la pienezza, l’origine….

L’ultimo inchino e i reni della servetta disfatti e disfatta l’apparenza del giorno. L’apparenza che tutto sia contenuto nel giorno. Mentre la luna s’irradia e tutto riappare febbricitante verosimilmente incontrollabile e verosimilmente vero.

Tisbe giunge ed è la prima. Si accomoda ai piedi del gelso, già stralunata dal bacio d’una infìda luna, quella sera spicchio sottile sottile. Quella sera più che mai profetica.

Un ruggito e Tisbe agita le caviglie e slancia le gambe da gazzella, all’apparire d’una leonessa. Lascia cadere il velo, che un po’ prima celava i suoi tratti.

La belva s’abbevera alla sorgente, dopo un lauto pasto e del velo si serve e struscia  la bocca ancora insozzata di sangue d’una bestiola .Poi va.

Ecco…arriva lui…Piramo. Pesante, guardingo, agitato nell’animo. “Il velo di Tisbe? Lordo di sangue?, fra di sé. Non può accettare. Senza la grazia di lei? Non sentirà le stagioni. Senza le carezze di lei? Darà un addio al proprio corpo. E quell’animo ora triste ora radioso, che gli ha insegnato il sì e il no. E il tono minaccioso e la paura della solitudine e la comprensione verso il prossimo.

Sguaina la spada e s’infilza.

Folle il viaggio della vita e solo a metà, perfettamente inutile.

Poco dopo…passi lenti braccia distese occhi nuotanti… giunge Tisbe. Urge il richiamo. La mente impazzisce, accalorata dai sensi. Toccare, baciare, respirare colui che la rende viva, che le offre tutti i colori del mondo. E lo trova ansimante e in presenza di lei l’ultimo fiato.  

Non può. No. Tisbe non può sopravvivere senza luce. Una grande determinazione. Eccessiva consapevolezza. Un attimo e torve maschere la inseguono. Sarà così per sempre. Meglio fuggire all’inganno della mente. Fedifraga. Da sola non regge. Senza calore è un mostro esecrabile. La sua fine pensata e fortemente voluta. S’infilza. 

Il gelso si colorerà del fosco del loro sangue.

 

Tutto rispecchia la norma. Il racconto tocca le corde del cuore. Pietà. Dolore. Malinconia. Nostalgia. Tormento. Nel campo dell’umano. Nel campo del sempre e così. 

E se mi avvio nel campo dell’oltre uomo? 

In quella trazzera impervia dirigo il passo e, senza impennate, senza blasfemi, vedo…anzi non vedo la parete.

Lì nessuna parete. Quella che ha reso i due uguali, quella che contiene amore odio, che limita il basso e l’alto, il femminile e il virile, i due e il terzo, il dì e la notte. 

Lì il mondo beato.

Lì vedo essenze. Essenze più o meno luminose. Luce intensa tanto quanto l’energia che nel mondo di qui hanno espresso. 

Lì senza sesso, senza colori intensi.

E solamente chi si connota di più s’eleva nel punto più alto.

Quello è il solo perfetto.

Lì, in quel punto la totalità.  L’eternità.



IO

 

 

1.Mito

 

La vergine Io, di notevole bellezza, era sacerdotessa di Hera. Zeus era desideroso di possederla e lei consente all’amplesso divino. Poi paga le conseguenze. La moglie di Zeus la trasforma in mucca e l’affida ad Argo, il guardiano che vede tutto. Ermes lo uccide. Hera non demorde. E invia un tafano che la punge implacabilmente facendola correre per tutta la Grecia e poi per tutto il mondo. Io giunge in Egitto, ed Eschilo nelle Supplici…giunge nella terra sacra di Zeus, l’Egitto fecondo, il pascolo che le nevi alimentano, lo riscalda il soffio del tifone dal deserto e scorre l’acqua del Nilo. Intatta dal morbo lì Io ottiene la liberazione dei suoi mali. Il re pone fine alla persecuzione tanto immeritata e trova il coraggio di annullare la furia vendicativa della consorte. Si accosta alla donna-vacca e la guarisce. 

Al tocco del re scompaiono corna e pelame, torna la figura umana, la mente riacquista la ragione e anche il tafano, privato del proprio alimento, si dilegua.

Si affermava (Suidas Lexicographus) che Io fosse identica alla Iside degli Egiziani e che questa dea si fosse trasformata in una giovenca di tre colori, ora bianca, ora rossa, ora color della violetta (ion), parola che nella nostra lingua ha suono simile a Io.

