Marcello Macri - Poesie

 L’ Estate.

 

C è un ronzio di un ape che ti informa dell’arrivo dell’ Estate.

Calda si poggia sul fiore appena sfiorito dal caldo del vento che sposta l’ape verso la  casa.

Un ramo s’inaridisce al suo passaggio, cambiando i suoi colori in verde scuro reso brillante dai raggi del sole e una ciliegia colora il terreno ingiallito, avvicinando la farfalla in cerca dei pochi colori rimasti.

Scende col vento, nel cielo riempito di nebbia inumidita dalla terra calda, per ascoltare il lento frusciare degli alberi dalle radici asciugate.

Con la brezza accarezza le sue foglie addormentate dal canto del grillo, interrotto dal passo polveroso di un uomo in cerca di ristoro.

Si allontana dalle case, dalle pareti piene di calore del giorno appena passato, per tornare poi, con lo scirocco e sporcarle di sabbia.

Grida il suo passaggio tra le foglie staccate e alza la sabbia sul mare inaridito.

Attraversa il camino spento dal suo arrivo e rialza l’odore di cenere, desiderio di freddo.


 

L’ amore.

 

Ha fretta di arrivare laddove trova aridità.

Idrata il sentimento nascosto nel buio della solitudine e sente il desiderio nascosto dalla vita quotidiana.

Si posa nel cuore dell’uomo sprovvisto di difese e salta nell’aria appena rinfrescata di speranza.

Improvvisa speranze bagnate di lacrime e le asciuga sul viso scaldato dal sentimento.

Anonimo si nasconde nel tempo fatto di ricordi scavati nel cuore.

Annega nella tempesta e affonda nei fondali del mare dove là si nasconde,

sotto il peso dell’acqua profonda,  per paura di dover lasciare l’amore trovato.


 

L’inverno.

 

L’inverno è la fiamma di un ceppo ardente che riscalda la stanza piena di ricordi.

Il calore ruba il sapore della cucina e risale dalla canna fumaria polverosa.

Il vapore percorre tiepido i tetti delle case coperti di coppi mossi dal vento.

L’umidità scivola dentro la grondaia di metallo e s’insinua tra i ciottoli della strada rotta dalla radice dell’albero appena potato.

La pioggia rumorosa della notte trascorsa viene riscaldata dal timido sole mattutino e cristallina cade dalle poche foglie rimaste, donando energia a chi la ricambierà, domani, in calore.

L’inverno è scoppiettio, rimbombo, sibilio, stillicidio, l’inverno è rumore passato.


 

L’albero.

 

Sta lì fisso con le sue radici sepolte dal tempo.

Con un fruscio respinge le spinte del vento chiudendosi nel silenzio inumidito di nebbia.

Proietta la sua chioma solitaria nel cielo bloccato dal freddo e libera le foglie in attesa di un arrivo.

Conta il tempo segnando cerchi nel tronco contorto dalla paura di un destino troppo a lungo solitario; un destino fissato in un filare isolato e cambiato un giorno dall’abbraccio di un bambino.

Segna con il cambio delle foglie, le stagioni trascorse in attesa del suo ritorno e scava il desiderio nello spessore dei suoi nodi induriti dal tempo dell’ attesa.

Attesa interrotta un’estate dal ritorno del bambino ormai adulto che, con un abbraccio, profuma il ricordo della sua fanciullezza, lasciata quel giorno in questo luogo, adombrato da una verde chioma.

Un abbraccio incrocio di due destini, quello dell’uomo che rompe radici per rincorrere le stagioni della vita e quello dell’albero che le affonda per resistere al perenne susseguirsi delle stesse.

Un abbraccio slegato dal futuro che tiene l’albero ancora lì fisso, per attendere il ritorno di quel bambino che un inverno ormai vecchio gli ricorderà le stagioni finite.


 

La finestra.

