Il perdono dei perdenti
E forse un giorno ogni sapore non si mostrerà più ricordo
flusso di rimpianti corrosivo quanto l’acido
desiderio del desiderio che strappa la carne
reflusso della reminiscenza di ciò che mai è stato e mai sarà.
E magari un giorno, quel poco vissuto basterà
a negare quel tutto che ci poteva essere.
E forse un giorno
questo breve nostro durevole cammino finirà
e non servirà più niente
delle costrizioni, delle speranze
degli scorni ingannevoli
per credere o non credere che la vera realtà sia visibile.
E chissà se un giorno
dopo una lunga strada
mi guarderai col sorriso pieno che nulla più nasconde
e leggerò una felicità trovata, altrove,
un rifugio scavato nell’inferno di questo tempo
un piccolo tuo mondo nel mondo
dove avrai scelto di esserci
fino in fondo
ed io, altrettanto, in un altro luogo lontano da noi
e mi sentirò libera
e nulla sarà più sospeso nello spazio dannato che non merita Vita
e riuscirò a perdonarmi, per non essere riuscita in niente
e riuscirai a perdonarmi, per averti amato troppo.
Amarti è stato un lungo viaggio di follia.
E ti ho amato oltre ogni confine del possibile, oltre me stessa
oltre le colline di Fiesole, oltre le barricate di ottobre.
Non capivo niente amandoti. Niente.
Sentivo amore disperato in te
tanto da tramutare i rifiuti in carezze
tanto da sentirti mio anche mentre scappavi.
Avevi un modo tutto tuo di farmi brillare
un silenzio profondo con piccoli echi di tettoie sotto la pioggia
di fontane in mezzo al deserto come attimi di tutto nel nulla.
Non ci sopportavo lontani
immaginavo di ferirti e sanguinavo io, ovunque.
E tu, con quelle ferite che non accettavi, che non capivi
camminavi anche senza gambe pur di non fermati a prendermi.
Ed io, piuttosto che salvarmi e perderti stavo lì, ad aspettarti
consumata, e mentre la realtà mi ricopriva di sputi
io mi vestivo di speranza, agonizzante
con il cuore gonfio per aver assorbito tutto il tuo sangue,
sangue malato di pallore, privo del rosso continuo
vuoto dell’essenza del sentimento che resta.
Amavo tutto di te, ma più di ogni altra cosa
amavo quella sensazione di tramutare il marmo in carne pulsante
toccandoti.
Dare battito ad una pietra era amarti
come un potere assoluto ma dolcissimo
come la conquista del dare la vita.
Amavo tutto, amavo il tuo essere criptato e criptico al mondo
la tua solitudine, la tua intelligenza brillante
il tuo intuito sottile, i tuoi vizi, la tua sete di violenza
il tuo chiedere agli altri di me pur di non affrontarmi
i tuoi sguardi parlanti, la tua affettività contorta e persa
il tuo cuore unico, oscuro e grandissimo
le tue bugie, la tua gelosia nascosta
la tua apparente aridità, la tua profonda ricchezza morale
il tuo sentimento per gli antipasti senza mai arrivare al dolce
i tuoi fianchi, le tue mani titubanti, la puzza dei tuoi piedi
le tue unghie sugli specchi,
i tuoi silenzi che urlavano il mio nome.
Io non esistevo più, ti amavo e basta.
In tutto il resto c’ero ma in mancanza di vita.
E non respiravo senza il tuo sorriso
senza la tua vena gonfia di passione
senza la tua rabbia nel voler aver ragione
senza il tuo amore soffocato
senza provare a liberarlo ad ogni costo.
Ti amavo e basta. Ero questo.
Fatta interamente di tristezza e troppo amore inutile.
Oggi cosi, ma con tutta la forza rimasta
scriverò domani un finale diverso per questo racconto.
Racconto di un Marzo non qualunque.
Ti riguardo nei ricordi. Ancora scelgo il sogno.
Li senti ancora i nostri abbracci?
Che si spenga il sole, che si fermi il tempo.