 

  1. Racconto

 

 

 …Io…Io…..Io….io…io…io….

Tendo l’orecchio. Un suono palpitante, tremulo….

…ora tagliente. Fende l’aria ed eccola….

Di fronte a me. Ninfa emersa da fondali cristallini o scaturita da abissi, dai più mai esplorati?

C’è ed io la sento, la ascolto, moltiplicata da Eco.

 

           Torna da un incontro. Torna sfinita. Finalmente.

A termine un  piano, che da tempo la sua mente perversa elaborava.

Col re dei re. Quello che dirige, muove, perentoriamente urla il diktat, da alcuno mai insidiato.

E Io lo ha stremato.

 

           Piange Inaco. Il dio fluviale sta in un canto e non confonde le sue acque con i corsi che, insieme, coprono una valle e la rinfrescano col loro spruzzante gorgoglio. Se ne sta in un cantuccio. Lamenta la perdita della sua figlioletta.

“Chi l’ha portata via?, rimugina e non ha voglia di confondere le gocce, che al sole si donano e non intendono dirigersi nelle braccia del mare.

Quando si soffre la perdita, si desidera stare soli.

Consumarsi, diluirsi, sentire la fine.

Inaco non sa. Contro la figlia nessuna violenza. 

  E’ lei la superba. E’ lei, decisa e violenta. Lei ha voluto il connubio col re dei re. E non per fermarsi. Non ha totalmente consumato il suo piano. A contatto avvenuto riflette. Dall’optimum ha ricevuto meno degli altri.

Quei famosi, che la ninfa cantano, che lei hanno immortalato, piangono la poverina, stuprata da Zeus.

No…no…nessuna violenza da parte di…

….é lei l’ingrata, l’eterna insoddisfatta…..

 

           …Io…Io…io…io…

           …Io….Io……e, solamente accanto, l’altro.

Mai al posto di.

Mai confusa.

Mai sullo stesso piano di.

Sempre Io..Io,valido conforto per l’altro.

           …IO…IO…IO…dai mille volti. Diversa secondo il momento. Altra rispetto ad un attimo prima.

 

          “Hai visto la bella figlia di Inaco?, chiede Zeus ad Ermes.

Che dialogo affascinante!

           Zeus non riesce a scordare la bella fanciulla marina. Non può tergere dalla sua fronte quella espressione divina che ha una donna, quando possiede ogni sua facoltà, quando supera in destrezza il rigore, che si pretende essere del maschio.

Ma non è così. Il maschio, per difesa naturale, ha affinato i muscoli del suo cervello. E’ abituato a tale lavorio. Necessario. Penetrante. Marchingegno per la sopravvivenza. Nulla di più. Non per capacità. Non per superiorità. Solamente per necessità. Le belve lo avrebbero dilaniato. E quando ha assunto il potere, da esso è stato distrutto, per incapacità di sostenerlo. Per voglia di altro, di più e da esso disfatto. 

Quel famoso Penteo, decapitato dalla stessa madre. La natura, madre delle madri, si ribella. Ed è la fine.

E a Luciano, eclettico scrittore, vorrei suggerire, se potesse ascoltarmi, a distanza di milleottocento anni circa, di tornare a riflettere…ma…forse, nel tempo in cui scrisse, la donna era più fragile?

L’unica certezza è il dubbio.

Ancora il dialogo.

“Parli della giovenca?…- risponde Ermes-…è sotto la tutela del panopte Argo. Costantemente sorvegliata, perché non fugga”.

 

          Ecco….torna il mito. Torna al modo di sempre. Ad avvisarci. Agitarci. Proporci. Sarà il ciascuno a saturarlo. Leggervi quello che vuole, per sentirlo profondamente, e, in quello specchio, tornare a vedersi.

Qui la mente non trova posto. Il posto è ceduto ai sensi. Alla grande agitazione, che scompiglia il dentro, come uragano che strozza il fumo della notte e si precipita dentro ogni dimora e provoca paura, tremito, scompiglio. Se senti tali tremolii, è lui, l’uragano impietoso. Diversamente manca della sua precipua essenza.

 

           Io sorvegliata. E’ il racconto dello scrittore.

Io non può mai consentire alle catene. Io è stanca. Un attimo di posa. Per ricominciare. Un attimo di riflessione per tornare al suo viaggio, che iniziato, non avrà mai fine.

