Maria Cirillo - Poesie e Racconti

Dalla raccolta di poesie “Inquietudine è vivere”, di Maria Cirillo, inedito, in via di pubblicazione:
 

“Poesia”

 

Bella Tu, poesia,

ch’io ti possa godere

sol quando passata è contingenza.

Come manto nevoso

che, immacolato,

incute devoto rispetto

e si presta a giochi felici

quando già rotto l’incanto

di sua verginità.

Così, mio Bene,

che esci dalla penna

che divaga veloce,

plachi l’indomito spirito

che, seriore,

ne trae sospirato giovamento.


Dal romanzo “Fabrizio e il Principe. La favola in un borgo” di Maria Cirillo, Planet Book 2017 – ISBN: 9788899399436

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Il sentimento di Fabrizio

Col passare degli anni, tra alti e bassi di una vita complicata e piena di affanni, don Fabrizio si era trasformato da giovane allegro, magnanimo ed amato, a uomo scontento e pieno di turbamenti interiori. L’oscuro periodo della perdizione cominciò a Napoli, ove si era recato, con grande entusiasmo, per nuovi incarichi affidatigli da Re Filippo. Proprio quando il Principe poté finalmente osare di chiedere in sposa la donna che da sempre aveva nel cuore, gli eventi concreti stroncarono sul nascere le sue romantiche ambizioni. 

La reggia napoletana dei Carafa, situata sul promontorio dei Campi Flegrei prospiciente l’isola di Procida, era imponente e sontuosa, quanto bastava per consentirgli di vivere agiatamente assieme alla sua amata. Tuttavia, questo sogno si dovette infrangere rovinosamente subito dopo il suo arrivo a Napoli. 

Una delusione immensa, la prima e forse la più grande della sua vita, tanto cocente da condizionare per molto tempo la spontaneità della sua indole e del suo umore. Non dimenticò mai il volto incantevole ed etereo della donna che aveva avuto nel cuore da quando l’aveva incontrata non ancora sedicenne, neanche quando dovette rassegnarsi all’evidenza di un amore impossibile. Una ferita nel cuore rimasta cocente per molto tempo. 

La donna che tanto aveva amato e desiderato, Evola, non sarebbe potuta in nessun caso essere sua.

*

Evola Ventimiglia era stata promessa in sposa, dal padre, ad un nobile catalano. Il suo casato, pur governando lo stato di Milano, non possedeva sufficienti risorse e aveva bisogno di rinnovamento e risanamento economico. La mancanza di un figlio maschio rendeva impossibile rimediare nuovi mezzi, nuovi titoli e glorie cavalleresche. L’unica via di uscita, per sistemare le faccende economiche, era quella di imparentarsi con una casata di ricchi possidenti. Evola era la figlia più grande e più bella e, di conseguenza, a lei spettava l’onore e l’onere di salvare la stabilità economica della famiglia.

Fabrizio l’aveva conosciuta presso il Monastero Benedettino di Montecassino, dove il giovane rampollo aveva soggiornato per un anno, istruito dai monaci all’arte medica, che poi avrebbe perfezionato presso la Scuola Medica di Salerno, secondo le direttive della sua famiglia. 

La giovanissima Evola aveva la strada aperta verso un matrimonio ricco e di elevato rango. 

Era stata una scelta dovuta, quella di avviarla agli studi. La madre, donna Costanza De Cecco Ventimiglia, notò le spiccate doti filantropiche di Evola e consigliò al marito di affidarla all’istruzione religiosa del Monastero di Montecassino, famoso per la medicina e per la ricchezza di testi antichi. 

Evola si immerse negli studi, imparando l’arte della traduzione e della trascrizione, beneficiando, allo stesso tempo, della conoscenza approfondita e delle proprietà benefiche delle erbe. 

Ancora adolescente, incontrò Fabrizio, di poco più giovane, ma che già dimostrava tutte le sicurezze tipiche di un aitante uomo di rango. Egli la corteggiò in modo signorile e con tale abilità che Evola acconsentì d’incontrarlo e parlargli in privato, nonostante vigesse l’assoluto divieto di coltivare relazioni personali tra gli ospiti. Il Monastero era un luogo di studio e di preghiera; neppure i normali rapporti familiari erano consentiti, lontano dall’occhio vigile dei controllori. Inoltre, erano in vigore rigidissime regole di segregazione di genere, applicate in modo categorico e costante. Il divieto, tuttavia, non scoraggiò i due giovinetti, i quali riuscirono ad organizzare una finta visita dei familiari al di fuori delle mura monastiche. Fabrizio espresse il meglio di sé, nel descriverle la sua ammirazione per la bellezza e per la grazia che i suoi tratti affascinanti rivelavano a chi le era di fronte. Trovò le parole più delicate ma decise, adatte alla loro giovane età, per farle sapere che l’avrebbe cercata, quando fosse giunta l’ora, allo scopo di coltivare il sincero sentimento appena nato. 

Evola stava appena sbocciando alla giovinezza, come un fiore delicato e insicuro. Fabrizio la attraeva per i suoi modi gentili e signorili e per il suo entusiasmo. Senza esitazioni, rispose timidamente al suo bacio. La mano che lui poggiò sul piccolo seno di lei, tuttavia, la fece irrigidire. Si staccò dall’abbraccio e corse via velocemente. 

«Ti sposerò, Evola!» gli urlò Fabrizio, con gli occhi lucidi dell’amore «ti troverò, prima o poi, e diventerai mia moglie».

*

La capitolazione di quell’amore di gioventù rese Fabrizio impermeabile a qualsiasi rapporto impegnativo, accontentandosi di frivole frequentazioni e amori di una notte. 

Amava la vita e voleva godersela. Frequentò abitualmente la corte napoletana, con tutti gli onori ed i poteri che si addicono ad un Principe, tuffandovisi a capofitto. 

D’indole estroversa, familiarizzò con tutti. 

Molte dame della corte napoletana rimasero affascinate dalla sua giovialità e fu facile per un aitante giovane nobile, dal carattere così amabile, corteggiare e sedurre le più belle. Tuttavia il gioco d’amore mutò in un circolo vizioso narcisistico. Per le signore annoiate dalla monotona vita di corte, la quale difficilmente forniva guizzi particolari, il bel Principe dotto e galante rappresentò una ventata di gioventù e di allegria.

Nonostante la nuova nota di cinismo esistenziale, ricercato e compiaciuto, l’indole passionevole di Fabrizio lo catturò in una nuova storia d’amore, graduale e particolare, che lo trascinò inesorabilmente in una nuova dimensione del rapporto sentimentale.

L’apparizione di Claudia nella sua vita gli diede una scossa fortissima, tale da mandare in frantumi le fortificazioni emotive attentamente innalzate negli anni. Il destino, però, non aveva ancora completato la pagina definitiva del suo cuore dilaniato dall’insoddisfazione. Il Principe non sapeva ancora quali nefasti eventi lo avrebbero imbrigliato. 

Una nuova e pesante delusione stava per ferirlo inesorabilmente.

«Nessuno ha diritto di disporre della vita degli altri» pensò amaramente il Principe. 

«Effettuare la propria scelta di vita sta diventando impossibile, in un mondo in cui non si può conquistare la propria donna in libertà di sentimenti». 

La dirompente e cupa considerazione di natura sociale, che lo invase, lo irritò molto. 

«Finché le donne dovranno accettare l’uomo che la famiglia ha scelto per loro, non potrà che esistere infelicità e ingiustizia». 

Gli sembrava di non avere più speranze. 

Tanto era stato fervido ed emozionante l’incontro, quanto dolorosa fu la constatazione che si trattava di un altro sogno interrotto. L’illusione era stata bastonata a morte dalle minacce del Conte, marito forzato della sua bellissima Claudia.

I due si erano conosciuti durante le esercitazioni equestri ed avevano legato cordialmente e spiritualmente. Dopodiché, non si videro per alcuni anni. Qualche tempo dopo, l’incontro casuale alla corte napoletana ebbe l’effetto di spiazzarli con rinnovati e più maturi sentimenti. 

Si scambiarono un abbraccio carico di significati, che li travolse entrambi in una sensazione di completezza fisica, tale da sprigionare in loro il desiderio di ben altre effusioni.

Successivamente, Fabrizio tornò più volte a Napoli per programmare con lei un possibile futuro. 

Gli avvenimenti, però, si svolsero in maniera ben diversa.

 

Claudia

 

«Claudia, mia amata!». 

Appena egli la vide giungere attraverso il lungo viale di quella sontuosa villa, ne morì di passione. La voce gli si strozzò, subito dopo aver proferito la dolce dichiarazione e il cuore continuò a battere così forte da non riuscire a resistere alla visione di una così splendente bellezza. Per l’occasione, Claudia indossava un abito blu cobalto, così semplice da sembrare di taglio maschile, privo di ricercatezza e di orpelli vari. Ciononostante, la bellezza della donna era così dirompente da mozzare il fiato a chiunque avesse avuto la possibilità di osservarla.

«Signor mio, don Fabrizio» rispose con voce triste e allo stesso tempo carica di ostinazione «il nostro non sarà mai un amore fortunato, lo sento».

«Perché mi parlate così?» la riprese don Fabrizio. «Mi sembrate così triste che mi sento in colpa. Ditemi, ho commesso qualche imprudenza? Forse il Conte, vostro marito, si è insospettito per la mia presenza assidua a Napoli?» 

«No, mio caro, il problema è mio. Voi non avete alcuna colpa. La mia vita con il Conte si sta deteriorando giorno dopo giorno e so per certo che egli sta meditando di mettere in atto qualcosa di spietato, per darmi una lezione. Egli si è convinto che agendo in quel modo io possa tornare ad amarlo, se non altro per timore. Per quanto riguarda la vostra permanenza a Napoli, il Conte mio marito non l’ha mai digerita e credo che abbia presentito, dal primo istante, il fatto che la vostra presenza mi stesse ridando la voglia di vivere». 

Guardandolo insistentemente negli occhi, aggiunse, senza timore «Se devo vivere nella morte, allora preferisco morire nella vita. Amor mio, eccomi qua e sia quel che Dio vorrà».

