Lucia Verdini - Poesie e Racconti

VIAGGIATORI NOTTURNI

 

Non è ancora giorno quando con l’aereo Susanna sorvola il Pireo. Il rossastro del cielo si mescola al bianco spugnoso e denso delle nuvole. Una linea compatta di azzurro brillante si intravede all’orizzonte fino a sfumare i contorni più lontani. La luce che filtra attraverso il vetro dell’oblò come una lama tagliente si tinge d’oro crespo. Si sveglia piano. Le ci volle qualche secondo per riemergere dallo stato di semicoscienza in cui era sprofondata da circa un’ora. E si rese conto di avere i muscoli doloranti dall’aria condizionata. La luce dell’alba l’ha sorpresa indolenzita, con addosso un abbigliamento leggero e colorato. Assonnata si affaccia dal finestrino ovale ermeticamente chiuso e si accorge con sorpresa che l’aereo ha incominciato le prime fasi dell’atterraggio. La piccola isola si comincia a vedere. Eccola lì, che sparisce dietro a una coperta morbida di nuvole candide per poi riapparire morbida e autentica attraverso sprazzi di foschia grigiastra. Sembra l’Isola che non c’è, e noi la sorvoliamo come Peter Pan, ma con ali diverse. Mentre la guarda dal finestrino sprazzi di luce scintillano e riflettono sull’acqua immobile fino a sparire completamente. L’aereo tocca terra dopo pochi minuti. Provò quasi un sospiro di sollievo nel toccare il suolo di questa terra nuova con i piedi. Era da un pò di tempo che non saliva su un aereo. Respirò a fondo. L’aria mattutina era afosa, pesava nei polmoni già a quella giovane ora del mattino. Insieme al caldo e all’odore del mare saliva il suo stupore. A dire il vero non era molto sicura di questo viaggio. Fece il biglietto il giorno prima di partire. La partenza era prevista per le quattro di mattina e Susan aveva acquistato il biglietto in agenzia di viaggio a tarda serata, qualche ora prima che chiudesse. Il volo era prenotato. Ma non era ancora convinta. Se non fosse stato per il suo bisogno di staccare avrebbe annullato tutto. Era un periodo di ma e di se quello. Per mesi e mesi non fece altro che lavorare in un Caffè senza essere retribuita. Faceva lavori che non la entusiasmavano o completavano. Solo lavorava per bisogno, per sbarcare il lunario, che oggi sai com’è, meglio accontentarsi di quel poco che si ha. Caricare la sveglia alla stessa ora quasi tutti i giorni, aspettare e aspettare qualcosa che non sarebbe arrivato. Collezionava giornate sempre uguali e non sapeva più riconoscere ciò che la appassionava veramente. Spendeva tutte le energie in qualcosa che non le veniva più ricambiato, ma le assorbiva le ore e i giorni. Voleva essere apprezzata, guardata per davvero per il suo valore. Voleva staccare la spina, mollare la presa. Lasciar andare per la loro strada alcune cose e nutrire la mente di altro, di “diverso”, poi però soffriva se doveva spostarsi da sola e fare un lungo viaggio in macchina, o come ora, addirittura in aereo. Invece eccola qui, a ricostruire i suoi pezzi. E a cercare una nuova ispirazione. A cercare di non pensare a un amore che si è allontanato da lei. Seduta sul sedile posteriore del taxi che la portava all’appartamento, mentre attraversava strade tutte uguali, a sbalzi degradate, come quella macchina scolorita e ammaccata che le stava passando di fianco. L’autista, che aveva capito già da un pezzo il suo paese di provenienza, sorrideva compiaciuto e da allora aveva iniziato a parlare in un misto di un inglese perfetto e un italiano decadente. Le aveva spiegato velocemente la strada da prendere per arrivare al centro della città. Il tutto immerso in un paesaggio incantato. La traversata scorreva piacevole, a tratti sembrava di stare sulle montagne russe, ma in compenso i colori del mar Egeo, che appariva e scompariva tra un avvallamento e l’altro, tra una baia e l’altra. Sembravano diamanti blu che splendevano più in là, in lontananza, poi si univano e estendevano fino all’inverosimile sfumando i confini con il cobalto del cielo. Salite e discese, rotatorie e semafori. Susanna guardava la città apparire e scomparire dal finestrino. Finchè tutto il paesaggio scompariva dietro a una duna rocciosa. L’autista si ferma e aspetta paziente che i semafori si facciano verdi. Ora il paesaggio è fermo. Si possono quasi assaporare i colori. Ma eccolo che riparte per poi girare a destra quasi subito. Imbocca una stradina sassosa e polverosa. Si ferma. “E’ arrivata a destinazione, signora”. La donna scende nella sua eleganza. Ad ogni passo si alternavano occhiate di stupore: una sfilata di casette bianche, a schiera, l’una affianco all’altra si affacciano in un panorama fatto di sabbia e cactus. Povero ma autentico. Seducente come quella linea di un sottile blu languido che si intravede lungo le ondeggianti dune. Lo sguardo si tuffa un pò più in là, in una piscina comodamente appoggiata su un prato secco, costeggiato da un sentiero in pietra che si collega a scalinate troppo larghe che portano agli appartamenti. Le porte in tinta bianche e blu si affacciano sulla scalinata, i mattoni grigi delineati da strisce sfalzate e ondulate di bianco. Un senso di spaesamento sembrava confonderla per un attimo, ma non aveva risposte.