Sì, da quel delirante connubio, l’inizio di una non fine. L’inizio della consapevolezza che mai avverrà il completamento. La non sicurezza. La non concretezza. La non realtà, ma la possibile realtà del momento. Dato che ciò che si asserisce ora, è manchevole di fondamento un attimo dopo. E per attimo significhiamo il tempo di secoli. Se leggi fisiche consentono a rivelazioni specifiche, altre leggi, recondite, misteriose, si agitano e determinano il mutamento.

 

           E Io corre, giovenca inesausta, alla ricerca.

Non viaggiatrice. Cercatrice. Vagabonda. Un episodio. Un accidente e un demone, piano piano, s’è mosso. Un demone si è attivato. E l’ha condotta lontano. Lontano ove è difficile, per il comune mortale, addentrarsi. Cose divine. Fatti che toccano solo chi staziona oltre il muro di cinta. Chi ha scavalcato le erme. Chi ha osservato il ciglio di un burrone strategico.

Deve fare il salto? Deve affinare l’udito? Levigare l’olfatto?

Deve e tornare con qualcosa di più. Esperienza. Per avere salva la vita. 

Altri seguiranno il percorso. Un aiutarsi vicendevolmente.

Un tafano spinge Io. Mosca infetta. Nutrita in luoghi limacciosi, putridi e sovrasta la candida giovenca, la scuote, la spinge spinge spinge…….E Io sempre a correre.

 

           Mi tornano in mente le parole di Socrate.

Tenta, inutile tentativo, di persuadere i carnefici. Loro-sono giudici parziali? – esaltano la tranquillità. Stanno dalla parte della ragione?

Forse sì. Ma Socrate ribatte. Non è colpa sua, se ha impegnato la vita alla continua, perenne discussione. Se ha tormentato i giovani nella convinta speranza che il vero è dentro ciascuno.

E la colpa, la colpa di chi è?

E’ di un dio.

Non poteva, non se la sentiva di disubbidire. Un daimon si è infilato dentro e lo ha spinto. Disubbidire a quella forza magica era impossibile. La sua vita sarebbe risultata inutile. La non vita. La stasi. Doveva. Quella forza irruenta, quel demone osceno, di lui s’è impossessato e lo ha caricato.

Decide per la cicuta. Il meglio per lui e il peggio per  gli altri. Quelli che continueranno a vivere nell’ombra.

E nell’Apologia ci nutriamo della serrata consapevolezza che non è facile convincere nessuno. Si è in un campo che trascende il quotidiano.

 

            E Io corre colle zampe distese, con le corna sottili e elevate,cogli occhi coperti di un leggero velo. Un velo che annebbia e che la spinge, la costringe a girare, girare, spesso intorno allo stesso luogo, per meglio intendere, meglio sentirlo nella dimensione che si avvicini al reale. Poi va. 

Pause non lunghe, girare il capo, puntare lo sguardo e via. Spazi ampi, l’odore del cielo e quando annusa il puzzo di macerie imputridite, si sofferma, sbava, si agita, vorrebbe lì mai avere posato lo sguardo. Ne esce sconvolta. Amarezza. Per cacciarla via avrebbe bisogno…di cosa? Una spugna è capace? Una nota lanciata da chi sa battere il tasto, con estrema accortezza, è capace? Niente e nessuno e lei a dirigersi senza seguire alcuna direzione.

Ora….gli occhi bovini sbirciano, vedono uno…incatenato ad un palo e attorno tanti, tanti amici.

Al centro del mare, nel luogo in cui si accostano, senza mai toccarsi, due lembi di terra, sempre tenuti slegati dalla furia dell’acqua fustigata dal vento, c’è un grosso macigno. Alto e scosceso. Attraccata una nave. Al centro un palo e, stretto a quello, uno, dagli occhi furenti, dal viso titanico. Uno furbo. Ambiguo. Vuole e sa che il pericolo incombe e tenta ogni modo per superarlo, per venirne fuori. Ma pronto a darsi, perché fortemente attratto. Ma quante difese! Quanti nodi gli cingono i polsi, per non lasciarsi prendere! Astuto e arrogante. Una parte del sé, la parte oscura, che emerge. Pur di avere salva la vita, pur di giungere a fondo, là dove si vuole e non lasciarci le penne.

Chi teme? Le sirene, donne, non donne, non umane, ma dalle umane fattezze.

Legato perché intende ascoltare quella melodia, che emerge dal fondo. Dal fondo del mare e avvinghia ogni parte e scompiglia ogni senso. Sconvolge l’udito. Stende ogni fibra, annebbia la vista, martella il muscolo al centro del petto e quello recalcitra ed è difficile imporgli la sosta.

Quel furbo non cede.