Quella che trascorsero insieme, fu una notte speciale. Una notte d’amore, che entrambi avevano aspettato per tanto tempo. Una notte che non avevano mai avuto, fino a quel momento, il coraggio di coronare. Quella era stata un’occasione molto importante poiché sapevano, quasi con certezza, che non ce ne sarebbe stata un’altra. 

Spesso si erano visti, parlati e abbracciati, con calore, con complicità, ma mai con l’intimità che i sensi avrebbero desiderato. Claudia recuperava spesso occasioni e pretesti per uscire con lui; avevano in comune molti interessi, come la passione per i cavalli e le dissertazioni di teologia, ma ogni pretesto era buono a trovare terreno comune. Decise di accompagnarsi a lui senza pensare alle ripercussioni che sarebbero tristemente sopraggiunte. Fiumi di confidenze li avevano avvicinati, eppure non avevano mai messo al centro, in modo esplicito, la parola “amore”. Fabrizio aveva avvertito il tocco sincero di una forte passione, una di quelle mai provate prima. Tuttavia, aveva trattenuto il desiderio di intimità sentimentale, principalmente per rispetto nei confronti di lei e della sua delicata situazione. Ma quel rapporto, spontaneo e autenticamente cordiale, era riuscito a risvegliare in lui la sensazione di adeguatezza e profondità interiore che credeva di aver perduto.

Dopo qualche tempo, anche Claudia si accorse di essersi innamorata di Fabrizio come un’adolescente. Ad un certo punto, ebbe la pungente certezza di dover completamente rivalutare l’essenza della sua stessa vita. Ripensava insistentemente all’oppressione e alla schiavitù, personale ed emotiva, che subiva vivendo a fianco del Conte, senza un briciolo di amore, né di compassione umana. In confronto al rapporto spensierato e libero con il Principe Fabrizio, la vita con suo marito sembrava una prigione putrida e asfissiante. 

L’ora della resa dei conti portò Claudia a farsi trasportare dal sentimento, confidando principalmente sulla volontà di potersi finalmente liberare da quell’esistenza priva di amore e di speranza, per ambire ad un sogno: condividere quello che le restava di buono ed autentico con il suo diletto amante. 

Si abbandonò a quel sogno e condivise con Fabrizio un incontro appassionato e carico di complice intimità, frutto di un sano desiderio d’amore. Entrambi vissero quei momenti come la naturale conclusione di un percorso d’amore. Si amarono senza pudore, promettendosi disperatamente che quell’avventura di vita, alla quale non avevano saputo rinunciare, non sarebbe mai finita, nonostante il pericolo incombente sulla testa di entrambi.

*

Fabrizio non aveva di che essere insoddisfatto, in relazione alla propria vita sociale. Aveva raggiunto i massimi vertici della scala nobiliare e, soprattutto da quando era diventato Principe dell’Impero, aveva buoni motivi per gioire e sentirsi realizzato, anche se in realtà non era così. Molte donne, ricche ed affascinanti, lo desideravano sinceramente e ardentemente. Ma il suo cuore veniva ogni volta intrappolato in storie impossibili, difficili da superare e da dimenticare. Alla delusione di aver dovuto rinunciare al suo grande primo amore giovanile, sul quale aveva quasi edificato l’intero suo futuro, era seguita la seconda cocente disfatta. Amica fidata e amante, donna Claudia avrebbe avuto le carte in regola per farlo tornare alla vita e alle speranze di un futuro radioso. 

Tuttavia, la separazione che si rese obbligata a causa di gravi eventi, completamente indipendenti dalla sua volontà, lo fece ripiombare nel baratro della solitudine.

Dopo l’ultima amara esperienza, non fu più disponibile a farsi coinvolgere sentimentalmente. Il seducente Principe, adulato e riverito da molti, aveva prudentemente deciso di difendersi, corazzando il suo cuore contro l’amore assoluto e devastante. 

«Sarà questo il mio destino nella vita?» giunse a domandarsi con amarezza. 

Tuttavia, con il passare dei mesi, anche aiutato dagli amici e dai compagni d’avventure, nonché confortato dall’amorevole e saggia madre, donna Livia, pian piano iniziò a risollevarsi dal quel baratro intriso di malinconico pessimismo. I suoi pensieri ripresero ad intrattenersi romanticamente e platonicamente con l’immagine della dolce Evola, che aveva deciso di non rivedere più per evitare inutili sofferenze, e con il ricordo del passionale rapporto con la stupenda Claudia. Era questo un modo per coltivare, almeno in cuor suo, e senza farsi abbattere dallo strazio dell’abbandono, quei fiori eterei che la vita aveva deciso di far appassire, proprio tra le sue mani, prima ancora di avergli dato la possibilità di vederli sbocciare nella piena lucentezza dell’amore. 

«Prima o poi mi sposerò comunque» s’incoraggiò «e avrò una famiglia, com’è giusto che sia».


 RACCONTO (dal libro “Monologo a mia madre” di Maria Cirillo, 2015) – ISBN: 1220005037

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Una Donna di Ferro

 

“La Ferra”, era il soprannome di Antonietta. Era il nomignolo di suo padre, che lei ereditò in pieno. Quelli che la frequentavano sapevano che era una donna forte, sebbene anche lei alle volte mostrava le debolezze di qualsiasi essere umano. Nelle difficoltà e nel bisogno di qualsiasi genere, si dimostrava ingegnosa e capace, riuscendo quasi sempre a cavarsela e le amiche si fidavano molto di lei.

Gli episodi che caratterizzano Antonietta sono tanti, ma è interessante rammentare gli eventi che la condizionarono dal punto di vista emozionale.

Maria fu pervasa da una leggera tristezza al ricordo di quell’esperienza di sua madre occorsa nel 1935, quando non ancora tredicenne, si trovò nel bel mezzo di una potentissima alluvione sulle sponde dell’Allaro. Una storia mai dimenticata per la tragicità degli eventi che lasciarono un indelebile segno. 

L’alluvione del ‘35 mise tanta paura alle giovinette dell’Allaro, lasciando tracce indelebili nella memoria collettiva. Alla ragguardevole distanza di quasi ottant’anni, Antonietta raccontava l’accaduto rivivendo e facendo rivivere sensazioni ed emozioni come appena trascorse. Ciò avvenne anche qualche tempo prima della sua morte. Alla bella età di 89 anni narrava con perfetta lucidità il modo in cui aveva vissuto l’inverosimile incubo. Era tutto impresso nella sua mente, in grado ancora di suscitare commozione per quelle ore terribili e tragiche.

«La piena si alzò così tanto da far scomparire lo scoglio dove erano arroccate le casette di campagna, nonostante fosse a ragguardevole altezza e distanza dal fiume».

Tra il fiume e le casette c’erano parecchi filari di terrazzamenti coltivati, discendenti a scaletta. I rifugi venivano realizzati consapevolmente abbastanza in alto, su terreno saldo, per prevenire i pericoli degli smottamenti provocati dalle piogge; ma anche per premunirsi contro le frequenti piene dell’Allaro.

«Il terribile evento del 1935 non risparmiò nessuno e la piena inondò tutti i plessi delle gole dell’Allaro». Mentre Antonietta raccontava, sembrava provata dallo sgomento che le tornava alla memoria. «C’era solo acqua» diceva «la zona era tutta un fiume».

In quel declivio fertile c’era la vita. Numerose e varie erano le coltivazioni. I vitigni di malvasia erano uno spettacolo e un dono della natura. Il vino che si ricavava sembrava un vero e proprio nettare profumato. C’erano infiniti e rigogliosi alberi da frutto ed era un piacere vederli fiorire e fruttificare. A causa di quella terribile alluvione, finì tutto sott’acqua. «Anche le trote» diceva Antonietta «Poverine, chissà dove erano state sbattute dalla furia della piena». Riferì che alla conclusione dell’alluvione, le terre, tornate parzialmente scoperte, restituirono la tristissima visione di quintali di trote nelle caotiche risacche. «Sembrava tutto un cimitero di trote».

Antonietta, Rosina, Giuseppina, Giannina, Antonuzza, Marianna e Brunina, erano tutte giovinette abituate alla dura fatica nei campi, dai quali ricevevano generosi frutti per il sostentamento. La vallata dell’Allaro venne sempre considerata, a buona ragione, strega e madre. Si rendeva strega quando si prendeva gioco delle fatiche umane con le frequenti piene che portavano via coltivazioni e terrazzamenti faticosamente realizzati, da rifare e riposizionare laddove il fiume decideva di lasciare la sua avulsione. Ma la vallata era anche molto generosa, perché non si dava mai completamente per vinta e molto presto reagiva, restituendo germogli e speranze. D’altronde la gente delle fiumare era parecchio laboriosa e in grado di recuperare velocemente il ritmo, aiutando la terra a riprendere in fretta il ruolo di madre benevola. Le Jhumarine, come venivano chiamate le avulsioni lasciate asciutte dal fiume che si appropriava di un tragitto diverso dal precedente, erano parecchio impegnative come terre da coltivare, ma con i trattamenti amorevoli dei contadini divenivano terreno dolcissimo che rispondeva con abbondanti frutti.

«Quel giorno», diceva Antonietta «avemmo veramente paura, temevamo di non farcela a tornare vive in paese. Ci ingegnammo per ripararci. Dapprima tentammo di infilarci in un grande tino che avevamo in casa. Pensavamo scioccamente che una banale tinozza fosse sufficiente per non farci aggredire dall’acqua, ma presto ci rendemmo conto che era un’idiozia. Non solo nel tino non c’era spazio per tutte noi, ma addirittura sarebbe stato più pericoloso. Riuscire a galleggiare in un tino non era pensabile». Sorridendo sempre e mostrando la forza d’animo che non era mai minata neppure dalle sofferenze fisiche, continuava il racconto con il solito modo colorito e verace. «Abbiamo pensato che dovevamo sistemarci più in alto. C’era il tetto della casa, ma ancora pioveva a dirotto e non potevamo sopravvivere allo scoperto». Rammentando il pericolo scampato, sorrideva contenta e aggiungeva «Sapete cosa abbiamo fatto? Ci siamo arrampicate sulla cannizza». «Sulla cannizza?… e vi sosteneva tutte?», chiedeva seriamente la figlia. «Certo», rispondeva Antonietta. La cannizza sosteneva quintali di prodotti, a partire da quintali di castagne, granturco, mele e pere invernali». I nipoti erano incuriositi e richiedevano spiegazioni di cosa fosse la cannizza. Antonietta spiegò che si trattava di un reticolo di pali robusti, sui quali venivano intrecciate le canne per depositare i prodotti. «Le canne venivano sistemate un po’ sotto il soffitto e i frutti si lasciavano per parecchio tempo a stagionare gradualmente».