Un passo dietro l’altro, Susan si addentra nel bianco incantevole del centro abitato che si arrampica sul dolce crinale di una collina. Un centro fatto di casupole bianche, costruite l’una sull’altra, con porte e terrazze tinteggiate di blu, altre di rosso scarlatto. La cornice pittoresca rimane immutata: davanti agli occhi si susseguono suggestivi sprazzi di panorami che si affacciano sul cielo e sul mare, fino a formare un tutt’uno. Colori e odori che si intrecciano, strisce di calce bianca pitturano le stradine labirintiche che proseguono a ridosso del mare. Un’infinità di ristorantini e locali alla moda colorano il quartiere principale di K. chiamato anche diversamente che ricorda a grandi tratti Venezia perchè le case con i loro balconi sono costruiti a filo d’acqua. Una terrazza sul mare, tavolini e sedie bianco candido. Le increspature dell’acqua che scintillano nell’azzurro si tingono di giallo oro, fino a raggiungere le barche galleggianti a largo dei pescatori. Da qui, in questo angolo nascosto, Susanna segue con lo sguardo i turisti che risalgono su per una scalinata che porta a remoti mulini a vento. Una lingua di sabbia sopra ad un sinuoso promontorio che cade a picco sul mare ospita da secoli sei antiche costruzioni. E’ da qui che osserva il mare ostinato a ritirarsi lento e infrangersi poi contro questo muro a palizzata che sprofonda giù, sul lungomare. E Venezia sembra galleggiare su un filo d’acqua dorata. Una luce scivolava limpida. Se Susanna potesse chiamare le cose con il loro nome, adesso non le saprebbe chiamare.

La notte come il giorno le strade sono sempre trafficate e maleodoranti di benzina. Macchine e moto sfrecciano da una parte all’altra della città e si fermano a parcheggiare sempre dove capita. Motorini ammucchiati quasi l’uno sopra all’altro, come se non ci fosse altro posto se non quello dei parcheggi sabbiosi ombreggiati da vaste piante di canne di bambù, o lungo marciapiedi trafficati da passanti. La mattina scivola via con la moto dal parcheggio del villaggio per esplorare le zone più deserte dell’isola e i luoghi meno affollati dal turismo di massa. Correva lungo lo snodo di salite e discese tortuose, selle curve delineate da muretti rocciosi che affiancavano dirupi scoscesi. Attraversava lande brulle color marrone a tratti punteggiate da terre aride e rossicce, bruciate dal sole che scottava sulla pelle scoperta. Il vento cominciava a farsi largo su queste terre, tra le rocce. Soffiava tra i ciuffi di macchia mediterranea, creando una sinfonia quasi percepibile. Aveva l’odore de mare e del sale. Ora il caldo si fa meno appiccicoso, in questa estate greca che ha gli odori e i colori simili alle nostre terre arse dal sole del sud. Come il vento che portava via l’odore del sale sul lungomare scompigliato. Scompigliava i ciuffi di macchia brulli, invadeva le coste, le strade, le case. Simili come il tramonto che attraversava gli edifici bianchi e ne scompigliava i colori.

