Marco Spinicci - Poesie e Racconti

Il mio stare

 

Quando non piove io sono la pioggia

e rappresento l’acqua del cielo,

quando il ramo si denuda

e diventa solitario

io sono le foglie perse

da me riconquistate nel cuore,

quando la piazza si svuota di gente

io sono i gesti e le voci

che animavano le membra,

quando i vestiti si posano sugli attaccapanni

io sono i loro corpi disinvolti

che cercano nuovi movimenti,

quando la scatola dei cibi si svuota

del suo contenuto

io sono quel cartone dimenticato

che finisce in una pattumiera

e viene riciclato poi insieme a tanti,

quando nelle mie unghie vedo il graffio

che feci per afferrarmi e tirarmi su

alla scoperta della nascita

io sono mia madre che ancora oggi in me resiste:

quando sembra ancor più’ nulla

il divenire frastornato del tempo

tutte le assenze del mondo porto

nella mia presenza

e infinito diventa allora il mio stare.



La notte

 

La notte mi ha insegnato

a chiudere gli occhi

e ad aprire il cuore,

proprio come ci si affida all’amore.

La notte e’ un mistero rassicurante

e più’ e’ profonda

più’ parla all’infanzia del mondo,

partorisce la materia prima

di cui poi s’impasta il giorno.

La notte ci rende

affamati di sogni

perché’ di leggende

son fatte le stelle

e all’alba il suo mortale

di respirati petali

rotola indietro di rimbalzo

fino a ricomporre vite.

E’ leggera la sua grana

ma mai logora di strappi

e nel nascosto silenzio del mio cuore

l’aspetto sicuro

come un omerica tela.



A mio padre

 

Ti vedo così’ senza più’ le ali

per difendere i tuoi sogni

e senza più’ i movimenti

che sancivano la vita dei tuoi pensieri.

Inerme come una polvere

che si abbandona al vento

o un riflesso di sole che cede

se’ stesso all’acqua

prima della dimenticanza.

Mi sfugge la velocità’ della morte

quando la vedo immobile,

non so se ribellarmi a questo tonfo

di suoni che sono caduti a terra

o assistere stupefatto

al passaggio senza capirlo.

C’è’ un silenzio di selva

intorno ai tuoi capelli

e un pianto di conchiglia

nel tuo riposo di sabbia.

Le falangi prendono

il velo dell’invisibile

e lo calano per nascondere

i tuoi prossimi passi aerei:

così’ i miei vedo sempre più’ nitidi

e per questo

e’ il tuo farti da parte che resta.



Diversa e’ la lunghezza

 

Perderemo lo scudo, ne sono certo ,

prima che la neve si sciolga,

quella caduta dagli alberi del cielo

come foglie dal palpito lieve.

Faremo delle nostre rughe crepe di salvezza

che a passarci la mano si solleva facilmente 

l’immagine dimenticata.

Faremo passaggio ai figli scostandoci piano piano

come il silenzio e’ ombra di musiche

che rimangono in un diverso sangue

e aprono minerali da sconosciute pietre

e riempiono di facile guizzo ciò’ che ossidava la mente.

Perdere le difese sarà’ fragile imbevuto di amore coriandolo,

neanche preparati ad alitarvi il cuore.

Sarà’ che quelli che ci precedevano

dovevano proteggerci ma nell’adesso di un sfogliarsi del cielo

ci hanno lasciato in testa al plotone,

e guardiamo i fiori e vi vediamo immense praterie

e tocchiamo la goccia stendendola come un infinito mare

e ripariamo le crepe dei muri perché’ ora c’è’ mestiere il ricordo.

Si è’ genitori ma piano piano si perde il nostro essere figli

e allora sentiamo dentro diversa la lunghezza

e si vede dall’argine di rughe

l’anima finalmente nella sua interezza.


 

La fiaba che è’ in noi

 

La fiaba scava le grotte della fantasia

e come le immagini di nuvole 

ci fa sentire gli arcani del cielo.