«La cannizza veniva utilizzata pure per conservare i prodotti già stagionati per non farli ammuffire. Quasi come facciamo ora con i frigoriferi» spiegò.  «E quando non c’era niente da mettere sopra che fine faceva, si doveva togliere?» –  chiedevano i nipoti. «No, non si toglieva quasi mai» rispondeva «A primavera si ripuliva e si ripristinavano le parti invecchiate o usurate. Anche perché alla base della cannizza venivano collegati altri ganci per inserirvi ulteriori pali che servivano per appendervi i salami da stagionare. Si uccideva il maiale a gennaio o febbraio, durante i periodi più freddi e a primavera i salumi erano stagionati. Il salato e i capocolli venivano conservati dentro i tini, fino a che i tini stessi non servivano per pigiare l’uva. In quel periodo però ormai rimaneva poca roba perché la maggior parte dei salami veniva consumata in primavera, fino alla semina».

Ricordando queste cose sorrideva con gusto e soprattutto con orgoglio perché di solito aggiungeva «Quando noi volevamo trovare uomini per zappare, ne arrivavano più di quanti ne richiedevamo. Venivano volentieri perché sapevano che mangiavano bene e che avrebbero ricevuto la paga sull’anta» si vantava Antonietta.

I contadini chiamavano anta l’ultimo solco lavorato, come se quel solco fosse un battente per la remunerazione. «Noi familiari invece potevamo approfittarne solo nel periodo dei raccolti di fine stagione, dopo il mese di agosto, quando non prendevamo più aiutanti. A quel punto potevamo darci alla pazza gioia, perché non c’era più il timore di fare brutta figura» concludeva. 

«Allora, nonna, come è andata a finire con la cannizza?».

«Figlioli miei, non era destino che morissimo. Ce la facemmo a restare lassù quanto bastò perché la pioggia battente finisse. Poi scendemmo dalla cannizza e salimmo sul tetto per osservare cosa era rimasto intorno. La vista fu terrificante. Non potrò scordarmi mai, finché vivo, le immagini della tragedia cui assistemmo di lì a poco». Antonietta si intristì tanto che quasi le spuntarono le lacrime al ricordo. Il nodo in gola era evidente dalla voce strozzata. I nipoti non avevano il coraggio di incalzare ed attesero che lei raccontasse l’accaduto. «Il grido della fiumara era assordante. La spuma creata dalla violenza della piena del fiume, si levava impressionante. Gli schizzi si alzavano fino all’altezza del tetto su cui ci eravamo arrampicate». Nel raccontare la scena apocalittica cui aveva assistito, si dovette più volte interrompere per soffiarsi il naso. «All’inizio osservammo l’ira del fiume con una sorta di timore, come se si trattasse di un amico solamente arrabbiato, ma presto dovemmo verificare la potente cattiveria della fiumara. Dopo qualche minuto, tutt’uno con l’urlo del fiume, udimmo forti grida disperate. Cominciammo a tremare di spavento. Cosa stava succedendo? Niente di buono sicuramente. Qualcuno era in pericolo. Non sapevamo chi, ma avevamo capito che c’erano esseri umani nel fiume che lottavano contro la morte. La forza della natura apparve in tutta la violenza e crudeltà di cui era capace» disse con tristezza. «Mi ricordo che pensammo a tutte le persone che conoscevamo in quella zona chiedendoci se fossero loro. Le grida risultavano provenienti da più persone e da punti diversi della vallata. Sicuramente si trattava di famiglie intere. In una manciata di minuti, mentre si avvicinavano verso in nostro miglio, le grida divennero assordanti. Purtroppo però, man mano che si appressavano al nostro punto di osservazione, il numero delle persone che strillavano diminuì».

I nipoti chiesero dettagli sulle persone avvistate. «Vedemmo un’intera casa che scendeva a valle. Poi scorgemmo delle ombre confuse e rimescolate dentro le onde spumeggianti dell’enorme fiumara che continuava a gonfiare. A pensarci bene, fu una cosa abbastanza sorprendente che le sfortunate persone fossero giunte vive fino laggiù dove eravamo noi. Probabilmente ciò si verificò perché le persone vennero scaraventate giù nel fiume insieme alla casa. Sarà stato per questo motivo che gli sventurati non morirono subito annegati, ma videro invece la morte con gli occhi» osservò rattristata Antonietta.

I nipoti conoscevano per grandi linee la storia perché in paese si accennava spesso, anche tra ragazzini, a queste tragiche morti dell’Allaro. Ora che erano grandi desideravano conoscere meglio la vicenda, anche per catturare i ricordi di nonna poiché ormai da quando vivevano a Roma la vedevano pochi giorni all’anno.

«Avete scoperto subito di chi si trattava?» chiesero avvinti dal racconto. «Non subito, perché non potevamo vedere bene le persone. La casa che veniva giù con la piena era particolarmente grande, ma non riuscimmo a immaginare nulla anche perché non conoscevamo bene gli abitanti della zona più a monte della nostra proprietà. Solo nei giorni successivi, quando il tragico evento si concluse, avemmo notizia che il fiume si era portata via la famiglia dei Battendieri. Si trattava di un gruppo familiare che lavorava i filati, conosciuto come li Vattindaruati. La piena del fiume aveva spazzato via l’industria e la famiglia al completo» confermò.

«Era una sola famiglia?» chiesero.

Antonietta non era sicura di questo perché sapeva che c’erano altri più a nord che erano stati trascinati anche loro dalla piena. «Forse c’erano anche i Robinson, una famiglia che lavorava alla fonderia del ferro, al servizio della fabbrica d’armi. Noi non potevamo saperlo esattamente e per un certo tempo avemmo notizia immediata solo della tragedia dei Vattendieri, che dimoravano poco sopra i nostri possedimenti. Dei Robinson invece se ne parlò a Mongiana perché la zona della fonderia era più vicina all’abitato mongianese che a quello fabriziese. Dopo un po’ di tempo dall’alluvione si ebbe notizia che i resti degli sfortunati lavoratori erano stati rinvenuti alla foce del fiume Allaro, sulle rive di Caulonia».

Antonietta si portò fino alla tomba il pensiero e il grande dolore di quei momenti in cui aveva sentito l’impotenza di agire mentre si consumava un’immane tragedia. Era stata fortunata testimone una macabra diretta, senza poter fare nulla per prestare aiuto, come aveva indubbiamente desiderato.


 “Di lu Piducchiu allu Ponti” (Due commedie in vernacolo in atto unico)

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Introduzione dell’autore

 

L’amore per la propria terra, i ricordi indelebili dei momenti spensierati della propria gioventù, le ambizioni, e la voglia di fuggire, mista al desiderio di essere trattenuti per poter vivere la propria terra, si materializzano ideando persone e parole. 

Queste due semplici e quasi infantili commedie non sono altro che la visione delle cose positive di un passato non troppo remoto e, tuttavia, irreversibile. 

Nella prima Commedia “Ciccio doc, un ragazzo che tutti credevano stupido”, ritroviamo l’apoteosi di una visione paesana che comincia a cambiare e che però riesce ancora a rimanere vera nella sua essenza vitale di semplicità e genuinità senza finzioni.

Comincia l’emigrazione, e il «paese antico» corre via troppo in fretta, ma non cambia tuttavia l’animo dei suoi appartenenti. Ciccio vuole andare via dal suo paese che gli sta stretto; ha troppa fretta, ma non appena si ritrova nel mondo «forestiero», presto si aggrega al suo simile, e si fa condurre laddove le persone hanno le sue stesse origini e sensibilità. Nadia, la ragazza originaria del paese vicino al suo, è il tramite e l’anello di ricongiunzione per mantenere e rinfrescare quel legame che mai si potrà recidere. Non si vuole e non si può partire per sempre. Il ritorno lo impone l’anima.

Nella seconda commedia “Ca’ io si no parru schiattu – Ca si no ti vijiu muaru” (Tradotto “Perché io se non parlo schiatto- Perché se non ti vedo muoio”, i sentimenti e la pudicizia di essi costruiscono una messinscena a tratti senza senso e che poi si rivela nella sua spassosa enigmaticità.

L’amore dei due quasi promessi sposi non è poi così saldo.

Scimmiottature e farse che hanno il solo scopo di introdurre l’argomento principe: chi ama chi.

Betta è una ragazza moderna, ma scontenta. Dietro la sua modernità c’è la timidezza dei sentimenti. Osare di confessarli in maniera sfrontata sarebbe potuto diventare controproducente. Si deve quindi accontentare di stare all’ombra per un po’ cercando di capire i sentimenti delle persone interessate nella vicenda. Non vuole, soprattutto, tradire l’amicizia con Lena, quasi promessa sposa a Pascali. Tuttavia, prima che il guaio si compia e si alteri definitivamente la situazione, Betta fa in modo che le carte si scoprano.

Dal libro di commedie in vernacolo “Di lu piducchiu allu ponti”, di Maria Cirillo, 2016, Dycreative.

