Marcello Quinta - Poesie e Racconti

Strade.

 

Quanta gente si ostina a deragliare.

Segue sin dall’infanzia

un percorso che poi smarrisce.

Tanti i binari: paralleli, 

distinti e infiniti.

Dovrebbero essere unici. 

Invece no! 

Progettati e studiati.

Perché non essere liberi

di seguire un percorso inimitabile?

La globalizzazione ben venga

per uno “scontro” culturale e idealistico,

e allora si che ci sarà un rendez-vouz!

Di quelli con i contro coglioni.

E il pensiero,

intriso dai fumi di alcol,

va ad un bel piatto di Mafe all’africana,

che mangi e non sai neppure scrivere,

o a quella fottuta salsa greca carica di aglio.

Se ricordi i maccheroni alla chitarra,

che la nonna stendeva 

per il pranzo domenicale,

viene la nausea a guardare

queste chips sulla tavola.

Essere se stessi.

Amare il prossimo e odiarlo.

Frequentarlo mentre vi frega

e si cerca di fregare,

ma da ammirare, 

odiare e incitare 

mentre lo si ascolta.

Ognuno può insegnare, 

chiunque ha da imparare.

Tutti dobbiamo sognare.


 

Ricordi.

 

Gennaio, mese rigido, calmo; settimane caratterizzate dall’inquieto incolore delle nevi. Giorni di lavoro, dove tutti a Castro provvedevano alla consistente provvista per l’inverno. Il tempo della macellazione dei maiali.

Castro, un ridente villaggio sdraiato sulle pendici di vette altissime. Case accollate l’una all’altra intente a non scivolare giù nella vastissima vallata. Gli allevamenti, i campi coltivati e i frutteti arredavano tutt’intorno mentre un lungo torrente, oltre a regalare sinfonia, ne incorniciava l’estensione. Tutto l’inverno, sotto una coltre rigida di neve, gli abitanti sfidavano le temperature più rigide riuniti tutt’intorno al focolaio, ad incrementare i gradi di calore umano. La legnaia sempre ben rifornita e la dispensa a fatica si vantava colma. I prodotti venivano lavorati durante la raccolta. In primavera, nella stagione dei pomodori, si procedeva con pelati e salse e fino ad autunno inoltrato gli ortaggi, i salumi, i formaggi e il frutto di mesi di duro lavoro rappresentavano la fonte principale di guadagno. Una minima indispensabile razione, invece, veniva lasciata per uso familiare.

L’uccisione dei maiali era ormai diventata una vera e propria festa di famiglia. Si lavorava tanto ma la compagnia delle persone care accantonava la fatica.

Alle prime luci dell’alba ci si radunava in dieci, quindici, tutti uomini forti e con esperienza da vendere. Pronti per afferrare, catturare, sostenere e sacrificare i quintali di carne che verranno poi in seguito disossati e lavorati dall’aiuto femminile.

Quanto lavoro nel tenere ben stretta la preda! Scene violente in cui ci si scagliava contro la bestia, e con cinture in cuoio ormai logore, bisognava bloccargli le zampe per poi, con un affilatissimo pugnale, colpire con un colpo secco alla gola. Ci si domanda infine: chi dei due è la bestia?! Ma nei primi anni del dopoguerra la fame alleviava tutti i sensi di colpa – d’altra parte il tutto rientra nella catena alimentare – 

Le donne, radunate in cerchio nel misero spazio, apparivano più disinvolte nelle loro attività. Nella casetta in campagna chiacchieravano, ridevano, cantavano, spettegolavano, senza mai però rubare del tempo al lavoro. Nei loro costumi una  gonna, confezionata con dieci metri di panno color verde scuro, presentava delle pieghe che scendevano perpendicolari al corpo, formando un decoro plissettato. Il corpetto, con un’unica bottoniera davanti, era impreziosito da larghe maniche che si restringevano, in piccolissime pieghe, sui polsi. Sul capo un piccolo turbante dal quale fuoriuscivano dei coloratissimi cordoncini in seta che, avvolti a spirale nei capelli intrecciati, ne adornavano il viso. Ogni colore richiamava una ricorrenza: bianco = matrimonio, blu/rosa = nascita in famiglia, nero = morte di un caro.