Perché’ le cose piccole abbiano grande luce

occorre aprire sentieri nei nostri nervi,

scalfire la carne fino a divaricarne le fibre,

scuotere le parole

perché’ siano temporali e spighe,

accendere di un buio nuovo gli occhi accecati,

spaventare di silenzio

il peso del rumore assordante,

arrivare dove il lavoro del sorriso

impregni di schiuma la fatica

e faccia delle lacrime

il bagnato fecondo dell’istante.

Ci destinano ancorati al muro invalicabile

mentre le piccole cose ci aspettano ,

il tenero di una carezza,

il passare del caffè’,

un saluto e una parola , un colpo di vento,

l’aprirsi di una persiana,

una melodia , il saltello della ranocchia,

la luce del tramonto

che respira sulle case:

tutto questo è’

la fiaba che è’ in noi .


Nelle mie tasche

 

Io metto volutamente

nelle tasche dei pantaloni

piccole cose:

una caramella, una moneta,

una pietruzza, una bacca dal colore acceso, 

un biglietto con scritto

“sii gentile con te stesso e con gli altri” oppure 

“la bellezza e’ nel cuore di chi osserva “

o “trai ispirazione dalla sconfitta”

o ancora “respira profondamente

finche’ i profumi entreranno in te”.

Così’ frugando nelle pieghe della mia vita 

mi candido per una sorpresa , 

e rammento che il posto più’ sicuro

per l’inaspettato che spera

e’ proprio il luogo

dove vivono le mie mani e il mio pensiero.



Il tuo sbatter lieve di palpebre

 

Quando il tuo sbattere lieve di palpebre scorgo,

l’anima tua vuole uscire

a fare compagnia alle farfalle

e si posa sulle distanze delle nuvole

e fa crocevia di sembianze

che mi ritornano in eterno fiorire.

Pensa cosa può’ fare la tenerezza

che trasuda dall’aprire e richiudere

in uno snodarsi di attimi,

nascita e morte , sole e buio, speranza e delusione,

abbracciarsi e lasciarsi, vincere e ritirarsi,

gioire e rattristarsi, viaggiare e fermarsi…

e non è’ altro che il tuo pensiero a svelare

non è’ che il brillare in cui

vedo la bambina ancora viva

e le sue gocce spremute dalla vita.

Forse per questo sono accanto a te,

li’ dove il provvisorio diventa eterno,

perché’ in quello sbatter di palpebre non fuggo,

non mi aliena il correre del tempo,

e le domande ferite dalle mancate risposte

più’ non lasciano, scuotendomi,

il senso inesorabile del vuoto,

perché’ tu mi unifichi,

nel tuo dolce esistere,

in quel fibrillante anelito di coagulazione.


Il ramo nudo

 

Il ramo nudo ha dell’inverno

stringhe invisibili allacciate.

Si spoglia di foglie per ascoltare,

così fa il ramo nudo.

Senza vestiti che addobbano l’essere

è teso all’aria 

e respira nella calma del legno,

fermo di silenzio

e in ascolto del sole ancora lontano.

Offre l’appoggio al merlo

cedendo appena al peso della sua brevità.

Solo quando si sveglierà

in un crescendo di velocità

d’acqua e di sole,

con il buio intermittente della notte

come tempo di quiete,

arricchirà di colori e di profumi

l’assoluto intorno.

Nello stare, ora aspetta

il giusto fare dei giorni.


 

La riga di luce

 

 

La riga di luce sotto la porta

mi soffia la tua presenza al mattino

mentre io al di qua,

faccio capire al buio

che tu sei la luce incomprimibile,

tu sei come i bordi della tazzina

che diventano essi stessi liquidi

perchè incapaci di fare prigionieri.

Le foglie in balìa del vento intanto

hanno preso il freddo

e sciamano come stormi

disperdendolo ovunque.

Tra poco la riga si spalancherà

nel tuo sorriso

e tu uscirai fuori

a confortare il disperso autunno.