La notte è fatta per viaggiare. La notte si riparte, insieme agli altri viaggiatori.


AMBRA

Una scia di profumo mi assalì di colpo. Chiusi gli occhi e respirai a fondo. Era un profumo che veniva da lontano. Sapeva di ricordi e di inizi che portavano con sè tutti i sapori di una primavera ormai passata. Mi parlava di certe promesse sospese, quasi in un sussurro estatico, che il tempo non aveva cambiato nè mantenuto fino in fondo, ma con eleganza e costanza aveva tenuto in serbo. Come ombre quegli odori improvvisi riscoprivano uno ad uno tutti i miei sensi, così sottili e fugaci. Fu così d’improvviso che mi passò davanti agli occhi un’immagine: l’immagine di quando ero seduto in macchina con il viso appoggiato sulla spalla di lei -proprio lei!- a sfiorare le sue mani e a respirare tra i capelli arruffati il suo profumo. Somigliava alla brezza fulgida di un vento caldo. Di quelli che si affacciano ogni mattina sul balcone a scrutare il candore di un’alba calma. Lento. Scendevo con lo sguardo sulla sua pelle abbronzata e le forme definite del suo corpo. Se chiudevo gli occhi potevo immaginarlo il suo profilo davanti a me, con i lineamenti decisi, il naso all’insù e i suoi occhi d’ambra, come Ambra era il suo nome. Mi facevano pensare al tripudio dei colori di una pietra preziosa. All’odore del legno di sandalo di paesi lontani che non avevo ancora visto. Ambra. Gli occhi avevano i colori caldi e temperati dei primi pomeriggi autunnali. Brillavano di un marrone intenso, solcato da striature mielate sotto le lame affusolate di un sole timido che provava a scaldare l’aria. Ripenso a quando, sotto a quei tratti di luce uniformi, scivolavo con la punta delle dita tra le inflessioni della sua pelle. Perchè in quel modo volevo imprimere in me ogni dettaglio e ogni tratto del suo viso. Quando la sera si posava su di noi come una scala di colori accesi lungo quelle strade di periferia che si riempivano di auto al tramonto o per le vie scalpitanti e assolate della città di giorno. In una panchina addormentata sul ciglio di un prato, sul filo dell’acqua di un lago, in qualunque posto cercavo in prospettiva quegli sprazzi di luce che accendevano il suo volto. Quando una luce ocra dipingeva uno spicchio attraverso il parabrezza e inondava d’oro i sedili della macchina e noi. Inafferrabile però. Provavo a rubare ogni attimo di questo tempo che correva troppo in fretta per renderlo infinito, copiando ogni sua parte in me. Inafferrabile come quella luce. E i segni di tutte quelle emozioni dentro di me prendevano una forma, un profumo, un nome. Il suo. E si riversavano quasi irraggiungibili e inespresse nella loro pienezza, come una forza prorompente e un desiderio inarrestabile che batteva nelle vene. Lì, dove mi ha lasciato qualcosa di lei e senza saperlo mi ha insegnato a chiamare le cose con il loro nome. Quelle cose che ti sorprendono. Ti accadono senza averle programmate. Le senti oltre la pelle quando ti scambi l’anima con un soffio di sguardi. Quelle sensazioni che si mischiano con i profumi del tempo e restano oltre ogni contatto. Ti riportano indietro in un attimo, in attimi che erano solo tuoi e che vorresti rivivere. E invece adesso li scrivo su queste pagine che diventano i miei respiri. Così passarono giorni, settimane e mesi. Li passai a ricostruire ogni mia giornata nella sua assenza perchè continuavo a sentirla in una zona indefinita del mio petto. Sentivo la sua appartenenza. Chissà come stava? Come passava le sue giornate? Cosa pensava? Poi all’improvviso ecco che mi arriva un profumo. Di vento e di sabbia.