Che forza! Sentire il fascino, drogarsi di una visione paradisiaca e mantenersi fedele al suo obiettivo. Non perdersi.

Quanti persi, sviati dalla via maestra per la curiosità di provare la droga! Per codesti inevitabile la fine. A quel Nessuno l’esperienza e poi diritto, senza torcere il capo. La sua meta, il tornare. Il ritorno fa superare la morte. La stasi. Al completamento del viaggio percorso. E quell’uomo non può consentire ad alcuna malìa. Neppure quella che seduce la mente. E’ salvo. Così crede. Così è.

Gli amici non odono nulla. Non afferrati. Non sentono. Non lottano. Salvi.

Da che? Dato che a loro nessuna via s’è aperta. Alcuno spiraglio di luce.

 

           E, nella mente di Io, lo sconforto. Abbandona e va. Morsa da quella mosca sozza. Un veleno truce le inietta. Il veleno della conoscenza. La curiosità. Quella stessa diabolica essenza che spinse Eva a cogliere la mela. Spinta dal demone, dal dio, cessato di essere buono e pronto a dare mostra di sé. Completo. Con l’altra faccia. Quella del diavolo. L’ombra che rincorre tutti e spesso ha il sopravvento e avviene quando la luce s’affioca.

Cacciata dall’Eden, Eva s’avvede che ha perso la luce, che il buio l’ha lanciata in una dimensione diversa. Una umana dimensione. Non le resta che accettare. Chinare la fronte e darsi ai lavori stancanti.

Anche lei, la raminga Io, punzecchiata dal demone? Cosa ha fatto di male?

Torna da Inaco. Il padre. Sosta un po’. Un po’di refrigerio. Pascola ai bordi del fiume. Liscia sull’acqua le zampe. Sorseggia e coglie le carezze delle ninfe, sue sorelle, che di lei non intuiscono nulla. E lei non può chiedere aiuto. Nessuno potrebbe concederlo. Grande condanna. Immensa sofferenza. Correre per cercare e non volere soffrire. Non è possibile. La conoscenza impone disagi. Animo robusto e tenacia. Se crolli è la fine. Annientati dall’altro, quello che non è possibile intendere e che vuoi eternamente rincorrere. Perdente a causa tua. Nessuno t’ha imposto niente.

 

           Eppure qualcuno s’avvede di ciò. Chi è? E’ quello che è stato castrato. Risponde al male col bene. Il re dei re non vuole il male di lei.

Il bene è più forte del male?

Risposta vana, perché non credibile da alcuno. Eppure quel re manda Ermes perché conduca Io dove gli abitanti vestono il lino, il fiume fertilizza la terra, là dove è stato sancito l’Esodo. L’inizio del viaggio. Lì, nella notte dei tempi, è iniziato il moto, per la scoperta della terra promessa. Dalla dimora del Nilo i segreti dello scibile umano.

E parte quel popolo, mosso da una voce imperiosa. Quella voce, che i secoli hanno detto Mosè, è lo spirito che nasce, che desidera, che si muove.

Prima bloccato? Popolo passivo? E’ colpa del Faraone? Momento di grande inerzia. Ma avviene qualcosa. Su quel popolo il flagello. La grande forza. Piove dal cielo. Ribellarsi. Andare.

Stenti, sofferenza, pause.

Quanti disagi! Spingono a correre, a non fermarsi, continuare. Il viaggio non ha soste.

E, durante il percorso, tanti miracoli! Segni di un divino percorso, che non è solo quello; è il percorso di ogni essere, se vuole scoprire a fondo se stesso.

Quante volte si dice di tornare al sito di prima!

Paura di non riuscire!

Viene meno la fiducia allo spuntare del dubbio.

Manca il coraggio della sofferenza. La forza di dire“Basta! Sono fuori dal mio sacro….

 

Io corre, alla ricerca.

Vede un uomo, afflitto. Tenta. Non è riuscito nell’intento. Abbandonato. Ora solamente la sua ombra. Occhi chini e mormora: Volevo, speravo…non è possibile. L’unica forza è il potere su tutti. Il potere di distruggere tutti. Libidine come mezzo. Piu’ fango sul viso di altri, più forte il senso di sé. Più gigantesca l’ombra. Sempre più buia. E sempre più solo.

Soffiargli di continuare il viaggio intrapreso? Dirgli che viaggiare è trasformarsi? Meglio di no. La voce deve essere spontanea. Sorgere dal fondo.

E Io va, carica di tristezza.

 

E Luciano riporta le parole di Zeus.