 

L’attesa

 

Le nuvole erano navi che solcavano il cielo. La campagna sembrava finire a quella che era stata una casa colonica e si buttava in mare, come l’ultimo avamposto prima dell’eterno. Era una casa disabitata ma gli olivi intorno la rendevano ancora accogliente: erano i testimoni e i custodi di un tempo passato,che si muoveva ancora in armonia col lavoro del sole. Le pietre invece silenziose, rimanevano più solitarie e  acquattate, apparentemente non partecipi di quello che cambiava intorno. Ricordo la bicicletta appoggiata al muro, sul fianco della casa che dava a nord, una di quelle bibiclette un po’ arrugginite che parevano viaggiare ancora per scommessa. Le pareti esterne della casa erano mangiate dalla salsedine, dall’acqua e dal sole, scrostate e crepate, come il viso di un vecchio. Giulio arrivava dai viottoli che, in fuga, si lasciavano dietro la statale e dimenticavano la sua modernità un po’ straniera e confusa. Mentre lottava con sassi e zolle per evitare la caduta, pensava alla sua Margherita che abitava là, in quella casa. Io lo sorpresi un giorno mentre, col mio cane, facevo un giro a piedi a prendere il primo calore primaverile. Era intento a scrutare l’orizzonte sul mare, con un legnetto tra i denti, le braccia dietro la schiena, una fierezza tenace ma , al tempo stesso, dolce. Era un uomo sulla settantina, magro con capelli bianchi, lunghi, poco curati, un’espressione malinconica sul volto. 

“Aspetto la mia Margherita” disse rivolgendosi a me, con una voce che sembrò confondersi col fruscìo del vento nei corridoi tra gli olivi.Lì per lì non capii:pensando alla casa diroccata che era alle nostre spalle, mi parve strano che aspettasse qualcuno. Vista la mia faccia interrogativa, lui capì che mi doveva delle spiegazioni e guardando il mare con le ciglia aggrottate continuò a parlare.

“Se n’è andata da qui” e mi indicò con un ampio gesto del braccio tutto il terreno vicino che comprendeva anche la casa. Nei suoi occhi si illuminarono le scene di quando quel luogo era abitato e la vita era scandita da gioie e dolori, noie e passioni, nei ritmi pigri e caldi delle estati, nelle decadenze smagrite degli inverni che riposavano lasciando in sospeso il fervore della terra.

“E qui ritornerà per prendermi e portarmi via, con sè. Sospirò e io stetti immobile a guardarlo mentre lui non staccava gli occhi dall’orizzonte. Lontano la calma del mare aveva avuto il sopravvento e le onde se ne stavano nel suo ventre, anche loro in attesa. La giornata invitava all’ascolto di un silenzio disteso, rotto solo in lontananza da qualche auto che passava sulla Statale.

Mi misi anch’io, senza parlare, a guardare il mare in attesa di capire la stranezza di quell’uomo abbarbicato al passato. Anche il cane si fermò e si mise accucciato guardandomi con un’aria interrogativa. 

“E’ il tempo dell’attesa, il mio, sa? Ma forse tutto è un’attesa nella nostra vita, a pensarci bene. Margherita camminava tra questi olivi…poi ha spiccato il volo.”

Allora mi si chiarì d’un tratto l’incontro, la presenza di quell’uomo vecchio e malinconico: era stato lasciato dal suo amore, forse per la morte della donna.

“Ci viene spesso qui?” chiesi senza che la mia curiosità violasse le sue parole.

“Tutte le settimane, da trent’anni”rispose Giulio. “Mi è toccato di sopravvivere, che vuole farci…”

Una smorfia sul mio viso lasciò trapelare il mio stupore mescolato ad ammirazione e tenerezza. Vedendo il cane che si era spostato verso il viottolo, mi spostai, avrei voluto dire, avrei voluto chiedere ma lasciai all’indeterminatezza il compito di costruire l’ombra di un passato che quell’uomo mi aveva fatto vivere per pochi minuti. Stringendogli la mano presi congedo con un sorriso. Ci scambiammo il nome come per accordo tacito a non dimenticarci. Sul mare un battello solcava la tavola blu come fosse l’unico passeggero di un autobus: a quale fermata scendere? Cosa avrebbe soddisfatto la sua esigenza di eterno?