Maddalena Benanchi - Poesie

Il perdono dei perdenti

 

E forse un giorno ogni sapore non si mostrerà più ricordo

flusso di rimpianti corrosivo quanto l’acido

desiderio del desiderio che strappa la carne

reflusso della reminiscenza di ciò che mai è stato e mai sarà.

E magari un giorno, quel poco vissuto basterà

a negare quel tutto che ci poteva essere.

E forse un giorno

questo breve nostro durevole cammino finirà

e non servirà più niente

delle costrizioni, delle speranze

degli scorni ingannevoli

per credere o non credere che la vera realtà sia visibile.

E chissà se un giorno

dopo una lunga strada

mi guarderai col sorriso pieno che nulla più nasconde

e leggerò una felicità trovata, altrove,

un rifugio scavato nell’inferno di questo tempo

un piccolo tuo mondo nel mondo

dove avrai scelto di esserci

fino in fondo

ed io, altrettanto, in un altro luogo lontano da noi

e mi sentirò libera

e nulla sarà più sospeso nello spazio dannato che non merita Vita

e riuscirò a perdonarmi, per non essere riuscita in niente

e riuscirai a perdonarmi, per averti amato troppo.


 

Amarti è stato un lungo viaggio di follia.

 

E ti ho amato oltre ogni confine del possibile, oltre me stessa

oltre le colline di Fiesole, oltre le barricate di ottobre.

Non capivo niente amandoti. Niente.

Sentivo amore disperato in te

tanto da tramutare i rifiuti in carezze

tanto da sentirti mio anche mentre scappavi.

Avevi un modo tutto tuo di farmi brillare

un silenzio profondo con piccoli echi di tettoie sotto la pioggia

di fontane in mezzo al deserto come attimi di tutto nel nulla.

Non ci sopportavo lontani

immaginavo di ferirti e sanguinavo io, ovunque.

E tu, con quelle ferite che non accettavi, che non capivi

camminavi anche senza gambe pur di non fermati a prendermi.

Ed io, piuttosto che salvarmi e perderti stavo lì, ad aspettarti

consumata, e mentre la realtà mi ricopriva di sputi

io mi vestivo di speranza, agonizzante

con il cuore gonfio per aver assorbito tutto il tuo sangue,

sangue malato di pallore, privo del rosso continuo

vuoto dell’essenza del sentimento che resta.

Amavo tutto di te, ma più di ogni altra cosa

amavo quella sensazione di tramutare il marmo in carne pulsante

toccandoti.

Dare battito ad una pietra era amarti

come un potere assoluto ma dolcissimo

come la conquista del dare la vita.

Amavo tutto, amavo il tuo essere criptato e criptico al mondo

la tua solitudine, la tua intelligenza brillante

il tuo intuito sottile, i tuoi vizi, la tua sete di violenza

il tuo chiedere agli altri di me pur di non affrontarmi

i tuoi sguardi parlanti, la tua affettività contorta e persa

il tuo cuore unico, oscuro e grandissimo

le tue bugie, la tua gelosia nascosta

la tua apparente aridità, la tua profonda ricchezza morale

il tuo sentimento per gli antipasti senza mai arrivare al dolce

i tuoi fianchi, le tue mani titubanti, la puzza dei tuoi piedi

le tue unghie sugli specchi,

i tuoi silenzi che urlavano il mio nome.

Io non esistevo più, ti amavo e basta.

In tutto il resto c’ero ma in mancanza di vita.

E non respiravo senza il tuo sorriso

senza la tua vena gonfia di passione

senza la tua rabbia nel voler aver ragione

senza il tuo amore soffocato

senza provare a liberarlo ad ogni costo.

Ti amavo e basta. Ero questo.

Fatta interamente di tristezza e troppo amore inutile.

Oggi cosi, ma con tutta la forza rimasta

scriverò domani un finale diverso per questo racconto.



Racconto di un Marzo non qualunque.

 

Ti riguardo nei ricordi. Ancora scelgo il sogno.

Li senti ancora i nostri abbracci?

Che si spenga il sole, che si fermi il tempo.