Maria spezzettava giganti pezzi di carne addossata ad un grosso tavolone. Francesca, seduta su un basso sgabello in legno ingolfata dal peso di tutta la stoffa indosso, lanciava in enormi secchi in latta arrugginita i pochi scarti e le ossa da dare in pasto ai cani pastori. Adele riempiva le budella, accuratamente lavate e ben sciacquate da Marina, di carne macinata salata e speziata a puntino da Giovanna e Anna, per realizzare collane di salsiccia. In disparte, silenziosa e presa dai suoi pensieri, Celeste lavorava il lardo. 

Una donna giovane, bella, vedova e con due figlie da mantenere. Aveva perduto il marito per una grave malattia polmonare quando le figlie avevano otto e dieci anni. Il lavoro, la fatica e i sacrifici per mantenere le due rette del collegio la estraniavano dalla mondanità. Molti i pretendenti che l’avrebbero ripresa in sposa ma la paura di un’ulteriore delusione l’aveva imprigionata nel suo cordoglio. Domestica della nobile famiglia De Carlis, prestava loro servizio dalle sette del mattino alle nove della sera. Sebbene il suo volto fosse sempre caratterizzato da un sottile velo di insoddisfazione e i suoi scuri capelli non si intrecciassero ormai da anni in seta vivace, tutto il giorno grintosa, dinamica e spigliata, lavava e stirava per il marito di un’altra donna e cucinava per i figli di un’estranea famiglia. Il pensiero costante vegliava sulle sue figlie distanti che, intanto, crescevano nell’autoritaria compagnia di suore.

Ignara dell’armonia che la circondava batteva, con ritmo ripetuto, forti colpi contro il pezzo di grasso al fine di sminuzzarlo e  ricavarne uno strutto morbido e cremoso. Ogni colpo infliggeva un ulteriore taglio, cancellando man mano la regolarità della base di appoggio. Le vibrazioni del legno picchiato e l’intensità, a volte, coprivano lo schiamazzo circostante. Maria, Francesca, Adele, Marina, Giovanna e Anna si lasciavano catturare da questi echi di rabbia liberati involontariamente nell’aria, cercando un pretesto per congelare il momento di imbarazzo. Erano tutti parenti, cugine, cognati, fratello, sorelle, tutti vittime del tragico momento. Seppur passati cinque anni c’era chi l’aveva dimenticato, chi voleva far dimenticare e Celeste che ne viveva ancora le conseguenze, fisiche ed emotive.

Oggi nel trambusto di periferia di una grande città, in umile bilocale al pianterreno, a centinaia di chilometri da Castro, una tavolozza circolare con manico è appoggiata nell’angolo in alto della cucina. Da anni ormai Celeste non ne poteva fare più uso e le figlie, i nipoti, la sua famiglia non ne avevano più bisogno. Tempi migliori! Tutti dal macellaio a rifornirsi di carne.

Se la si guarda seduti dal divano si ha l’impressione di avere davanti la figura stilizzata di un fiasco di rosso toscano. Se ci si sposta e si cambia prospettiva, ci si ritrova davanti ad una racchetta da ping pong, più spessa, pesante e resistente. Da un pezzo di ciliegio l’intagliatore rifinì la forma e la robustezza dell’accetta, rendendo la lama legnosa affilata e tagliente come quella in ferro. Ora anch’essa è adagiata lì, in obliquo, con la lama scheggiata, sulla superficie rotonda e luccicante della tavolozza. Quasi a voler rimembrare la simbologia di un regime che le aveva create. Ripulite, sgrassate, lustrate con vernice trasparente e spolverate continuamente compongono, insieme ad altre cianfrusaglie, un’atmosfera kitsch su un panorama moderno. Accarezzando la tavolozza si ha ancora la sensazione di unto e i polpastrelli ondeggiano sui segni dell’usura. Ogni solco la sua profondità in ricordo della forza, della repressione, del dolore e di quelle braccia possenti che maneggiavano l’accetta e la colpivano. Il cordoncino che fuoriesce dal foro, all’estremità del manico, ormai non ha più un senso. Non serve più appendere il battilardo tra gli utensili da cucina, riempie il vuoto di un angolo nelle vesti di un polveroso soprammobile. 


 

 

L’amicizia.

 

Che cos’è l’amicizia?

Una semplice parola,

un sentimento

o un luogo comune?

Tutti presi da questa parola. 

Oh no!, forse da questo luogo comune.

Il sentimento dunque dov’è?

Tutti amici nel momento del bisogno. 

E poi, 

per l’amico che risolve,

ascolta, 

propone, 

condivide…solitudine.

