Il mio stare
Quando non piove io sono la pioggia
e rappresento l’acqua del cielo,
quando il ramo si denuda
e diventa solitario
io sono le foglie perse
da me riconquistate nel cuore,
quando la piazza si svuota di gente
io sono i gesti e le voci
che animavano le membra,
quando i vestiti si posano sugli attaccapanni
io sono i loro corpi disinvolti
che cercano nuovi movimenti,
quando la scatola dei cibi si svuota
del suo contenuto
io sono quel cartone dimenticato
che finisce in una pattumiera
e viene riciclato poi insieme a tanti,
quando nelle mie unghie vedo il graffio
che feci per afferrarmi e tirarmi su
alla scoperta della nascita
io sono mia madre che ancora oggi in me resiste:
quando sembra ancor più’ nulla
il divenire frastornato del tempo
tutte le assenze del mondo porto
nella mia presenza
e infinito diventa allora il mio stare.
La notte
La notte mi ha insegnato
a chiudere gli occhi
e ad aprire il cuore,
proprio come ci si affida all’amore.
La notte e’ un mistero rassicurante
e più’ e’ profonda
più’ parla all’infanzia del mondo,
partorisce la materia prima
di cui poi s’impasta il giorno.
La notte ci rende
affamati di sogni
perché’ di leggende
son fatte le stelle
e all’alba il suo mortale
di respirati petali
rotola indietro di rimbalzo
fino a ricomporre vite.
E’ leggera la sua grana
ma mai logora di strappi
e nel nascosto silenzio del mio cuore
l’aspetto sicuro
come un omerica tela.
A mio padre
Ti vedo così’ senza più’ le ali
per difendere i tuoi sogni
e senza più’ i movimenti
che sancivano la vita dei tuoi pensieri.
Inerme come una polvere
che si abbandona al vento
o un riflesso di sole che cede
se’ stesso all’acqua
prima della dimenticanza.
Mi sfugge la velocità’ della morte
quando la vedo immobile,
non so se ribellarmi a questo tonfo
di suoni che sono caduti a terra
o assistere stupefatto
al passaggio senza capirlo.
C’è’ un silenzio di selva
intorno ai tuoi capelli
e un pianto di conchiglia
nel tuo riposo di sabbia.
Le falangi prendono
il velo dell’invisibile
e lo calano per nascondere
i tuoi prossimi passi aerei:
così’ i miei vedo sempre più’ nitidi
e per questo
e’ il tuo farti da parte che resta.
Diversa e’ la lunghezza
Perderemo lo scudo, ne sono certo ,
prima che la neve si sciolga,
quella caduta dagli alberi del cielo
come foglie dal palpito lieve.
Faremo delle nostre rughe crepe di salvezza
che a passarci la mano si solleva facilmente
l’immagine dimenticata.
Faremo passaggio ai figli scostandoci piano piano
come il silenzio e’ ombra di musiche
che rimangono in un diverso sangue
e aprono minerali da sconosciute pietre
e riempiono di facile guizzo ciò’ che ossidava la mente.
Perdere le difese sarà’ fragile imbevuto di amore coriandolo,
neanche preparati ad alitarvi il cuore.
Sarà’ che quelli che ci precedevano
dovevano proteggerci ma nell’adesso di un sfogliarsi del cielo
ci hanno lasciato in testa al plotone,
e guardiamo i fiori e vi vediamo immense praterie
e tocchiamo la goccia stendendola come un infinito mare
e ripariamo le crepe dei muri perché’ ora c’è’ mestiere il ricordo.
Si è’ genitori ma piano piano si perde il nostro essere figli
e allora sentiamo dentro diversa la lunghezza
e si vede dall’argine di rughe
l’anima finalmente nella sua interezza.
La fiaba che è’ in noi
La fiaba scava le grotte della fantasia
e come le immagini di nuvole
ci fa sentire gli arcani del cielo.