Rimango tuttora un po’ qui, con un ingombro troppo grande
un calore che non puoi
che afferri a singhiozzo in piccoli attimi di lune
ed occulti in strane vesti nei giorni che scorrono.
Che non cerchi o forse sì, nascosto
dietro uno spillo che buca la vista
ma a volte prendi, nonostante tutto, per poi tornar lontano
bruciando la fretta nella condizione del rifiuto
come se dovessi mandarmi via, per forza.
Quella calma finta dopo l’esplosione
un’emozione liberata da una prigione troppo stretta.
Chissà cosa ti incanta quando resti.
Chissà a cosa ti opponi quando vai via
dissidente nei boschi della fuga.
Ti basta questo poco già troppo.
Ti basta tornare senza restare. Ti basta negare.
Chissà cosa vuoi riconquistare quando ti fai riprendere
e cos’è la differenza che fa la rinuncia.
Sentirlo ancora non cambierebbe, non ho mai voluto capire.
Vedo solo un rifiutare sofferto
come un’ infermità che aspetta la cura.
Ed io con quella presunzione di essere antidoto a tutto.
Scrivilo ancora che non mi vuoi, che non c’è amore in te
sono diventata cieca, non lo vedo questo sentimento dissimile
una verità nei fatti ma che non ritrovo nei tuoi occhi.
I tuoi occhi
che mondo complicato
espulsi da una maschera
a raccontare di un cuore che brucia momenti.
A volte mi amano.
Come la tua pelle
quella vera, quella sotto
che vibra al mio passaggio
che non mi stanco mai di baciare e respirare
nelle nostre notti, nei miei sogni di amore e rivoluzione.
E la tua corazza, quella sopra
come uno striscione bucato ai cortei
per non aver zavorra
per non cadere indietro
ed io orgogliosa di sentirmi tuo vento
in rari istanti che non trattengo.
Ti fai attraversare
nell’ emozione più profonda
fortissima, inrivivibile
ci tocchiamo in ogni pezzo, completamente
ci uniamo in tutto
mi accarezzi mentre dormi, stringi le mie vene tra i tuoi pugni
poi finisce, senza mai una fine.
Dovrà finire.
Oggi no, rimango qui a guardarci.
Vedo te sospeso sfuggire gelosia e istinto.
Fosse solo possesso lo accetterei.
Convincimi. Non così.
Vedo le tue mani sul mio corpo
a scavare gallerie, a cercare segreti
a centellinare per non prendere tutto
vedo la passione sfogarsi, i brividi alzare il sangue
nelle albe, nelle mattine rubate alla vita.
In quello che era fino a ieri.
In quello che non è arrivato ma scalpitava.
L’amaro gioco della colpa fetente, inesistente.
I nascondini delle verità.
Non vedo confini d’amore in quella notte
sul pavimento di ghiaccio, te sul divano io per terra
solo per sfiorarti un braccio e ascoltarti il respiro.
Come se fosse l’ultima.
E prima ancora ore ed ore a far l’amore
neanche pagati da un dio perverso che ci guarda.
Non lo è stata. Ci siamo persi ancora e poi riscoperti ancora.
Complici, folli, presi per poco, amati e poi ripersi nel nulla.
Il copione del nostro lungo viaggio.
Io che ho spesso confuso la realtà al sogno
io a cercarti e ritrovarti
con quella curiosità morbosa
dei tuoi mondi alterni
dei tuoi sguardi contrapposti alle mie piaghe
dei tuoi no di gabbie e sospiri
della tua altalena di voleri
le tue facce parlanti
le parole non dette
il tuo stupore costruito davanti all’ovvietà
i miei trattati di ipotesi scritti sui silenzi
per non morire dentro nei giorni amari.
E li amo profondamente quei giorni d’assedio
dove il tormento era l’unica certezza per sentirmi tua
tutto quel borbottare di pancia e cuore come se esplodesse.
Tutto quel rumore ad affollare il tempo
e noi lontani, in obbligati spazi distanti
che se bastasse il desiderio saresti già dentro qui ed ora.
E dove andrò mi chiedo per dimenticarti
che neanche con un fucile in mano
perderei la mira verso il volerti.