Lascia stare l’opportunismo 

e vivi il sentimento.

Ecco che torna! Non dimenticarlo.

Altrimenti sfugge 

e non rimane che solitudine.

Se quest’ultima non è contemplata

e vuoi ignorarla

pensa ai tuoi amici.

Non tradirli,

non mentirgli,

non lasciarli in silenzio.  

Quando lo meritano offendili pure.

Parlagli,

umiliali,

incoraggiali e ignorali

quando lo vogliono.

Ascoltali semplicemente.

Solo così potrai sapere cos’è 

quella fragile,

infima,

ostile, preziosa amicizia.


 

 

In una di quelle particolari giornate.

Solitamente, a quell’ora, la sala iniziava a svuotarsi. Eppure, alle tredici e venti di lunedì tre febbraio, avvocati, impiegati, studenti, pensionati e genitori con figli, erano ancora lì ad attendere un tavolo libero fuori dal  ristorante. Aspettavano pazientemente; nessuna nevrosi da stress, da preoccupazioni o da ansia per un ritardo. Cominciai a sospettare di aver dimenticato un giorno di festa. Mi imbronciai, al pensiero che potessi essere stato l’unico ad andare al lavoro.

In attesa di poter ordinare, sapevo già chi fosse tutta quella gente, per via  di parole, affermazioni e conversazioni, che coprirono il silenzio man mano che la sala si svuotava e si riempiva. Sentivo parlare di economia, di pensioni, di pannolini e di biberon. Alcuni, che polemizzavano  sui consueti e ben noti problemi del  lavoro, li ascoltai con più interesse; alleggerirono i miei inutili turbamenti.  Tuttavia, sbirciai il calendario ed ebbi conferma che era un lunedì come gli altri, anche se diverso. Rimaneva solo il dubbio di perché così tanta gente, in un giorno feriale e nella mia pausa pranzo.

In fondo alla sala, in un angolo vicino alla cucina, arginato dai tavoli intorno, gustavo la zuppa  all’indiana, con ceci e zucca, la mia preferita. Il brusio intorno andava sempre più aumentando e la tranquillità che sognavo in quell’ora non rimaneva che desiderarla al prossimo pranzo vegano. Mi consolava l’idea che il desiderio fosse realizzabile. Altre volte avevo gustato i sapori genuini del posto in un clima di totale serenità. I due camerieri sfrecciavano su e giù per la sala, pronti a rispondere alle esigenze dei clienti e fiduciosi sulla fine certa di una straziante giornata. Tavoli da due, quattro, otto persone. Tutti pieni. Davanti a me, due adolescenti, seduti uno di fronte all’altra, si stringevano le mani. I movimenti dei loro corpi, vicini anche se lontani, suggerivano un incontro amoroso.  Forse si guardavano negli occhi,  ma non ne avevo la certezza. Per via del ricciolone di spalle, riuscivo solo ad intravedere una ciocca di capelli rossi, naturali, che ondeggiava leggermente sulla guancia arrossata della ragazza. Parlava e sorrideva, lo intuivo dalla fossetta, l’unico tratto che riuscivo a vedere. Mi scottai per la distrazione. La zuppa era così bollente che bisognava soffiare su ogni cucchiaiata. In quell’istante, complice il bruciore, avrei inveito bestemmiando contro la tavolata alla mia sinistra. Faceva una caciara! Ma evitai persino di voltarmi. Con uno sguardo avrei svelato il mio fastidio di fronte al loro esuberante convivio. Non erano arrivati tutti insieme. Avevano preso posto, per primi, due giovani genitori, un po’ hippy, con un neonato, poi, un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta, subito dopo tre ragazze, con zaini e libri, reduci probabilmente da una lezione universitaria. E infine, occupando il posto a capotavola, era arrivato un ragazzo apparentemente timido. Non si conoscevano. Eppure chiacchieravano, ridevano e scherzavano come una comitiva di vecchia data. Non tutti però. Mangiavo l’ultimo boccone ormai freddo, quando mi resi conto che il ragazzo a capotavola, testa china sul piatto, ignorava le conversazioni dei  commensali. 

Il mio piatto era già vuoto; se non fosse stato per tutti quegli sguardi indiscreti, me lo sarei  leccato volentieri. Alzai la mano per ordinare dell’altro. La cameriera si avvicinò con il solito, regale portamento e un sorriso accattivante. Con tutta quella confusione, dovetti ripetere per ben tre volte la mia scelta. 