Perché’ le cose piccole abbiano grande luce
occorre aprire sentieri nei nostri nervi,
scalfire la carne fino a divaricarne le fibre,
scuotere le parole
perché’ siano temporali e spighe,
accendere di un buio nuovo gli occhi accecati,
spaventare di silenzio
il peso del rumore assordante,
arrivare dove il lavoro del sorriso
impregni di schiuma la fatica
e faccia delle lacrime
il bagnato fecondo dell’istante.
Ci destinano ancorati al muro invalicabile
mentre le piccole cose ci aspettano ,
il tenero di una carezza,
il passare del caffè’,
un saluto e una parola , un colpo di vento,
l’aprirsi di una persiana,
una melodia , il saltello della ranocchia,
la luce del tramonto
che respira sulle case:
tutto questo è’
la fiaba che è’ in noi .
Nelle mie tasche
Io metto volutamente
nelle tasche dei pantaloni
piccole cose:
una caramella, una moneta,
una pietruzza, una bacca dal colore acceso,
un biglietto con scritto
“sii gentile con te stesso e con gli altri” oppure
“la bellezza e’ nel cuore di chi osserva “
o “trai ispirazione dalla sconfitta”
o ancora “respira profondamente
finche’ i profumi entreranno in te”.
Così’ frugando nelle pieghe della mia vita
mi candido per una sorpresa ,
e rammento che il posto più’ sicuro
per l’inaspettato che spera
e’ proprio il luogo
dove vivono le mie mani e il mio pensiero.
Il tuo sbatter lieve di palpebre
Quando il tuo sbattere lieve di palpebre scorgo,
l’anima tua vuole uscire
a fare compagnia alle farfalle
e si posa sulle distanze delle nuvole
e fa crocevia di sembianze
che mi ritornano in eterno fiorire.
Pensa cosa può’ fare la tenerezza
che trasuda dall’aprire e richiudere
in uno snodarsi di attimi,
nascita e morte , sole e buio, speranza e delusione,
abbracciarsi e lasciarsi, vincere e ritirarsi,
gioire e rattristarsi, viaggiare e fermarsi…
e non è’ altro che il tuo pensiero a svelare
non è’ che il brillare in cui
vedo la bambina ancora viva
e le sue gocce spremute dalla vita.
Forse per questo sono accanto a te,
li’ dove il provvisorio diventa eterno,
perché’ in quello sbatter di palpebre non fuggo,
non mi aliena il correre del tempo,
e le domande ferite dalle mancate risposte
più’ non lasciano, scuotendomi,
il senso inesorabile del vuoto,
perché’ tu mi unifichi,
nel tuo dolce esistere,
in quel fibrillante anelito di coagulazione.
Il ramo nudo
Il ramo nudo ha dell’inverno
stringhe invisibili allacciate.
Si spoglia di foglie per ascoltare,
così fa il ramo nudo.
Senza vestiti che addobbano l’essere
è teso all’aria
e respira nella calma del legno,
fermo di silenzio
e in ascolto del sole ancora lontano.
Offre l’appoggio al merlo
cedendo appena al peso della sua brevità.
Solo quando si sveglierà
in un crescendo di velocità
d’acqua e di sole,
con il buio intermittente della notte
come tempo di quiete,
arricchirà di colori e di profumi
l’assoluto intorno.
Nello stare, ora aspetta
il giusto fare dei giorni.
La riga di luce
La riga di luce sotto la porta
mi soffia la tua presenza al mattino
mentre io al di qua,
faccio capire al buio
che tu sei la luce incomprimibile,
tu sei come i bordi della tazzina
che diventano essi stessi liquidi
perchè incapaci di fare prigionieri.
Le foglie in balìa del vento intanto
hanno preso il freddo
e sciamano come stormi
disperdendolo ovunque.
Tra poco la riga si spalancherà
nel tuo sorriso
e tu uscirai fuori
a confortare il disperso autunno.