(Estratto da “Ciccio punto doc. Storiella di un ragazzo che tutti credono stupido”)

Raffeluzza IN VERNACOLO:Arriva Raffeluzza, madre di CiccioChi ntisaru sti ricchi? Ccà stati parrandu di malizzia. Chi m’ammucciati? IN ITALIANOArriva Raffeluzza, madre di CiccioCos’hanno sentito le mie orecchie? State parlando di malizia. Cosa mi nascondete?
Vincenzo Cara commare Rafiluzza, vi stavo lasciando i saluti. Avevo fretta di andare via perché vado a Soverato in discoteca. Sapete com’è, è estate e si ha voglia di uscire la sera per divertirsi. Cara comare Raffaeluzza, vi stavo lasciando i saluti. Avevo fretta di andare via perché vado a Soverato in discoteca. Sapete com’è, è estate e si ha voglia di uscire la sera per divertirsi.
RaffeluzzaVincenzo
Raffeluzza
Sacciu, sacciu com’è. Sacciu ca li vizzi di si giuvini d’oji sugnu assai. Eppuru vui, chi mi portati alla mala shrata stu piccirillu nnucenti. No ssacciu cuamu vi dassai mu lu ncrisimati stu fighiu, pi rispiattu a cumpari Natu chi esta n’uamu di animu bellu; e di cummari Santina ch’esta na santa fimmina, fatigatura e onesta. Vui siti truappu vizziusu. Vi mandaru mu studiati e mmo chi ssiti quasi profissori no mbi ponnu diri nenti cchù.Che dite Commare, io vi ascolto e vi voglio bene …Ma Cicciu no mmu si pigghia di pena, ca si nno stacia cu ddu pedi nthra nnu scarpu, lu ncrisimu io cu nnu varvacani chi nci vota la facci avantarriadi. Lo so, lo so com’è. So che i giovani avete troppi vizi. E voi, mi portate questo piccolo innocente alla cattiva strada. Non mi capacito come io abbia potuto farvi cresimare questo mio figlio, per rispetto a Compare Nato che è un uomo di animo nobile; e di comare Santona che è una santa donna, lavoratrice e onesta. Voi siete troppo vizioso. Vi hanno fatto studiare ed ora che siete quasi professore non vi possono più dire niente.Che dite Comare, io vi ascolto e vi voglio bene …Ma che Ciccio non si preoccupi, perché se non sta con due piedi in una scarpa lo cresimo io con uno scapaccione che la faccia si gira all’indietro.
Vincenzo Commare, lo sapete che io non faccio niente di male. Mi piace divertirmi, con moderazione e con rispetto, senza fare del male a nessuno. Comare, lo sapete che io non faccio niente di male. Mi piace divertirmi, con moderazione e con rispetto, senza fare del male a nessuno.
Raffeluzza Eccuamu no, cumpari. Aviti quasi threntanni e ancora no penzastuvu mu vi maritati. Sacciu ca jiti a fimmini, e passighati oji cu d’una, e dimani cu n’athra. Chissu non’è fari nenti di mali, no? Li criaturi chi pigghati ngiru non sugnu grandi peccatu? E come no, compare. Avete quasi trent’anni e ancora non avete deciso di sposarvi. So che andate a donne e che passeggiate un giorno con una ed il giorno dopo con un’altra. Questo è fare niente di male, no? Non è un grande peccato prendere in giro le ragazze? 
Vincenzo Commare, io mi sposerò quando avrò trovato la donna giusta per me. Altrimenti non è il caso di fare un matrimonio che dura poco. Comare, io mi sposerò quando avrò trovato la donna giusta per me. Altrimenti non è il caso di fare un matrimonio che dura poco.
Raffeluzza Dio mu ndi libra! E mu throvati chiddha chi bi piacia aviti mu li sprovati tutti? Che dio ci liberi! E per trovare quella che vi piace le dovete sperimentare tutte?
Vincenzo No, commare, non vado a letto con tutte. Ho tante amiche, è vero, ma anche tanti amici, e non vado a letto con gli amici. No, comare, non vado a letto con tutte. Ho tante amiche, è vero, ma anche tanti amici, e non vado a letto con gli amici.
Raffeluzza Povareddha io, quantu aju mu ndi siantu… Giasu, Giasu….! Povera me, quante ne devo sentire … Gesù, Gesù …
Raffeluzza Ciccio sghignazzaCicciu, camina alla casa e no’ tti votari, si nnò sai chi ti tocca … Ciccio sghignazzaCiccio, corri a casa e non ti girare, altrimenti sai cosa ti tocca …
Raffeluzza Ciccio si volta per entrare in casaArriva, in quel momento, la madre di VincenzoCummari Santina, minu mali ca arrivastuvu. Sapiti duvi stacia jiandu lu cumpari Vicianzu? Nentidimenu a alla scoteca di Suvaratu! Ciccio si volta per entrare in casaArriva, in quel momento, la madre di VincenzoComare Santina, menomale che siete arrivata. Sapete dove sta andando compare Vincenzo? Nientemeno che alla discoteca a Soverato!
 
Santina Carissima cummari Rafiluzza. …(Si avvicina affettuosamente)Chi buliti, sta giuventù non è cchiù cuamu eramu nui na vota. Mo vonnu li spassi, ca sinnò dinnu ca li pigghia lu stressu. Carissima comare Raffaeluzza …
Che volete, questa gioventù non è più com’eravamo noi una volta. Ora vogliono gli spassi, altrimenti dicono che sono stressati.
Raffeluzza Mah! (Si scosta un po’ indispettita)Si no ssi divertanu lu sabatu e la duminica dinnu ca no ponnu tornari mu lavurano lu luni.Niu fatigavamu sempi, mo no ssi capiscai nenti cchiù. Mah! (Si scosta un po’ indispettita)Se non si divertono sabato e domenica dicono che non riescono lunedì a tornare a lavorare.Noi lavoravamo sempre, ora non si capisce più niente.
Santina L’importanti esta ca sugnu bravi e fatigaturi. Importante è che sono bravi e lavoratori
Raffeluzza Giasu, Giasu, nci dunati ragiuni! Gesù, Gesù, gli date ragione!
Vincenzo Commare, anche voi e mia madre siete state giovani. Non sentivate la voglia di divertirvi almeno un po’ la domenica? Comare, anche voi e mia madre siete state giovani. Non sentivate la voglia di divertirvi un po’ la domenica?
Raffeluzza Nui, caru cumparucciu, la duminica jìamu alla missa, non all’abballu. Noi, caro comparuccio, la domenica andavamo a messa, non ai balli.
Vincenzo Per trovare il fidanzato, scommetto. Per trovare il fidanzato, scommetto.
Raffeluzza Cummari Santina! Chi sorta di figghiu vi facistuvu! Pirdunatimi, forsi la curpa non’è la voshra. Però vui curpastuvu mu lu mandati allu studiu. Comare Santina! Che razza di figlio vi siete fatto. Perdonatemi, forse la colpa non è vostra. Però voi avete la colpa di averlo mandato a studiare.
Santina Cummari Rafiluzza, dassati a Cicciariaddhu nuashru mu vacia mu si diverta, armenu pi na vota … Comare Raffaeluzza, lasciatelo andare a divertirsi il nostro Ciccio, almeno per una volta …
Rafeluzza
VincenzoRafeluzza
Nonziamai! A Suveratu pua! Duviesta chinu di fimmini e di tantazziuani!Comare Raffaeluzza, allora vuol dire che se Ciccio non può venire a Soverato, la festa la organizziamo qua.Giasu, Giasu, quantu annu mu ndi sentanu sti povari ricchji! Non sia mai! A Soverato poi! Dov’è pieno di donne e tentazioni!Comare Raffaeluzza, allora vuol dire che se Ciccio non può venire a Soverato, la festa la organizziamo qua.Gesù, Gesù, quante ne devono sentire queste povere orecchie!

 Dal romanzo “Lì. All’ombra delle pietre accastellate” di Maria Cirillo, 2012, Prospettiva editrice da Civitavecchia  -

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Capitolo 2 – Il cuore verso l’ignoto

 

Marta decise d’impulso di partire, non sapendo ancora cosa realmente intendeva cercare in quel paese. Sapeva solo che doveva farlo. Si sentiva molto triste, ma non ne conosceva assolutamente la ragione, non essendosi verificati eventi o fatti particolari. Marta quella mattina voleva andare a Ciano, perché voleva incontrarsi con le sue origini. Non aveva alcuna ulteriore ambizione. Voleva incontrare gente, per caso. Lei era nata a Ciano, per caso. I suoi genitori, entrambi reggini, avevano trascorso un periodo di circa quattro mesi precedenti alla sua nascita, in una minuscola casetta nella periferia sud della cittadina, nelle vicinanze del cimitero. Il papà, insegnante elementare, aveva avuto un incarico temporaneo presso una locale scuola di campagna. Poi l’evento aveva colto di sorpresa i genitori, che ancora pensavano di dover attendere almeno due settimane. Invece Marta nacque lì, senza quasi aiuto. Non vi era un ginecologo, né un ostetrico. Si accorsero subito che le doglie erano talmente ravvicinate, che non ci sarebbe stato nemmeno il tempo di prepararsi per il ricovero presso il vicino ospedale di Serra San Bruno. Fu una matura donna del luogo che si accorse del trambusto e, senza pensarci due volte, decise di mettersi in mezzo, introducendosi in casa della “signora” per dare l’aiuto che serviva. Da quelle parti, infatti, si usava condividere gioie e dolori. Fortunatamente, la “majisra Carmela, era una donna di coraggio, che ne aveva viste veramente tante nella sua vita e forse non era neanche la prima volta che la sua grande umanità, mista all’innata intraprendenza, le riservava l’opportunità di aiutare una vita a nascere. Questo fatto era stato raccontato a Marta più volte, ma lei non si era mai soffermata a pensarci, e tanto meno a rappresentarsi l’evento nella sua reale portata, con immagini di circostanze e luoghi.

Chissà per quale misteriosa ragione, quella mattina, Marta coltivava con ansia un desiderio, trascurato e forse sottovalutato per anni, di incontrare quelle sue radici, sicuramente occasionali, ma che iniziava a considerare indubbiamente importanti. “Sono nata a Nardodipace” – diceva a chi le domandava della sua provenienza – “però la mia città è Reggio Calabria”. Aveva da sempre subito un certo fascino dalla casualità della sua venuta al mondo in quel posto, che neanche conosceva. Finora, tuttavia, si era sempre trattato di crogiolarsi in un sentimento fanciullesco, un semplice gioco che la accompagnava dall’infanzia. Adesso, però, non si accontentava più, e voleva andare fino in fondo. Era arrivato il momento di andare oltre quella compiaciuta e superficiale spiegazione, che finiva col racconto delle poche cose che sapeva del paese. Certo non aveva avuto molto tempo per riflettere su questo evento, perché aveva, senza tregua, trascorso tutta la sua vita negli studi e nello svolgimento dell’attività di medico, con grande passione e serietà, impegnandosi senza risparmio nell’aggiornamento continuo e, per giunta, dedicando quanto tempo poteva al volontariato sanitario in alcuni piccoli centri dell’Africa. 

*

“Nardodipace”, disse a se stessa, scendendo dall’auto.