In una sala così piccola, era inevitabile ascoltare i discorsi altrui, ma anche conoscere i nomi di tutti i dipendenti. Marco, il cameriere, chiamava la sua collega: “MAa! MAa!”. Sarà stata forse MAanuela, MAaria, MAarta…? Non era poi così improbabile!

Avrei potuto chiederglielo. Il suo era un approccio informale e amichevole. Ma non lo ritenni opportuno, era troppo indaffarata. Ordinai un goulash di seitan e, nel distogliere lo sguardo dalla cameriera, incrociai quello del ragazzo apparentemente timido, silenzioso, seduto a capotavola. Mi fissava con i suoi occhi azzurri. Rasato, barba incolta, bionda e dal folto invisibile, labbra sottili e serrate. Proprio un bel ragazzo. Non capivo perché mi guardasse. Potevo piacergli? O ci accomunava uno stato d’animo? Forse anche lui sognava una situazione pacata.

Distolsi lo sguardo per un improvviso rumore metallico. La ragazza pel di carota dirimpetto, china vicino al mio tavolo, raccoglieva la forchetta scivolatale. Accennò un sorriso timido, reverenziale. Due passi felini, ed era di nuovo seduta al suo posto; nascosta, ancora, dietro la cesta riccioluta del suo presunto fidanzatino. Notai delle lentiggini sul suo piccolo naso, gli occhi color nocciola, ma lucidi e arrossati. Rideva o piangeva?

Non so per quale preciso motivo, promisi a me stesso che avrei ignorato gli sguardi, piacevoli e intimidatori, del ragazzo silenzioso, ma non tanto timido, seduto a capotavola. Mangiavo il goulash, e, nel cercare distrazione, notai un uomo, che, come me, sedeva da solo ad un tavolo per due, in fondo alla sala. La miopia, meschina, mi impediva di mettere a fuoco lo strano personaggio solitario, pensoso e impaziente, visto che nell’attesa del suo pasto, gomito sul tavolo, guancia abbandonata sulla mano e sguardo fisso, continuava a tamburellare le dita contro la faccia. Continuai a guardarmi intorno. I quadri che adornavano la sala, le calde sfumature del rosso e dell’arancio sulle pareti e le note di new lounge in sottofondo per un istante mi rapirono; ma i continui “MAa! MAa!” di Marco, il cameriere, mi riportarono subito alla realtà.

Il titolare del ristorante se ne stava ozioso dietro il bancone. Sembrava accaldato, agitato: si sventolava e si massaggiava continuamente la fronte. Non era poi così caldo lì dentro; restai tutto il tempo con la sciarpa intorno al collo. 

Ordinai il caffè. La cameriera “MAa!”, mi consigliò di prenderlo con del miele e del cardamomo. Mentre la polvere di spezia si scioglieva nella calda bevanda, non tradii il gusto amaro del caffè e rifiutai il miele. “MAa!” accettò il compromesso, ma con un sorriso rigido. Sembrava preoccupata, si era forse offesa?, o, per la stanchezza, aveva perso la spontaneità nel sorridere? La seguii con lo sguardo, preso dai dubbi, sollevato di poter finalmente lasciare quella situazione infernale, e afflitto dall’idea di dover rientrare al lavoro. “MAa!” mentre camminava verso il bancone, tirò fuori qualcosa da sotto il grembiule, per consegnarla all’uomo solitario in fondo alla sala. Aguzzai la vista più che potevo, ma senza occhiali vidi tutto sfocato e appannato. Forse era una semplice forchetta. Ma perché non appoggiarla sul  tavolo? Nel dubbio, pensai che fosse arrivato il momento giusto per andarmene. Mi alzai e, con un ultimo sguardo, salutai il ragazzo silenzioso a capotavola. Chissà? Forse l’avrei incontrato di nuovo.