 “Portala in Egitto, rendila Iside, dea di quelli di là, che fecondi le acque e salvi i marinai”.

La giovenca è oramai una dea.

Quanti giri, quante vastità, quanti luoghi impervi, quanti misfatti per essere tale!

 

Io non credo ad un epilogo sì beato.

I santi sono un alibi, come le tombe non sono i vivi.

Nel ricordo l’immortalità?

No…credo in questo dramma che si spende sulle spalle del debole. E la conoscenza è il diavolo che ha il sopravvento. L’ombra che mostra i tentacoli, il pane che manca, la mente contorta, la non gioia, perché essa, la gioia, è solo quando riposi tranquillo. Dopo tanto peregrinare si vuole dormire. Si vuole il riposo. E forse per sempre. 



Vita di delizie, di Archestrato di Gela

 

Note di Lucia Arsì

 

 

E se afferrati dal sic et nunc lasciassimo nell’oblio Mnemosyne?

Senza memoria storica si sfalderebbe l’“Unicum” che ogni paese esprime, e si perderebbe il senso di “Kronos” che si manifesta attraverso la trasformazione. Identità e cambiamento sono archai che l’uomo respira nel corso della sua dimensione terrena. 

D’obbligo pertanto conoscere scrittori del passato ed è il senso di codesto biblìon….

 

 “ Prendi da Gesonia, quando giungi a Mileto il cefalo cestreo ( a punteruolo) e il pesce- lupo divino. Lì, infatti, sono i

migliori, e tale è la natura del luogo….essi interi e con tutte le squame a fuoco lento falli arrostire e portali a mensa acconciamente morbidi in acqua e sale e mentre ti affatichi a preparare tale pietanza, non si accosti a te né Siracusano né Italiota; non sanno infatti preparare pesci squisiti ma guastano il sapore imbrattando il tutto di formaggio e spruzzando liquido aceto e spargendo di salsa di silfio. Sono però quelli che meglio di tutti sapientemente preparano i pesciolini di scoglio tre volte maledetti e sono in grado di allestire con arte un banchetto di manicaretti pieni tutti di inezie e colmi di grasso.” 

 

Chi scrive è Archestrato. Chi riporta il frammento è Ateneo storico del II° sec. d.Cr., autore dei “ Deipnosofisti ” e lì  leggiamo i 62 frammenti ( circa 300 versi ) dell’opera di Archestrato.

Archestrato è un siculo di Gela. “ Ἀρχέστρατός τε ὁ Γελῷος…Archestrato di Gela ”. 

Ricco, aristocratico, viaggiatore instancabile, dal palato incorrotto e infallibile, Archestrato è uomo di cultura. 

Frequenta la “metropoli” di Siracusa che definisce “τᾶς κλενᾶς Συρακούσας…l’illustre Siracusa…”, di cui però non condivide le ricette elaborate e gli eccessivi condimenti (ήδύσματα), pur essendo la cucina siracusana apprezzatissima per qualità e varietà.

  

“… τῶν δὲ Συρακοσίων τούτων άμέλησον…non ti curare di questi siracusani che bevono solamente al modo delle rane e non mangiano nulla  e tu non seguire il loro uso e non lasciarti persuadere da loro, mangia i cibi che io ti propongo, perché tutti gli altri e ceci in brodo e favette e mela e fichi secchi, questi sono cibi di miseria…”.

L’immagine di uno chef siculo che predilige la “misura”. Un intellettuale che ha percepito l’insegnamento socrateo del medén àgan- nulla di troppo, messo in discussione, sul finire del IV sec., dalla dominante cultura macedone e persiana, amante del lusso e dei banchetti pantagruelici.

Uno spirito intelligente che, nel rispetto del regno animale dall’uomo interiorizzato al fine di conoscere i propri organi mediante la coscienza riflessiva – i crostacei sono arti, i pesci in generale sono la struttura scheletrica, molluschi e polipi sono i genitali femminili -, una mente attiva che, riconoscendo nell’animale un essere autonomo dotato di finalità senza scopo che è la  cifra della bellezza, offre la sua competenza esperenziale, rinnovando il rito di sacrificio delle creature della terra del cielo e del mare con un linguaggio reverenziale, il linguaggio dell’epopea.

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A mio padre

 

Tu

hai reclinato il capo

ti sei incipriato col giallo della morte

hai chiuso il colloquio con me.

Io

ho spalancato le palpebre

ho spolverato le guance col rosso dell’angoscia

ho iniziato un vero contatto con te.