Prima della conferenza di giovedì scorso, non sapeva neanche dov’era Nardodipace. Ora però aveva ricevuto uno scossone che non sapeva dove l’avrebbe portata. In effetti, le era venuta una strana trepidazione di tornare in quel paese, senza indugio, perché doveva acquietare quella sua inaspettata smania. Decise d’istinto e non ci pensò per nulla, nemmeno un minimo essenziale per organizzarsi adeguatamente. Aveva troppa fretta di venire a conoscenza di qualcosa di più.

Di quell’unica visita, le era rimasto tutto dentro, ed i suoi pensieri non si staccavano da quel paese. “Mi sono imbattuta per le sue vie, ma non ho subito capito dov’ero. Ho attraversato le sue brevi strade, molto linde e che sapevano di antico West, ma non avevo ancora compreso che mi trovavo solo in viaggio, un viaggio che mi avrebbe portato «li“», raccontò poi a sua madre ed a sua zia Sasà, sempre attenta alla sensibilità di Marta e pronta a darle tutto l’aiuto ed i consigli di cui era capace.

Era rimasta sicuramente avvinghiata sin dal primo incontro, senza il tempo e la voglia di crearsi un alibi per il repentino ritorno. Sfogandosi con Marco, suo fedele amico d’infanzia, laureatosi in psicologia clinica, specializzando in Psicoterapia, gli confidò le sue “irrazionali” sensazioni. “La mia mente era lontana, smarrita tra passato e presente, inconsapevole di essere stata ingabbiata dai miei stessi desideri. Fantasticavo di essere stata già catturata da quel paese, come da un amore impossibile ed ineluttabile. Già immaginavo che, ciò che riuscivo a vedere al momento, era solo una parte superficiale di ciò che cercavo. Desideravo ascoltare le voci del passato, quelle voci che non dovevano essere dimenticate, perché avevo molte cose importanti da apprendere”. Gli confidò pure che lei stava riflettendo sul fatto che quella specie di fissazione poteva farle correre il rischio di essere considerata un’esaltata, ma che, tuttavia, non se ne curava molto. “Avevo un bisogno impellente di scoprire dove mi conduceva la porta che, improvvisamente, senza premonizione, si era spalancata nella mia vita. Mi rendo conto dell’irrazionalità di questi miei pensieri, e del fatto che non v’era ragione alcuna per avere dentro di me questa incontenibile idea di un inesorabile legame. L’inquietudine mi avvinghiò in modo quasi patologico. Nelle orecchie ed in tutte le parti del corpo, sentivo forte lo spirito degli avi, quello spirito che ci portiamo dentro senza esserne consapevoli. E’ una catena che non si romperà mai, a dispetto di tutte le scienze umane, rimanendo impercettibile ma concreta”.

Marta si scusò del “mattone” che stava diventando con queste sue esternazioni, specificando che non stava certo esprimendo concetti scientifici ma sentimenti. Per Marco, però, non si trattava di una disquisizione inutile, ma della manifestazione di grande sensibilità ed intelligenza della sua preziosa amica, alla quale, spesso, lui ricorreva per consigli. Aveva eletto lei come riferimento nei suoi momenti di ansia, non perché era di qualche anno più grande, quanto, piuttosto per la filantropa vivacità che riusciva ad infondergli, malgrado i problemi fisici di cui era portatore. Secondo Marco, lei non era mai avventata o superficiale. Piuttosto, anche negli eventi positivi, diceva sempre agli amici “godiamoci i momenti sereni, ma stiamo attenti a non calpestare la serenità degli altri e, soprattutto, se possiamo fare qualcosa per i meno fortunati, dobbiamo azionare i nostri innati impulsi positivi, senza tuttavia aspettarci alcuna ricompensa, se non dalla nostra stessa anima”. In questa sua concezione c’era una specie di “religioso” ateismo, mai comunque esibito, bensì solo vissuto in modo semplice e naturale.

*

Toccare terra su quel minuscolo pianeta chiamato Nardodipace, le aveva provocato un primario senso di solitudine; svanito, tuttavia, in pochi minuti, lasciando il posto al desiderio di porgersi nella prospettiva di una coinvolgente osservazione partecipata. Nonostante la complessità di sentimenti e aspettative, calpestando quella terra assaporava un gran senso di pace, pur sapendo che avanzava verso un sentiero di battaglia, che forse mai più l’avrebbe fatta riposare, per il motivo che le risposte che cercava, non erano di facile manifestazione. Sapeva, però, che non sarebbe stata sola. Si sarebbe trovata a contatto con le sue origini, lei lo sapeva già.

Decise di depositare il bagaglio, telefonare a sua figlia, rinfrescarsi velocemente ed uscire per incontrare gli amici, fare visita a Franca e tornare a casa per riposarsi, rimandando all’indomani l’impegno con se stessa e le sue origini.

*

Voleva assaporare quella pace lieve che promanava dalle viscere della terra, e pensava alle sue pietre, immobili e vive. Si erano conquistato grande rispetto, nonostante i dubbi e le cautele sulla definizione scientifica del fenomeno a causa della burocrazia che non le capiva ancora. Tuttavia, solo implacabili eventi naturali, al momento avrebbero potuto osare insensibilità, se non altro per il mistero che le avvolgeva.

“Dove sta andando?” – si sentì apostrofare con molta delicatezza.

Era di mattina, attorno alle 8:30. Di solito a quell’ora si va da qualche parte. Si cammina piuttosto decisi. Marta camminava imbambolata, pur non astraendosi completamente da quella terra. Era invece piena di sensazioni non razionalizzabili e si sentiva “occupata” dall’aria che l’avvolgeva. 

Era stato Angelo ad interrompere questo suo stato di intontimento. Angelo si ‘impicciava’ sempre, era abituato così, era spontaneo ed i suoi compaesani lo amavano anche per questo. 

Marta si ricordò subito di lui e non mostrò emozioni particolari per l’intraprendenza che sicuramente, in altri luoghi, le sarebbe apparsa intollerabile, sia per il modo, troppo diretto e confidenziale, sia perché non aveva neppure salutato.

Angelo aveva intuito dall’andatura e dal portamento troppo austero che il modo per entrare subito in contatto psicologico con quella donna, che aveva tante cose per la testa, era quello di essere diretto. Usava certamente buone maniere ed educazione, ma valutava che era opportuno mostrare il sincero e spontaneo interesse che provava, piuttosto che un atteggiamento di formale disimpegno. D’altro canto, lui non era tagliato per le fatue apparenze. Piuttosto gli veniva fuori l’incomprimibile carica umana, caratteristica delle persone generose. La personalità di Marta l’aveva affascinato anche per il carattere intimamente altruista e nobile, senza contare che rivederla gli aveva provocato un interesse speciale.

Marta rispose offrendo la stretta di mano, sorridendo impercettibilmente e liquidandolo con una richiesta quasi imperativa: “Se ha un po’ di tempo da dedicarmi, la incontrerò nella piazza davanti al municipio e le chiederò di aiutarmi. Immagino che conosca questo paese molto bene”. Aggiunse “A mezzogiorno, va bene?”. Marta aveva subito compreso che quel giovane sapeva tutto ciò che c’era da sapere, quanto e forse più dei suoi concittadini, nonostante vivesse fuori. 

Con la stessa semplicità Angelo rispose “D’accordo”.


 Da “La falsa storia di Mister”, Maria Cirillo, inedito in via di pubblicazione.

 

Padrone e sotto

 

«Dottore, secondo lei da dove vengono le bombe?»

Il farmacista guardò con sospetto il reggente locale della gendarmeria e gli si rivolse accigliato. «Cosa dovrei sapere io, secondo Lei? Sono l’ultimo della scala. Sono la vittima e Lei mi chiede di sapere cosa si sia tramato a mio danno. Non lo so!» rispose quasi irato per quella che lui aveva istintivamente ritenuto come una chiara provocazione.

Il gendarme non si scompose e proseguì nel discorso come se nulla fosse.

«Dottore, le devo fare una confidenza. Ho avuto delle imbeccate, non dico anonime, ma senz’altro riservate, che non posso chiarire completamente».

Lo speziale stavolta s’incuriosì e, pensando di poter arrivare a qualche spiegazione razionale e veritiera, si dispose all’ascolto con rispetto.

«Bene, meno male che si cominciano a chiarire le cose» disse. «Se può mi renda partecipe, potrebbe servirmi e lo sa».

Il gendarme si avvicinò al banco e con gli occhi invitò lo speziale a trovare un posto più idoneo per le confidenze. 

Lo speziale non si fece pregare e fece cenno al gendarme di seguirlo. Richiamò l’aiutante che aveva mandato nel deposito a ritirare i campioni da sistemare dentro le vetrinette espositive. «Oramai stiamo per chiudere, non credo che verrà più nessuno. Tieniti disponibile presso il banco e, in caso di necessità, mi chiami. Io sono di là in ufficio»

«Certo, Dottore. Come comanda».

Giunti nel locale di servizio, il dottore invitò il gendarme ad accomodarsi «Così parleremo in tranquillità».

«Dottore…» disse l’ospite che temporeggiò quasi imbarazzato. «Dottore…»

«Mi dica tranquillamente» riprese lo speziale. «È nel mio interesse, oltre che nell’interesse della giustizia capire con chi abbiamo a che fare».

«Va bene, dottore. Ma vorrei capire se è pronto a sentire delle cose che potrebbero contrariarla».

Stavolta lo speziale non reagì apertamente ma dentro di lui un mondo di emozioni gli fece velocemente percepire che si sarebbe trovato suo malgrado in una situazione in cui avrebbe dovuto insorgere in maniera forte. Intuiva che si stava tramando qualcosa, e non lo accettava certo passivamente. La sua vita era stata fino ad allora piena di avversità, ma sempre aveva tenuto fede alla sua idea di morale, che nessuna traversia era riuscita a corrompere. Ciò, malgrado si fosse sparlato della sua provenienza, la Barbagia, la cui fama, anziché essere basata sulle bellezze e salubrità delle bellissime montagne, era soprattutto legata all’anonima sequestri. Tale rinomanza valse al promettente studente di farmacia, un iniziale isolamento nell’ambiente universitario, che pian piano si trasformò in assoluta fiducia e stima per le doti umane e morali.