Dove andrò a resistere e continuare la vita?
E se mi seguirai ovunque senza seguirmi?
Io, avvolta in un cammino ciclico, spirale illusoria
a ritrovare il punto di partenza
oggi sempre
io inerte, di abulica malinconia
il dono della stronza condanna
come se negarti i battiti servisse solo a star ferma
e ritornare
nel desiderio più profondo
a farmi ipnotizzare dal tuo cielo
nell’aria che addensa e rifulge
sui miei sogni in cerca dell’altrove.
18 ANNI PER SEMPRE
(A Federico Aldrovandi)
Non l’hai scelto,
non l’hai cercato,
non l’hai provocato,
ma in quella maledetta alba ti hanno strappato via,
per sempre.
Mentre scorrono i ricordi,
le lacrime pesano come i rimpianti forzati di tutta una vita che non hai potuto sbagliare,
correre, gridare, amare, piangere, ridere.
Niente è cambiato Federico,
tanti manganelli sono stati rotti,
per sfogo o per comando,
da chi ogni giorno serve uno Stato sempre più malato di inutilità sociale e di sempre più controllo; controllo del diverso, del dissenso, controllo del conflitto, controllo di chi rivendica i propri diritti, controllo di chi solidarizza verso chi ha perso tutto, ci hanno rubato tutto, resta la forza dei sogni.
Manganelli spezzati Federico,
sul sacrosanto diritto all’abitare, a vivere libero, ad avere un lavoro, una dignità, all’essere tutti uguali.
Manganelli spezzati Federico, su chi lotta per difendere i propri territori contro la speculazione,
contro le mafie, contro la devastazione.
Manganelli spezzati Federico,
nelle schiene di chi non si abbassa ai ricatti dei padroni.
Manganelli spezzati su chi chiede aiuto in una società sempre più egoista e sorda.
Manganelli spezzati sulle lotte contro il fascismo che legittima e provoca tutto questo.
Manganelli spezzati al servizio del capitale, che ci vuole divisi, affamati di piccole invidie, affamanti di gelosie e paure, costretti nell’individualismo più rigido, e fa di tutto ogni giorno per metterci gli uni contro gli altri, perchè insieme, in un unica lotta, facciamo paura.
Al loro odio mosso da altro odio a tutela del potere, opporremo una rabbia colma di amore.
C’è solo una parte giusta verso cui stare, insieme, attivamente, prendendosi tutto.
Tu, vittima innocente di questo infame sistema, un giorno sarai vendicato, cambieremo questo paese martoriato Federico, loro piangeranno dei nostri abbracci e delle nostre grida di gioia.
Crediamoci. Vivi nei ricordi, una memoria che riempie i cuori puri di chi ogni giorno lotta, e ti racconta, e non si stanca.
ALDRO VIVE!
La vecchia e il gatto
Isola d’Elba, Agosto 1981.
Un istante, un unico sorriso,
stretto come un vestito non suo,
un lampo di luce nel cimitero solitario di un corpo ricurvo dal dolore.
Stritolata dal tormento, ormai priva di consistenza,
nessuno poteva restituire ad Isola la sua forma originaria.
Neanche quel sorriso rubato alla morte.
Fu un attimo che irruppe nella novena del lutto perpetuo,
e per un attimo lei e la vita,
ancora insieme.
Sollevata per poco dall’annegare incessante delle pene,
Isola deserta,
naufragata nel buio di se stessa.
Un istante di sorriso nella morte continua dei giorni.
Morta da molto, mai più vita, mai più gioia, mai più colori,
nessun matrimonio, nessun compleanno, tutto negato per non cadere nel peccato di gioie proibite, soltanto l’ombra di un velo in testa e sul cuore, nero come il canto del corvo nelle notti perse per lavare il mare con le lacrime.
Affogata quel giorno insieme a Priamo, primo figlio, primo tutto, primo frutto d’amore profondo.
Affondata il 9 settembre del ’43, sulla Corazzata Navale Roma,
per mano Nazista.
Mia bisnonna Isola.