Sbirciai, curioso, il viso del ragazzo riccioluto, – “Che brutto! Lei è così carina!” – , pensai buttando gli occhi sul pavimento, mentre mi chiedevo se, per gioia o dolore, valesse la pena versare lacrime per lui.  Tra la confusione dei tavoli, attraversai il breve corridoio per raggiungere il registratore di cassa. Sentii un fremito percuotermi la schiena, nel momento in cui la mia mano, accidentalmente, colpì la spalla dell’uomo solitario, mentre gli passavo accanto. Pagai il conto, intimorito dallo sguardo distratto del titolare, e, nell’attesa dello scontrino, la sensazione che, prima o poi, un colpo di pistola sarebbe partito alle mie spalle, mi perseguitò a mo’ di spettro fino alla porta. Fuori dal ristorante, attraversai l’accozzaglia di persone ancora in attesa per svoltare a sinistra. Feci un sospiro di sollievo, nevrosi da stress, da preoccupazioni o da ansia per un ritardo dovevano essere solo un mio problema, pensai, e affrettai il passo per non arrivare tardi in ufficio.


 

Il più bel ricordo di Anna.

 

In quella stanza c’era sempre molta luce. Un ambiente piccolo, ma caldo e accogliente, dove l’anziana donna trascorreva in solitudine le giornate. Seduta sulla poltrona, la solita, quella vicino alla finestra. Quante esperienze! Belle e brutte. E non era affatto dispiaciuta di ricordarle e di condividerle con chi passava da lei per un celere saluto. I più non avevano mai girato per il mondo, non avevano sofferto o gioito per diverse storie d’amore, non avevano svolto con orgoglio ogni tipo di lavoro, anche il più umile. Non avevano vissuto una vita così intensa e ricca di emozioni. Aldilà di quella vetrata, gli intensi colori, i profumi naturali e i suoni vivaci delle colline toscane facevano da cornice alla tela dei ricordi: la morte poteva continuare a restar lì, in disparte, sola nella sua impaziente attesa. Che brutta bestia! Il solo pensiero, sin da giovane, le aveva dato il volta stomaco. Ora bisognava affrontarla. Ma gli occhi non volevano spegnersi: un pettirosso che cinguetta sul davanzale della finestra, la pioggia battente, una foglia spinta dal vento a volteggiare libera nell’aria,  la potenza, la fretta di un fiume in piena ancora l’inebriavano. Finché li si può vedere, percepire e ascoltare, si è in vita, ripeteva ogni volta a conclusione di un racconto. Parlava spesso e volentieri di Mario, il suo ricordo più bello. Lo aveva conosciuto a diciassette anni. Lei lavorava nel forno dello zio materno, e un giorno lui passò per ritirare una consegna. Da allora, ogni mattina, una pagnotta appena sfornata era il pretesto per conquistare la ragazza che aveva catturato il suo cuore. Era un ragazzo bellissimo: slanciato, snello, spalle larghe e braccia possenti. Un caschetto moro, mai in disordine, e una frangia, morbida e liscia, che dava risalto alle sfumature verdi dei suoi occhi color nocciola. Il suo era uno sguardo sicuro, sincero, che colpiva dritto al cuore. Un messaggio profondo, pieno di speranza, di fronte al quale  non si poteva resistere. 

Cos’è l’amore? si domandava. Chi può mai dispensare giusti consigli? La gioventù, in fin dei conti, deve essere pur vissuta.

Fu la prima in paese a rifiutare la proposta di un ragazzo così promettente: non era solo bello e gentile, aveva un buon lavoro e guadagnava un bel po’ di soldi, aveva già una casa, e veniva da una delle famiglie più rispettabili della zona. Non fu una scelta facile, ne era innamorata. Ma aveva già deciso di partire. Con la paura di rimanere sola, ma con la curiosità di scoprire le sorprese che la vita riserva.

Arrivata a New York dopo ventotto giorni e ventisette notti trascorsi sulla “COAST ATLANTIC”, l’aspettavano la zia paterna, il marito e i due cugini di quattro e sei anni. Sulla banchina del porto, immersa in una folla di persone, cercava invano di focalizzare il ricordo di volti ormai cambiati, com’era cambiata anche lei, ma sperava che almeno loro potessero riconoscerla. Vieni qui, urlò la zia da dietro, quanto sei cresciuta, e l’avvolse in un caloroso abbraccio. Salutò lo zio, si presentò ai piccoli, mentre sperava che il più grande conservasse un suo ricordo: come avrebbe potuto, aveva solo un anno l’ultima volta che si erano visti. L’accolsero nella loro casa, non grandissima, ma con una stanza in più, tutta per lei. L’aiutarono a trovare un lavoro e le fecero conoscere la nuova città: enorme, piena di cemento, di altissimi palazzi, con strade affollate, rumorose e piene di luci; e il confronto con la naturale quiete delle adorate colline, dava spazio a ricordi nostalgici. 