«Comandante» esordì con calma ma con evidente sicurezza lo speziale. «Se c’è qualcosa che devo sapere, la dica subito, senza timori e senza peli sulla lingua. Ho le spalle grosse abbastanza da non intimorirmi al primo ostacolo, specie quando i giochi sono già aperti. Mi dica tutto e facciamo ciò che va fatto. Io non indietreggio certamente».

Tanta determinazione sfasò un po’ la farsa che aveva preparato lo gendarme. Non poteva però tornare indietro. Era troppo vincolato ed impregnato nella situazione che ormai da diverso tempo lo aveva avvolto nella rete.

«Vado subito al sodo» chiosò. «Si dice, dottore, che Lei presti denaro a usura. E sarebbe questa la causa dei danneggiamenti nei confronti della sua attività e nei suoi confronti».

Il gendarme si fermò di colpo ben sapendo che avrebbe dovuto aspettarsi una risposta di difesa piuttosto forte.

Ciò che lo investì, invece, fu un uragano di accuse.

«Comandante, come si permette! Come osa fare insinuazioni del genere senza alcuna prova e addirittura senza elementi che le autorizzino un minimo di sospetto? Da dove le vengono idee del genere, e soprattutto, il “si dice”, lo ha riscontrato almeno un minimo prima di buttarmi addosso il fango? Se ha adeguati sospetti, mi convochi formalmente e metteremo in chiaro le cose» esordì con un fervore che il tutore della legge non si sarebbe mai aspettato. 

Il Comandante a questo punto doveva andare avanti.

«Le confidenze che ho ricevuto al momento sono assolutamente informali ma la condizione in cui lei si trova, cioè nel mirino della mala, mi ha indotto a ritenere la notizia abbastanza rilevante da pormi nella posizione di volerne sapere di più. Non voglio credere alle dicerie ma non posso neppure permettermi di lasciare cadere nel nulla informazioni di tale importanza. Mi capisce dottore?»

«Certamente che la capisco Comandante!» dichiarò con voce più alta e quasi a voler rendere pubblico quello scandalo di cui veniva infangato senza alcuna base. «Ma naturalmente devo domandarle di che tipo di informazioni si tratta ovvero se si è limitato a prendere per buone delle chiacchiere puramente illative, senza averne affatto verificato l’attendibilità, come avrebbe dovuto».

«No, no» si affrettò a chiudere il gendarme. «Nessuna indagine, per il momento. Volevo soltanto sentire direttamente da lei come stavano le cose; e così rendermi conto se fosse o meno il caso di aprire un fascicolo sulla questione».

«Male, Signor Comandante» sbraitò fermamente lo speziale. «Se notizie del genere provenissero da fonte degna di attenzione, indagare sarebbe stato obbligatorio» si ostinò. «Dunque, se vuole, sono disposto a rispondere ufficialmente alle sue domande. Mi dica quando posso venire in gendarmeria e le darò le soddisfazioni necessarie».

Il Comandante Schirox non si era preparato a fronteggiare una tale determinazione, ma a quel punto doveva parare il colpo e sperare di non aver causato un male peggiore di quello che avrebbe invece voluto evitare a individui che tutelava.

«Dottore, le confidenze mi sono giunte da persone colte e di un certo rilievo sociale; ed è per questo che ho pensato bene di renderla partecipe in via amichevole, ancor prima di prevedere l’inizio di eventuali indagini.

All’affermazione del Comandante Schirox, che ormai, da un certo tempo, aveva intuito fosse legato ad ambienti poco chiari, il farmacista si scaglio nuovamente con durezza. Cercò di abbassare il tono di voce ma con identica fierezza sferrò la sua conclusione.

«Immagino che una delle persone “colte” sia un certo difensore delle persone che dovrebbero essere indagate per gli attentati, che oltre tutto è risaputo essere un suo confidente o presunto tale» disse con sicurezza. «Quanto all’altro, non voglio essere così categorico nell’identificazione, ma per lo meno mi concedo il sospetto di immaginare che si tratta del collega dottore, imparentato con coloro su cui dovrebbero essere indirizzati i sospetti. Si sa da tempo che a costoro serve una spezialeria avviata e di successo. Ma la mia non è in vendita, glielo dica».

Tanta determinazione tramortì letteralmente lo sbirro, anche perché l’intimazione “glielo dica”, sapeva di sarcastico, ma aveva anche il sapore di una poco celata accusa. E tuttavia ancora il brutto doveva venire.

«Adesso non può che aprire le indagini e rendersi conto della realtà delle cose. Presenterò io stesso una denuncia, e voglio sapere perché si cerca di infangare il mio nome. Se lei non è disposto ad iniziare formali indagini, presenterò la denuncia direttamente alla gendarmeria di provincia» concluse fieramente lo speziale.

Franz Coppola, speziale da generazioni in terra di Sardegna, si era trasferito in quella tranquilla cittadina francese, Caen, per sfuggire ai troppi pericoli che si frapponevano tra la sua indole troppo retta e poco incline ai compromessi e la presenza di una pervicace e irriducibile mentalità mafiosa. Tutti dicevano che la mafia in Sardegna non esisteva, ma si negava l’evidenza. La cittadina di Ogliena dove lui aveva ereditato la farmacia della sua famiglia, aveva ospitato per troppo tempo diversi malavitosi della Sicilia, sottoposti dallo Stato a restrizione di libertà, mediante il cosiddetto “confino”.

Franz non aveva mai tenuto in gola il suo livore contro la “legge” che, da una parte restringeva l’area di movimento dei soggetti pericolosi e dall’altra faceva finta di non accorgersi dei danni che man mano questa gente creava alla comunità. I soggetti “ristretti” ricevevano visite senza alcun controllo e, pian piano, si rendeva evidente che ricevevano anche armi e droga, che smerciavano o giravano ad altri trafficanti, anche loro di chissà quale paese.

Ogliena diventò, così, per Franz, un posto dove non desiderava lavorare perché voleva poter essere indipendente, artefice e libero, senza le intrusioni criminali che si avvertivano pesantemente.

Purtroppo, però, nonostante avesse selezionato il posto dove vivere ed avesse fatto di tutto per stare bene, anche a Caen, che aveva accuratamente scelto, le cose avevano preso una brutta piega. Aveva scelto l’università dove specializzarsi proprio per prepararsi a una nuova vita fuori dalla sua terra e non correre rischi di disambientamento. Era stato anche inizialmente discriminato a causa delle sue origini geografiche, identificato come proveniente dall’Asinara, nonostante l’isola fosse ben distante dalla sua zona. Ma era rinomata nel mondo, soprattutto dopo la detenzione e la famosa evasione del sequestratore di Farouk Kassam, Matteo Boe detto “il bandito dagli occhi di ghiaccio”, noto nell’ambiente universitario come “Yeux froids”. 

Le assurdità che stava cominciando a saggiare avevano del paradossale. Una città apparentemente tranquilla e felice, sembrava celare un assurdo sostrato sociale che tutti volevano ignorare.

Ma Franz non aveva nessuna intenzione di mollare alla prima difficoltà. Era Caen l’ambiente che si era scelto e non avrebbe cambiato la sua decisione.

Il farmacista già in altre situazioni aveva accolto con diffidenza le finte confidenze del Comandante Schirox. Non gli era stato difficile pronosticare che dietro quel falso interessamento c’era qualcosa di fosco, ma gli mancavano ancora indizi significativi per farsi un’idea attendibile di ciò che doveva aspettarsi. Ora le circostanze avevano acceso una lampadina in più sulla personalità dell’uomo che si fingeva amico. Sebbene non in grado di affermarne con certezza l’appartenenza diretta alla mafia, ne poteva senz’altro dedurre che ne agevolasse l’espansione del potere.

La frettolosa e superficiale teoria sull’attentato alla spezialeria la notte della vigilia di Natale, non gli era piaciuta affatto.

«Secondo voi chi potrebbero essere gli artefici?»

Il dottor Coppola temporeggiò solo un attimo, sebbene avesse già pronta la sua dichiarazione, che sapeva essere irritante «Non siete dell’idea che la cosa possa provenire da fuori? Per quanto mi riguarda ci metterei la mano sul fuoco». 

«È strana questa vostra convinzione» aveva contestato il gendarme, facendo finta di pensarci su un attimo.

Erano ancora fumanti le conseguenze dell’attentato e il Comandante aveva pensato bene di trovare una facile soluzione: attribuire la colpa di quello che era successo proprio a lui che ne era la vittima.

Franz aveva civilmente cercato di affermare la sua idea, che era maturata grazie ad alcuni eloquenti indizi che facevano registrare l’espansione della criminalità in città. Però non si fidava affatto del gendarme, e non gli espose tutti i suoi sospetti.

Appariva abbastanza evidente che volessero metterlo fuori gioco per avere libertà di manovra nel campo farmaceutico, da tempo inserito nel conto acquisti della mala locale. A questa conclusione ci era arrivato abbastanza agevolmente e tuttavia non aveva ancora alcuna idea su come si stesse organizzando per arrivarci, tranne aver capito che il primo da far fuori era proprio lui, lo speziale più duro e scomodo.

«Assolutamente non vengono da fuori» aveva tuonato Schirox. «Fra qualche giorno vi dirò perché».

«Ci avete pensato, Comandante, che in questa città le bombe non potrebbero essere detenute da nessuno, considerando principalmente il fatto che non ci sono persone competenti e siti adatti per la loro preparazione. Il territorio è per la maggior parte urbano e privo di strutture che possano occultare una simile industria. Secondo me provengono dalla Regione delle Fiandre, dove sono presenti parecchie micro-fabbriche di polveri da sparo e di pezzi di ricambio per armi. Là è molto facile produrre ordigni passando inosservati e ignorati».

«E allora? Questo non ha senso, non è ragionevole pensare che gente di chissà dove abbia interessi in questa città, sinora fin troppo tranquilla e che spero possa proseguire sulla stessa strada» si affrettò di stabilire il Comandante. Ma Franz non ci stava a lasciare per asserita una teoria così superficiale e, probabilmente, di comodo.

«La mia idea è che gli esplosivi siano stati portati da persone che non vivono stabilmente a Caen, e lo abbiano fatto su commissione locale. A Natale molti vanno e vengono senza controllo. E loro questo lo sanno. Quindi la mia teoria è: committenti locali, complicità esterne, arrivo delle armi proprio sotto le feste e uso immediato. Tutto in regola per non correre alcun rischio».