Rimango tuttora un po’ qui, con un ingombro troppo grande

un calore che non puoi

che afferri a singhiozzo in piccoli attimi di lune

ed occulti in strane vesti nei giorni che scorrono.

Che non cerchi o forse sì, nascosto

dietro uno spillo che buca la vista

ma a volte prendi, nonostante tutto, per poi tornar lontano

bruciando la fretta nella condizione del rifiuto

come se dovessi mandarmi via, per forza.

Quella calma finta dopo l’esplosione

un’emozione liberata da una prigione troppo stretta.

Chissà cosa ti incanta quando resti.

Chissà a cosa ti opponi quando vai via

dissidente nei boschi della fuga.

Ti basta questo poco già troppo.

Ti basta tornare senza restare. Ti basta negare.

Chissà cosa vuoi riconquistare quando ti fai riprendere

e cos’è la differenza che fa la rinuncia.

Sentirlo ancora non cambierebbe, non ho mai voluto capire.

Vedo solo un rifiutare sofferto

come un’ infermità che aspetta la cura.

Ed io con quella presunzione di essere antidoto a tutto.

Scrivilo ancora che non mi vuoi, che non c’è amore in te

sono diventata cieca, non lo vedo questo sentimento dissimile

una verità nei fatti ma che non ritrovo nei tuoi occhi.

I tuoi occhi

che mondo complicato

espulsi da una maschera

a raccontare di un cuore che brucia momenti.

A volte mi amano.

Come la tua pelle

quella vera, quella sotto

che vibra al mio passaggio

che non mi stanco mai di baciare e respirare

nelle nostre notti, nei miei sogni di amore e rivoluzione.

E la tua corazza, quella sopra

come uno striscione bucato ai cortei

per non aver zavorra

per non cadere indietro

ed io orgogliosa di sentirmi tuo vento

in rari istanti che non trattengo.

Ti fai attraversare

nell’ emozione più profonda

fortissima, inrivivibile

ci tocchiamo in ogni pezzo, completamente

ci uniamo in tutto

mi accarezzi mentre dormi, stringi le mie vene tra i tuoi pugni

poi finisce, senza mai una fine.

Dovrà finire.

Oggi no, rimango qui a guardarci.

Vedo te sospeso sfuggire gelosia e istinto.

Fosse solo possesso lo accetterei.

Convincimi. Non così.

Vedo le tue mani sul mio corpo

a scavare gallerie, a cercare segreti

a centellinare per non prendere tutto

vedo la passione sfogarsi, i brividi alzare il sangue

nelle albe, nelle mattine rubate alla vita.

In quello che era fino a ieri.

In quello che non è arrivato ma scalpitava.

L’amaro gioco della colpa fetente, inesistente.

I nascondini delle verità.

Non vedo confini d’amore in quella notte

sul pavimento di ghiaccio, te sul divano io per terra

solo per sfiorarti un braccio e ascoltarti il respiro.

Come se fosse l’ultima.

E prima ancora ore ed ore a far l’amore

neanche pagati da un dio perverso che ci guarda.

Non lo è stata. Ci siamo persi ancora e poi riscoperti ancora.

Complici, folli, presi per poco, amati e poi ripersi nel nulla.

Il copione del nostro lungo viaggio.

Io che ho spesso confuso la realtà al sogno

io a cercarti e ritrovarti

con quella curiosità morbosa

dei tuoi mondi alterni

dei tuoi sguardi contrapposti alle mie piaghe

dei tuoi no di gabbie e sospiri

della tua altalena di voleri

le tue facce parlanti

le parole non dette

il tuo stupore costruito davanti all’ovvietà

i miei trattati di ipotesi scritti sui silenzi

per non morire dentro nei giorni amari.

E li amo profondamente quei giorni d’assedio

dove il tormento era l’unica certezza per sentirmi tua

tutto quel borbottare di pancia e cuore come se esplodesse.

Tutto quel rumore ad affollare il tempo

e noi lontani, in obbligati spazi distanti

che se bastasse il desiderio saresti già dentro qui ed ora.

E dove andrò mi chiedo per dimenticarti

che neanche con un fucile in mano

perderei la mira verso il volerti.