Incominciò a lavorare in una drogheria come commessa. Il proprietario, dal bizzarro accento inglese, era sempre gentile e molto disponibile. Ogni volta che si presentavano ostacoli con la lingua, lui, pazientemente, ripeteva una, due, tre, anche cinquanta volte, e lentamente, la stessa richiesta. Nei mesi che seguirono, i ritmi di una vita nuova, in una città frenetica come New York, cancellarono velocemente le vecchie abitudini e sentimenti ormai remoti. Nei momenti di solitudine, era un piacere rileggere le lettere che arrivavano dall’Italia. La mamma, ad ogni saluto, trascriveva sempre le sue raccomandazioni, ricordati che qui siamo al paesino, Anna. Non bisognava, dunque, creare alibi ai pettegolezzi. Quelle del povero e disperato Mario, invece, suggerivano pensieri confusi, ripensamenti, immagini del ragazzo nel piccolo borgo della lontana Toscana, solo e in continua attesa. Parole cariche di risentimento: non avrebbe più dovuto avere certi pensieri. Era andata com’era andata. Come doveva andare.

Mentre rileggeva quelle lettere, provava tristezza anche per il ragazzo irlandese appena lasciato. Si erano conosciuti tre mesi prima, ma lui ci provava sempre con le altre ragazze. Prima ancora aveva conosciuto un canadese. L’aveva sopportato tre settimane, non faceva altro che parlare di sé. Conobbe anche un americano, un francese e tanti altri nel solito pub sulla Seventh Avenue. Era, senza dubbio, difficile trovare l’uomo dei sogni, ma la vita andava avanti. Ed ogni nuovo giorno si arricchiva di esperienze, realtà e vissuti, mentre nel piccolo borgo sarebbe stata solo moglie e, probabilmente, già mamma. 

In quella stanza ci sarà sempre molta luce. L’ambiente piccolo, ancora caldo e accogliente, oggi è intriso di parole, racconti e ricordi di una vita fatta di scelte azzardate, ma volute. La poltrona, la solita poltrona, quella vicino alla finestra, sarà sicuramente occupata da una nuova ospite della casa di cura. Forse guarderà anche lei oltre quella vetrata, mentre il vento spazza via le foglie e un pettirosso, appollaiato sul davanzale, cinguetta.


 

Post scriptum.

 

Tutto invariato!

Tre settimane, tutto scompare.

Negligenza al limite,

suffragio di folli sentimenti.

Nostalgie confuse,

conferme indelebili.



L’ospite.

Io e te ci conosciamo ormai da un po’ di tempo. Credo che questa sia la prima volta che ti presto attenzione. Quando passo da qui, lo sai, mi fermo pochi minuti, giusto il tempo di salutare i miei amici, nonché tuoi…come definirli? …tuoi coinquilini. E spesso, tra noi, il saluto sta in uno sguardo. Non ti nascondo, però, di conoscere la tua storia. Vittorio ed Elisabetta me l’hanno raccontata.

Immagino, che per te non sia stato facile affrontare tanti cambiamenti in così poco tempo.

Conosco il mio amico e la sua compagna. Sono brave persone. Qui puoi stare tranquillo.

Beh! Sicuramente molto più che con le zie. Ma come hai fatto a sopportarle tutti quegli anni? Con tutto il rispetto e “pace all’anima loro”! Però, già dividere una casa con due sorelle, ormai anziane, zitelle, costrette a vivere sotto lo stesso tetto, è una bella sfida. In più, dovevi sopportare i loro litigi dalla mattina alla sera. 

I racconti di Vittorio, sulle sue zie, li ho sempre ascoltati con molta attenzione. Affascinano a tal punto che spesso, nelle nostre serate, tornano. Mentre il racconto prosegue, ho davanti a me i luoghi, i discorsi e i personaggi. Tante immagini reali, ma che prendono forma con la mia immaginazione. Tra queste, c’è una che le ritrae al mattino, sedute alle estremità di un lunghissimo tavolo, imbacuccate di gioielli e bigodini, costrette all’ennesima e monotona giornata. 

Se non ricordo male, ti avevano sistemato nella stanza al centro del corridoio. Vittorio cita spesso quel lunghissimo corridoio. In fondo, c’era un’imponente colonna in marmo e sopra vi era appoggiato un pregiatissimo vaso di una preziosa ceramica. Ogni volta che con i suoi cugini, da piccoli, lo percorrevano di corsa, l’urlo di almeno una delle due zie, “ATTENTI AL VASOOO!”, risvegliava persino l’animo degli avi. Figuriamoci le urla di entrambe!