Mentre Franz esponeva la teoria del fuori regione, il Comandante Schirox impallidiva. Tuttavia ebbe la prontezza di tergiversare. «Ci vediamo presto, non appena avrò elementi più pertinenti e precisi» e velocemente si commiatò.

Dopo qualche giorno se lo ritrovò nella spezialeria sfacciato più di prima e con le stesse idee, solo leggermente ammorbidite da una finta gentilezza. «Io non credo a quello che si dice, ma devo tenere presente l’ipotesi per poter eventualmente incastrare coloro che hanno messo in giro la voce».

Più ci pensava e più la faccia da insolente dello sbirro lo spingeva ad agire per dimostrargli che si sbagliava e che avrebbe portato in alto la sua teoria. Intendeva recarsi presso i superiori e fare le sue rimostranze contro Schirox. 

Terence Schirox aveva il grado di Lieutenant distaccato a comandare il 4° Canton de Caen; mentre a capo dell’Arrondissement vi era un Colonel.

Per prassi consolidata il Lieutenant Schirox veniva chiamato Commandant. Ciò avveniva per il fatto che nell’organico di quella gendarmeria non erano inserite le figure dell’ufficio superiore, intermedie tra i due gradi.

Sperava di essere ascoltato dal Colonnello e avere soddisfazione da lui. In caso contrario si sarebbe rivolto al Generale, che per fortuna aveva conosciuto durante gli studi presso l’università di Caen, dove, da giovane Colonnello, si stava specializzando.

«Comandante Schirox, sa bene come la penso riguardo alle illazioni diffuse contro di me, e che non me le faccio certo passare senza avere soddisfazione. La volevo avvertire che ho intenzione di andare dal Colonnello per consigliarmi sul da farsi» buttò tutto d’un fiato la sua dichiarazione, volendo provocare subito la reazione dell’interlocutore. 

Dall’altro capo del telefono, per un attimo vi fu assoluto silenzio, come se il destinatario non avesse sentito nulla oppure stesse cercando frasi che non arrivavano.

«Dottor Coppola» finalmente rispose «si rende conto che una cosa del genere complica molto la faccenda, giacché poi dovremmo obbligatoriamente aprire le indagini sulla questione e … non so se è conveniente. Questo è un terreno minato. Basta qualche testimonianza e non se ne esce più puliti e lindi». Il tono alquanto sinistro aveva il sapore intimidatorio.

Franz non rispose subito, attendendo la conclusione di quello che sembrava un avvertimento non proprio amichevole.

«Fossi in lei mi fermerei a pensare un attimo» tuonò il gendarme.

Non poteva a questo punto fare quel passo senza rendersi apertamente ostile. 

«Va bene, ci penso un attimo».

Analizzando il passato non troppo remoto, Franz si rese conto che si trovava davanti a un vicolo cieco. Se la gendarmeria non si muoveva contro coloro che dovevano essere i sospettati numero uno, era urgente per lui stabilirsi scadenze e tempi brevi per far emergere la verità e, soprattutto, rendere palese quanto fosse incombente il pericolo che lo minacciava.

Gli oscuri autori e i mandanti degli attentati alla sua farmacia si sarebbero imbaldanziti, ostentando di aver centrato l’obiettivo. Si poteva immaginare che stessero vilmente pianificando di spodestarlo della spezialeria, introducendo chiari metodi mafiosi, tesi a far intendere che poteva essere in agguato un male maggiore in caso di resistenza.

Era gente capace anche di uccidere, lo sapeva.

Il giorno successivo ricevette la telefonata del Comandante Schirox. «Dottor Coppola, andiamo insieme dal Colonnello per consigliarci sulla linea da seguire nella delicata faccenda».

«Va bene» rispose Franz. «Ha già preso appuntamento immagino».

«Si, per domani pomeriggio».

Il Dottor Coppola non era avvezzo a farsi fare la balia nelle sue cose e tuttavia in questa brutta situazione vi era qualcosa di anomalo che non poteva gestire con autonomia senza correre il rischio di restare solo contro i mulini a vento.

La notte porta consiglio ed era giunto alla conclusione che sarebbe stato difficile per lui saltare la gerarchia della Gendarmeria nazionale senza incorrere nelle legittime ire dei responsabili scavalcati.

«Signor Colonnello!» Schirox scattò il saluto militare portando rapidamente alla fronte la mano destra.

«Riposo» disse il Colonnello.

«Signor Colonnello» ripeté Schirox con fervore «Le presento il Dottor Franz Coppola, il noto speziale della quarta circoscrizione, la persona che ha ricevuto l’attentato nella notte di Natale».

«Conosco il Dottor Coppola» rispose il Colonnello. «E comunque ho seguito la vicenda che lo riguarda».

«Si accomodi, Dottore». Poi si rivolse al gendarme facendogli capire che intendeva rimanere solo con l’ospite.

«Mi dica, Dottor Coppola, conosco per grandi linee la problematica riguardante la diversità d’opinione circa gli attentati. Il Lieutenant Schirox ritiene accertato che il tutto si chiuda nel cerchio della malavita locale, mentre lei ha opinione diversa». Lo guardò con espressiva comprensione «Mi parli della sua idea».

Lo speziale si sporse verso la scrivania del Colonnello come se dovesse fare una confidenza. Era abbastanza indeciso data l’incomprensione col Comandante Schirox; anche perché aveva la sensazione che quel colloquio fosse ormai una semplice formalità, necessaria per chiudere alla meglio la faccenda. Gli appariva abbastanza chiaro che il Colonnello sapesse ormai già tutto.

«Sono desolato di doverla importunare» esordì Franz. «Sono convinto che la malavita locale abbia la responsabilità principale, quale mandante, ma la mia opinione è, diversamente da ciò che afferma il Lieutenant, che vi siano complicità e affiliazioni in altre regioni e che la mala nostrana si sia servita di braccia e di armi che provengono da fuori. Reputo impossibile che nella nostra città si possano fabbricare armi del genere di quelle usate nell’attentato. Poi c’è anche da considerare il forte vantaggio di servirsi di persone sconosciute, non individuabili nell’immediato, rispetto a personaggi in vista della zona che avrebbero avuto necessità di camuffarsi non poco, per cercare di non dare nell’occhio».

Espresse d’un fiato la sua idea nel timore che altrimenti non sarebbe stato neppure ascoltato. «D’altronde, perché proprio a Natale?»

«Non c’è uno straccio di prova o un qualunque significativo indizio che autorizzi a sospettare si sia trattato di un attentato proveniente dall’esterno. A livello di pura e astratta ipotesi, il suo ragionamento non farebbe una piega» commentò il Colonnello «ma credo che, data l’importanza del caso, ora sia più importante fissarsi l’obiettivo di intrappolare i responsabili nostrani, i quali, altrimenti riterrebbero di poter agire ancora e ancora indisturbati. Dopo di che sarà più semplice perfezionare l’operazione».

Nette e rapide le conclusioni del Capo dell’Arrondissement, che molto probabilmente erano state concordate con il Capo Canton Schirox.

«Ma se si trattasse di un’organizzazione alla quale i locali fossero affiliati, non sarebbe opportuno allargare il caso alla Gendarmeria Nazionale?»

«I combattimenti si affrontano partendo dall’interno. Solo dopo aver individuato le mele marce infestanti casa propria si sarà in grado di dedicare tempo e denaro a perseguire la strada delle connivenze esterne» fu la risposta. «Ammesso che ci siano» concluse lapidario.

Appariva ormai evidente che vi era qualcosa che non andava per il giusto verso. Lo speziale si rese conto che non avrebbe avuto alcuna soddisfazione. La conclusione che tutto sarebbe stato gestito nell’ambito locale, con pregiudizio della sicurezza, lo contristò moltissimo. Il rischio concreto era il dilagare di una criminalità più forte e strutturata a livello interregionale e facilmente anche internazionale.

Il comportamento del Comandante Schirox ormai lo aveva assimilato e catalogato. Quello che invece non riusciva a comprendere riguardava le motivazioni del Colonnello, sebbene al momento, non conoscendolo approfonditamente, gli toccasse concedergli il beneficio della buona fede. 

Il ruolo de Lieutenant Schirox, invece, lo aveva intuito bene. Sapeva bene che aprire un caso di competenza nazionale avrebbe significato apertura di fascicoli, intercettazioni e indagini di tal livello, da risultare rischioso e d’intralcio agli amici. Tentava quindi di tenere sotto controllo la situazione e si sforzava risolutamente di persuadere Franz che si trattava della strada giusta ovvero, al più, di semplice quieto vivere.

«So molte cose che si svolgono in questa città ma non tutto può essere messo in piazza senza correre il rischio di perdere l’opportunità di assicurare alla giustizia i criminali più pericolosi».

Franz sapeva ormai per certo che il gendarme mentiva ma doveva per il momento far finta di credere alle sue buone intenzioni.

«Ritengo opportuno lasciare per strada qualcosa di scarsa importanza, che comunque riteniamo poco verosimile, piuttosto che rivelare quanto la legge sia vicina a certe verità. È importante poter lavorare indisturbati sui casi più rilevanti che non mancano di certo» tentò di plagiare Schirox. «Oltretutto è consigliabile lavorare sottotraccia e mantenere buoni rapporti di confidenza con i sospettati» dichiarò con modi sfacciatamente saccenti.

In passato il Dottor Coppola gli aveva creduto davvero, ed aveva considerato oneste e veritiere le confidenze del Liutenant Schirox. Ma allo stato attuale era costretto ad ammettere l’incoerenza e soprattutto l’assoluta malafede di costui. Aveva tentato di metterlo in soggezione, insinuando che fosse uno strozzino ben sapendo della falsità della cosa. Era capace di tutto pur di favorire i suoi discutibili amici.

Molti episodi del passato, visti con una luce nuova, mostravano la loro fallacia.

Delitti non puniti, o puniti male, tornarono alla mente di Franz.

Nei giorni che seguirono, Franz fece mente locale alle confidenze ricevute, sulla base delle quali Schirox veniva considerato in probabile odore di complicità con la costola del clan dei Mitani presente in loco. Il clan stava diventando realmente potente ed aveva mostrato anche una certa vocazione sanguinaria.