L’attesa
Le nuvole erano navi che solcavano il cielo. La campagna sembrava finire a quella che era stata una casa colonica e si buttava in mare, come l’ultimo avamposto prima dell’eterno. Era una casa disabitata ma gli olivi intorno la rendevano ancora accogliente: erano i testimoni e i custodi di un tempo passato,che si muoveva ancora in armonia col lavoro del sole. Le pietre invece silenziose, rimanevano più solitarie e acquattate, apparentemente non partecipi di quello che cambiava intorno. Ricordo la bicicletta appoggiata al muro, sul fianco della casa che dava a nord, una di quelle bibiclette un po’ arrugginite che parevano viaggiare ancora per scommessa. Le pareti esterne della casa erano mangiate dalla salsedine, dall’acqua e dal sole, scrostate e crepate, come il viso di un vecchio. Giulio arrivava dai viottoli che, in fuga, si lasciavano dietro la statale e dimenticavano la sua modernità un po’ straniera e confusa. Mentre lottava con sassi e zolle per evitare la caduta, pensava alla sua Margherita che abitava là, in quella casa. Io lo sorpresi un giorno mentre, col mio cane, facevo un giro a piedi a prendere il primo calore primaverile. Era intento a scrutare l’orizzonte sul mare, con un legnetto tra i denti, le braccia dietro la schiena, una fierezza tenace ma , al tempo stesso, dolce. Era un uomo sulla settantina, magro con capelli bianchi, lunghi, poco curati, un’espressione malinconica sul volto.
“Aspetto la mia Margherita” disse rivolgendosi a me, con una voce che sembrò confondersi col fruscìo del vento nei corridoi tra gli olivi.Lì per lì non capii:pensando alla casa diroccata che era alle nostre spalle, mi parve strano che aspettasse qualcuno. Vista la mia faccia interrogativa, lui capì che mi doveva delle spiegazioni e guardando il mare con le ciglia aggrottate continuò a parlare.
“Se n’è andata da qui” e mi indicò con un ampio gesto del braccio tutto il terreno vicino che comprendeva anche la casa. Nei suoi occhi si illuminarono le scene di quando quel luogo era abitato e la vita era scandita da gioie e dolori, noie e passioni, nei ritmi pigri e caldi delle estati, nelle decadenze smagrite degli inverni che riposavano lasciando in sospeso il fervore della terra.
“E qui ritornerà per prendermi e portarmi via, con sè. Sospirò e io stetti immobile a guardarlo mentre lui non staccava gli occhi dall’orizzonte. Lontano la calma del mare aveva avuto il sopravvento e le onde se ne stavano nel suo ventre, anche loro in attesa. La giornata invitava all’ascolto di un silenzio disteso, rotto solo in lontananza da qualche auto che passava sulla Statale.
Mi misi anch’io, senza parlare, a guardare il mare in attesa di capire la stranezza di quell’uomo abbarbicato al passato. Anche il cane si fermò e si mise accucciato guardandomi con un’aria interrogativa.
“E’ il tempo dell’attesa, il mio, sa? Ma forse tutto è un’attesa nella nostra vita, a pensarci bene. Margherita camminava tra questi olivi…poi ha spiccato il volo.”
Allora mi si chiarì d’un tratto l’incontro, la presenza di quell’uomo vecchio e malinconico: era stato lasciato dal suo amore, forse per la morte della donna.
“Ci viene spesso qui?” chiesi senza che la mia curiosità violasse le sue parole.
“Tutte le settimane, da trent’anni”rispose Giulio. “Mi è toccato di sopravvivere, che vuole farci…”
Una smorfia sul mio viso lasciò trapelare il mio stupore mescolato ad ammirazione e tenerezza. Vedendo il cane che si era spostato verso il viottolo, mi spostai, avrei voluto dire, avrei voluto chiedere ma lasciai all’indeterminatezza il compito di costruire l’ombra di un passato che quell’uomo mi aveva fatto vivere per pochi minuti. Stringendogli la mano presi congedo con un sorriso. Ci scambiammo il nome come per accordo tacito a non dimenticarci. Sul mare un battello solcava la tavola blu come fosse l’unico passeggero di un autobus: a quale fermata scendere? Cosa avrebbe soddisfatto la sua esigenza di eterno?