Mentre loro giocando correvano, urlavano e saltavano in allegria, tu te ne stavi in solitudine, inerme, addossato contro la solita parete, a fissare, con uno sguardo di sbieco, la tua vita incorniciata in una stanza grigia.

Orfano di madre. L’altro che ti ha messo al mondo decise di sbarazzarsi di te per via di seri problemi economici. Un bel giorno, disperato, cominciò a colpire con insistenza i battenti di tutto il vicinato. L’unico portone che si aprì fu quello delle due sorelle. Ti presero subito a cuore. Lui ti affidò a loro in cambio di denaro. Una grossa somma. A quanto pare fece un buon affare!

La tua fragilità prevedeva molte cure e attenzioni, e le due, tornando ad avere uno scopo nella loro ormai inutile vita, iniziarono a bisticciare dal giorno del tuo arrivo. Entrambe pretendevano di accudirti personalmente e, per questo, ognuna ti voleva nella propria stanza. Hai cominciato a stare un mese con una e un mese con l’altra, ad essere scarrozzato da una stanza all’altra. La gelosia, anziché sparire, si alternava. Le discussioni aumentarono, ma, per tua fortuna e per il loro quieto vivere, si convinsero di sistemarti in una stanza tutta tua. Purché, fosse vicina a egual distanza dalle loro camere da letto. Da quel giorno, siete riusciti a godere di un sereno clima familiare. Mentre ti accudivano, rispettavano il tuo silenzio e contemplavano la tua bellezza; anche se spesso criticavano l’imperfezione del tuo naso. Cosa che ho sempre trovato assurda!

Maturarono una particolare devozione nei tuoi riguardi: credo che il desiderio di possessione le avesse completamente rapite. Perché in casa, in un lampo, tornarono i litigi.

Sai come le immagino? 

Sedute alla solita distanza, tazza di tè caldo in mano, che si osservano, intervallando piccoli sorsi a profondi soffi, mentre il vapore, a tratti, nasconde gli sguardi. Nell’istante in cui la ceramica, col merletto e lo sbaffo di rossetto, poggia sul piattino annunciando il suo “TING!”, iniziano a sbraitare. Mattino. Imbacuccate di gioielli e bigodini.

Non vorrei sembrarti cinico. Però mi chiedo: perché queste due avevano così tanto interesse per te? Purtroppo non cammini, non parli da che esisti e, per quanto tu sia alto e grosso, deve essere anche impegnativo occuparsi di te (…poi vanno pure a lamentarsi del tuo naso!). Scusa se lo dico, ma solitamente in questi casi non ci si azzuffa per vincere il premio. Mi viene il dubbio che nemmeno sapessero qual è il tuo martirio. Però, sono sicuro che dovevi valere molto per loro. Chissà quale eredità nascondi? Vittorio non ha mai saputo dirmelo. Probabilmente un tabù di famiglia. Comunque sia, io “’ste qui”, oltre che ricche e imbacuccate, le ho sempre immaginate due belle furbette. Nell’accudirti sono state impeccabili. Ma non le perdonerò mai per averti costretto a cambiare profilo. Che bisogno c’era, infine, di raddrizzarti il naso? Non so tu. Ma io, sinceramente, sono stato sempre contrario a questi tipi di interventi. Come si può cambiare l’immagine che c’è stata data? Bisogna accettarsi per quello che si è!

Le care zie in questo sono state perfide. A Vittorio non l’ho mai detto, ne parla così bene. Ha un bel ricordo di loro, seppur venute a mancare ormai da anni. 

…Anni?! E tu, quanti ne avrai?

Ricorda la loro austerità, ha sempre temuto i loro rimproveri, però non dimentica mai quei rari e semplici gesti con cui dimostravano tutto il loro affetto.

Gli lasciarono in eredità alcuni mobili che arredavano quella lussuosissima casa. Quest’elegante credenza in noce che c’è alla tua destra. Adoro le sue decorazioni barocche a grappolo d’uva. Non le avrei mai potute immaginare così. Oggi viene usata come dispensa, chissà prima? Sopra Elisabetta ci conserva delle scatole vuote. Più la pila di scatole aumenta, più Vittorio lamenta il disordine della sua compagna. Tra tutte quelle scatole c’è un vaso in ceramica. Sarà mica quello pregiatissimo? E il sostegno in marmo dov’è? Dovrò chiedere conferma ai ragazzi quando rientrano. Eh già! Sono in Liguria per un fine settimana al mare, ed io, prese in prestito le chiavi, mi godo l’ospitale solitudine della loro casa in città.