 

La finestra di una casa non viene costruita, ma viene lasciata. Rettangolare o quadrata, ampia o piccola che sia, la finestra sta lì sulla parete a guardare lo spazio che l’uomo le ha avidamente concesso.Il bambino le saltella a ridosso cercando di scoprire ciò che il muratore gli ha nascosto. La signora la copre con una tenda merlata per oscurare cio’ che lo stesso le ha lasciato. La vecchietta ascolta il rumore della pioggia i cui vetri le ostacolano l’entrata ma non la vista.La finestra è sempre lì, immobile ma viva. Chiama il vento che, soffiando, gonfia la tenda creando una danza fluttuante. Danza resa viva da un fascio di luce che, rifratto dai merli va ad abbagliare la pagina del libro, lasciato lì sul davanzale.Ti avvicini per ascoltare il suono proveniente dal cortile, urla di bambini e i passi di una donna che sta andando a soccorrere suo figlio, la cui caduta la brezza ti ha portato. Ti appoggi e senti il profumo del prato e l’ombra bagnata dell’albero che difende con paura il poco suolo rimastogli oscurandolo, dallo sguardo altrui, con la sua chioma. Ti perdi ed osservi cio’ che oggi ha cambiato colore, profumo e suono. La finestra partecipa ma sa che un giorno sara’ chiusa dal dolore; dolore che ti porterà ad accostare le persiane per poterti sedere in silenzio ad ascoltare il tuo pensiero fisso sulla parete costruita. Ma la finestra lo sa e così chiamerà l’albero, la cui crescita ha atteso e osservato da tempo. Chiederà all’albero di far sbattere un ramo per interrompere il tuo buio pensiero e così decidere di addormentarti, conservando il desiderio che il giorno dopo possa essere un giorno pieno di luce ma che potrai scoprire solo quando risvegliato, riaprirai la tua finestra.


 

Il Tramonto.

 

C’ è un istante in cui le pareti dai colori della terra e le mura dai colori della pietra cambiano la loro tonalita’. E’ un momento in cui le case si colorano di giallo e poi di arancione e infine di rosso. E’ il sole, il sole che saluta la sua città, che imprime il suo ricordo nella sua memoria, con la promessa che si tratta solo di un breve arrivederci. Un arrivederci che rattrista la stessa che, in attesa del suo rientro, si colora di buio. Triste si addormenta pallida sotto il chiaro di luna, si riposa col calore che il sole le ha regalato e che la notte le porta via. Ma la notte è breve e il ricordo del suo imminente rientro le rammenta di doversi svegliare, per essere così fresca e pronta ad accogliere nuovamente il suo calore e grata a colui che da secoli mantiene immutata la sua promessa.


 

L’erbaccia

 

Uno stelo giallo, come il sole a cui desidera arrivare,

si libera dalle punture delle spine selvagge.

Scala le nuvole che sporcano il blu turchese del cielo,

cercando di raggiungere la frescura del vento

che ripidamente corre per sfuggire al calore del sole

e così bagnarsi d’acqua di mare.

Dondola dall’alba al tramonto,

disegnando una danza che sprigiona la vita.

Danza che sarà presto desiderio d’immortalità,

sapendo del suo vitale destino,

interrotto dal caldo arrivo della stagione del sole.


 

L’acquario.

 

È un po’ come esser pesci. Ci sono pesci che vivono in mare aperto, liberi nelle scelte e nel movimento

ma con la potenzialità di poter venire sempre adescati in qualunque istante e luogo; e ci sono pesci che invece vivono in un acquario, un mondo ristretto ed artificiale. Vivono nella loro tranquilla e usuale quotidianità, si adagiano nel ricevere regolarmente il cibo che necessitano per vivere, senza grandi sacrifici. A differenza dei primi, non vivono col pericolo costante di poter finire imprigionati in una rete, ma solo perché loro vivono già in questa, anche se dalle sbarre invisibili. Una rete fatta di vetro trasparente e costruita ad arte dai pochi che hanno così il potere di decidere della loro vita, potendo

spegnere tutto da un momento all’altro.


 

La città di rocca.

 

Ombra blu che incupisce l’azzurro del mare indorato di sole.

Ombra umida che spegne i riflessi del tramonto disperso tra le onde infuocate.

Ombra tremolante di brezza che copre il rollio della barca in rada.

Ombra scura della sera che accende le luci dei palazzi.

Ombra buia di notte che spegne il giorno della città per metà roccia.