Dove andrò a resistere e continuare la vita?

E se mi seguirai ovunque senza seguirmi?

Io, avvolta in un cammino ciclico, spirale illusoria

a ritrovare il punto di partenza

oggi sempre

io inerte, di abulica malinconia

il dono della stronza condanna

come se negarti i battiti servisse solo a star ferma

e ritornare

nel desiderio più profondo

a farmi ipnotizzare dal tuo cielo

nell’aria che addensa e rifulge

sui miei sogni in cerca dell’altrove.



18 ANNI PER SEMPRE

(A Federico Aldrovandi)

Non l’hai scelto,

non l’hai cercato,

non l’hai provocato,

ma in quella maledetta alba ti hanno strappato via,

per sempre. 
Mentre scorrono i ricordi,

le lacrime pesano come i rimpianti forzati di tutta una vita che non hai potuto sbagliare,

correre, gridare, amare, piangere, ridere. 
Niente è cambiato Federico,

tanti manganelli sono stati rotti,

per sfogo o per comando,

da chi ogni giorno serve uno Stato sempre più malato di inutilità sociale e di sempre più controllo; controllo del diverso, del dissenso, controllo del conflitto, controllo di chi rivendica i propri diritti, controllo di chi solidarizza verso chi ha perso tutto, ci hanno rubato tutto, resta la forza dei sogni.
Manganelli spezzati Federico,

sul sacrosanto diritto all’abitare, a vivere libero, ad avere un lavoro, una dignità, all’essere tutti uguali. 
Manganelli spezzati Federico, su chi lotta per difendere i propri territori contro la speculazione,

contro le mafie, contro la devastazione. 
Manganelli spezzati Federico,

nelle schiene di chi non si abbassa ai ricatti dei padroni.
Manganelli spezzati su chi chiede aiuto in una società sempre più egoista e sorda.
Manganelli spezzati sulle lotte contro il fascismo che legittima e provoca tutto questo.
Manganelli spezzati al servizio del capitale, che ci vuole divisi, affamati di piccole invidie, affamanti di gelosie e paure, costretti nell’individualismo più rigido, e fa di tutto ogni giorno per metterci gli uni contro gli altri, perchè insieme, in un unica lotta, facciamo paura. 
Al loro odio mosso da altro odio a tutela del potere, opporremo una rabbia colma di amore. 
C’è solo una parte giusta verso cui stare, insieme, attivamente, prendendosi tutto. 
Tu, vittima innocente di questo infame sistema, un giorno sarai vendicato, cambieremo questo paese martoriato Federico, loro piangeranno dei nostri abbracci e delle nostre grida di gioia. 
Crediamoci. Vivi nei ricordi, una memoria che riempie i cuori puri di chi ogni giorno lotta, e ti racconta, e non si stanca.
ALDRO VIVE!


 

La vecchia e il gatto


Isola d’Elba, Agosto 1981.
Un istante, un unico sorriso,
stretto come un vestito non suo, 
un lampo di luce nel cimitero solitario di un corpo ricurvo dal dolore. 
Stritolata dal tormento, ormai priva di consistenza,

nessuno poteva restituire ad Isola la sua forma originaria. 
Neanche quel sorriso rubato alla morte.
Fu un attimo che irruppe nella novena del lutto perpetuo, 
e per un attimo lei e la vita,
ancora insieme.
Sollevata per poco dall’annegare incessante delle pene,

Isola deserta,

naufragata nel buio di se stessa. 
Un istante di sorriso nella morte continua dei giorni. 
Morta da molto, mai più vita, mai più gioia, mai più colori,

nessun matrimonio, nessun compleanno, tutto negato per non cadere nel peccato di gioie proibite, soltanto l’ombra di un velo in testa e sul cuore, nero come il canto del corvo nelle notti perse per lavare il mare con le lacrime. 
Affogata quel giorno insieme a Priamo, primo figlio, primo tutto, primo frutto d’amore profondo. 
Affondata il 9 settembre del ’43, sulla Corazzata Navale Roma, 
per mano Nazista. 
Mia bisnonna Isola.