Tra gli altri doni, vedo anche il tavolo quadrato della cucina, la cassapanca intarsiata, quattro sedie in legno con imbottitura in crine verde palude, i piatti in ceramica appesi lì al muro, un lampadario di cristallo, un candelabro. E infine ci sei tu. Proprio di fronte a me, che sono comodamente seduto sul divano.

La credenza ha appena scricchiolato. Per i miei amici la lotta contro le tarme è dura. Però, l’amore per questi mobili e il ricordo delle zie contrasta ogni battaglia. Questo conferma la giusta scelta nell’affidarti a Vittorio: insieme ad Elisabetta ti saprà ben accudire. Ti hanno ospitato nella loro casa, che è più piccola rispetto a quella delle zie, ma è tanto accogliente e con un clima sicuramente più gioviale. Qui, nella tua stanza, la parete è di un bel giallo, caldo e avvolgente.

Che ora si sarà fatta? Bizzarro, lo chiedo a te pur sapendo che non puoi rispondermi!

Conosco tutta la tua storia e non so neppure qual è il tuo nome. Sapessi quant’è amareggiato Vittorio con le zie per questo. Non hanno mai detto a nessuno quale santo raffiguri. Forse non lo sapevano neanche loro. Con Vittorio ed Elisabetta, incuriositi, abbiamo provato a fare delle ricerche su di te, ma senza alcun risultato. Inoltre, il nome del tuo pittore sulla tela non si legge più e quella pennellata per raddrizzarti il naso, poi, di certo non aiuta. 

Aspetta un attimo. Il tuo valore sarà mica cambiato per questo? Mah! Chissà?

Sono le quattro del mattino. Si è fatto tardi. E’ meglio che io vada a dormire.


 

 

Scrivere.

 

Sentimenti repressi,

come brina al sole,

si sciolgono

e navigano nel mare delle incertezze

per raggiungere le coste dell’io.

Rapiti da una mente stanca

e sollevata

riempiono pagine che, 

seppur linde,

sono pronte 

ad accogliere 

il mio universo.


 

Monday mood.

 

Lividi che percuotono.

Macchie che evidenziano.

Stati che sottolineano.

Umori che aleggiano.

Sensazioni che sfumano.

Carezze che sfuggono.

Schiaffi che feriscono.

Umiliazioni che incoraggiano.

Vuoti che incombono.

Germe infetto.

Emozioni ignorate.

Gente violata.

Norme inviolate.

Strade separate.

Umanità distrutta!


 

La sua storia.

 

- Undici mesi ho fatto lì! – Ripeteva tutto d’un fiato ricordando i via vai sotto quei ponti. 

Un’offerta e iniziava la svendita. Chi per un lavoro di idraulica, altri come inservienti in case private e la maggior parte per il duro raccolto nei campi. 

Prostituzione a caro prezzo. Schiavitù e guadagno. E gli accordi non avevano mai fine.

Meglio che per quelle strade a difendersi da chi esorcizzava l’umiliazione provocando il dolore impostogli.

Boati, schiamazzi, atti di bullismo e tutt’intorno corpi.

Terra arsa, il sangue la disseta.

Il  giorno, caldo e interminabile, lo passava sui campi. Tanta fatica per pochi spiccioli, poco riposo per arrivare alla somma che lo avrebbe allontanato da quell’inferno. 

La notte, cruda e lenta, lasciava spazio a ricordi malinconici di una partenza priva ormai di meta.

Solo, nascosto tra i cespugli, poteva trovare rifugio nel ricordo dei suoi amici e superare così ore buie e mai silenziose.

- Eravamo in sette – lo pronunciava rivolgendo lo sguardo dentro se stesso. 

Giorni, settimane… chissà da quando non li vedeva.  

Il tempo sembrava essersi congelato in una realtà parallela al mondo intero, annullando le origini. La paura, i perché, l’interrogarsi sul dove e quando indeboliva visibilmente il suo corpo. 

- Il quotidiano era orrore! Triste nostalgia di una vita libera senza un segno di Dio. – , sparito in quella parte di mondo chiamata Libia.