Considerò le parole dei giorni precedenti e immaginò il collaboratore di gendarmeria mentre faceva le sue confidenze a Schirox. Il talento di Crispin, con un passato nel Front National nei primi anni della sua costituzione, era risultato evidente al clan dei Militani.

Si era inserito in un gruppo di Guardie Verdi volontarie facendosi accreditare presso le Gendarmerie.

In realtà, tuttavia, non era un vero collaboratore ma piuttosto un falso informatore. Ingaggiato dai Mitani, dopo ogni episodio criminale, portava la sua versione al Comandante Schirox. Questi, a sua volta, svolgeva le indagini sulla base di tali sospetti, che altro non erano che il frutto di scelte strategiche concordate con il clan. Un vero e proprio depistaggio.

Pur tuttavia, anche senza evidenti prove contro di lui, da qualche tempo, si facevano chiare insinuazioni sulle frequentazioni del Lieutenant, nonostante la sfacciata arroganza esibita. Da più parti, in città, si cominciavano a criticare apertamente le anomale conclusioni cui giungeva. La villa di lusso che Schirox si era fatto realizzare in una prestigiosa zona della Costa azzurra, ebbe la sua parte nella considerazione del personaggio. Era chiaro che una tale ricchezza non poteva essere consona alla sua posizione di semplice lavoratore della giustizia.

Nonostante i legittimi sospetti sulla doppiezza del Comandante, Franz Coppola non aveva al momento alcuna possibilità di contrastarne gli abusi. Non si voleva però arrendere senza tentare nulla. Poteva aspettare il momento opportuno, ma non abiurare del tutto rinunciando a quella che lui riteneva una verità manifesta. Al momento opportuno, nel caso si fossero concessi l’ardire di ingaggiare qualche miserabile disposto ad accusarlo, avrebbe agito di conseguenza.

Al momento poteva anche stare al loro gioco, mostrando di rinunciare all’idea che aveva esposto circa l’apertura di indagini fuori dalla competenza locale. Ma si sarebbe preparato per l’atto di rivincita.


 Da “Memoria negata” di Maria Cirillo – inedito, in via di pubblicazione.

 

Il passato di Concetta

 

La vicenda della vita dissoluta di Concetta risaliva agli anni della sua piena giovinezza. A soli 16 anni aveva sposato Giovanni ma, a quanto si diceva, non lo aveva mai rispettato. Presto rivelò atteggiamenti di ordinaria licenziosità e tradimenti dei quali al marito giunse qualche pettegolezzo, che però giudicò come frutto delle maldicenze dovute all’invidia per l’avvenenza di Concetta.

Giovanni rispettava molto la moglie e lealmente l’apprezzava anche per la sua intraprendenza e laboriosità, giacché, specie nei giorni in cui lui andava a Petrera, lei si gestiva da sola gli animali alla Cota. Non voleva dare ascolto alle malelingue rinunciando alla pace ed alla serenità del rapporto. Dare corpo alle ombre era l’ultima cosa che intendeva fare, pervaso com’era dall’impegno di utilizzare l’energia di giovane lavoratore per il progresso della sua bella famigliola che voleva tenere lontana dai malevoli pregiudizi. Oltre all’appassionato amore per la moglie, vi era il grande sentimento per la figlioletta, luce dei suoi occhi, che lo rendeva soddisfatto e appagato della vita.

Il momento della verità, però, apparve inevitabile.

Giovanni fu costretto a prendere in considerazione le maldicenze nei riguardi di Concetta, il cui comportamento pareva fosse così libertino da essere giudicato vizioso. Si diceva che avesse non un amante, ma diversi rapporti con uomini mai visti in paese. Ormai era ad un bivio, doveva accantonare il cieco sentimento ed aprire gli occhi alla ragione e sciogliere i dubbi che ormai lo attanagliavano. Non poteva più ignorare le dicerie anche perché i suoi pensieri erano ormai inconsciamente ottenebrati da un impulso collerico estraneo alla sua personalità. Se fosse stato vero ciò che si mormorava, non poteva escludere che la donna fosse dominata da impulsi sessuali senza controllo, mentre con lui si mostrava buona lavoratrice ed affezionata moglie.

Col cuore in subbuglio, Giovanni decise di sorvegliare Concetta, con prudenza, cercando di non rischiare il tutto per niente. Iniziò col modificare qualche suo atteggiamento, cominciando a ridurre le affettuosità solite e contenendosi un po’ nelle ordinarie intimità. Escludeva le abituali effusioni amorose, nell’intento di provocare le reazioni di lei e cercare di interpretarle. Inizialmente Concetta, come un’amabile moglie, affettuosa e semplicemente dispiaciuta, se ne lamentò chiedendo spiegazione in merito all’insolito atteggiamento, che Giovanni provò a giustificare con il pretesto della stanchezza per il troppo lavoro, ovvero con la delusione legata alla brutta stagione agricola.

Più passavano i giorni, più Giovanni diventava triste ed agitato, sicché la situazione familiare peggiorò al punto che dovette spiegare il proprio comportamento con un finto motivo di salute fisica aggiunto all’eccessivo carico di lavoro. Sua moglie, anziché essere comprensiva e mostrarsi conciliante, cominciò a schernirlo pesantemente e volgarmente. «Sei diventato tutto zappa e niente uomo».

Giovanni, ancora desideroso di proseguire sulla via conciliatrice, evitava di rispondere per le rime e continuava a fingersi sprovveduto e tollerante, limitandosi a generiche difese e leggeri punzecchiamenti.

«Se non lavoro non mangi. Che ti aspetti, che porto da mangiare a casa standomene alla cantina o andando a puttane?» ribatté ricalcando la parola pensando di scorgere in lei un qualche segnale di rossore o di trepidazione. Ma Concetta rispondeva per le rime, come se lei fosse la persona più monda e sincera.

Nonostante il groviglio di sospetti, Giovanni non aveva il coraggio di affrontare la verità, ma ciò gli costava fingere una falsa calma e faticosi compromessi con sé stesso. Non gli andava di mandare in frantumi una vita costruita con amore, sacrificio e lavoro ma era troppo logorato dal dubbio ed era diventata urgente la presa di coscienza e la conoscenza della verità.

Sebbene sperasse ancora di sbagliarsi, giunse il momento che si fece impellente la necessità di spiarla materialmente. Doveva preparare tutto con cura, cercando di non destare dubbi sulla fiducia in lei e così, per rassicurarla, riprese a dedicarle le normali affettuosità e ad adempiere pienamente ai doveri coniugali, simulando l’impetuosità che a lei era tanto gradita.

Petrera era uno dei luoghi in cui, oltre al bosco, Giovanni possedeva della terra da coltivare e solitamente vi si recava una o due volte a settimana. Si trattava di un sito agro-alberato abbastanza ricco e fruttuoso che, però, essendo parecchio distante dal paese, per raggiungerlo a piedi o con l’asino, occorrevano più di due ore di cammino. Informò Concetta che avrebbe avuto da lavorare tutto il giorno e che, dato il bel tempo e la luna alta, sarebbe rimasto fino a tardi tornando solo a sera inoltrata.  Preparò meticolosamente le provviste come solitamente faceva quando prevedeva di trascorrere in campagna l’intera giornata e si congedò dandole un’ammiccante pacca sul sedere molto gradita da Concetta.

«Ci vediamo stasera e, mi raccomando, non farmi le corna».

Poi, ostentando un modo allegro e spiritoso, tale da non farla dubitare di nulla, aggiunse «Naturalmente sto scherzando, fai in modo, piuttosto di non stancarti troppo con i lavori della chiusa e con gli animali e ricordati che quando torno ti vorrò vigorosa e riposata. Per quanto mi riguarda conto di mangiare il pane per strada e al mio ritorno spero di non essere troppo stanco», le sorrise con complicità.

Manifestando gli abituali cenni d’intesa, le pizzicò romanticamente il bel viso che iniziò a immaginare falso e traditore.

Non senza tormento, la decisione era presa e doveva andare fino in fondo.

Aver dovuto mentire così sfacciatamente alla donna che lui aveva sperato rimanesse per sempre nella sua vita, non lo faceva affatto stare bene, ma il dubbio si era talmente accresciuto che non poteva trascinare all’infinito l’incertezza. Era tormentato non solo al pensiero della probabile dissolutezza della moglie ma anche per la loro figlioletta, non potendo sopportare che fosse sottoposta ad un coinvolgimento emotivo legato alla condotta sciagurata della madre. Non aveva mai pensato male della moglie ma non gli era piaciuto aver scorto nella bambina alcuni dei segni di malessere ed un’oscura tristezza. Non capiva il motivo della malinconia che appariva indubbiamente promanare dalla figlia e, in aggiunta, lo amareggiava la sua ritrosia che pareva respingesse qualsiasi affettuosità. Notarne l’esitazione alle carezze sia sue che della madre, tale che ne temesse il contagio, lo trafiggeva. La timidezza poteva essere una naturale reazione della crescita ma si stava tramutando in una creaturina troppo introversa e quasi inibita. Non sapeva e non capiva se l’eccessivo riserbo e l’esagerata soggezione nei confronti dei genitori, fosse o meno spiegabile dall’età, che di solito era quella in cui si fa strada nei bambini la concreta presa di coscienza delle differenze di genere e dei differenti connotati psicofisici. Giovanni aveva constatato che quando la madre le parlava, Rosetta abbassava gli occhi rispondendo a monosillabi. Era preoccupato anche dell’evidente dimagrimento della bambina, che non pareva essere correlato al solo accrescimento fisico, e nel notare che Concetta non sembrava accorgersene nonostante lui glie lo avesse fatto notare, così come non pareva preoccuparsi di stimolarla a mangiare a sufficienza.

Più di una cosa contribuì a convincere Giovanni che fosse veramente urgente capire cosa stesse accadendo in casa sua. Gli venne pure l’atroce sospetto che non solo la figlia fosse poco amata dalla madre, ma che potesse essere destinataria di maltrattamenti se ritenuta di disturbo alla sua libertà. Il pensiero che lo rese terribilmente inquieto fu quando giunse ad immaginare che potesse essere stata persino sacrificata l’innocenza della bambina facendola diventare testimone dei suoi incontri. Giovanni pregò Dio di doversi smentire su tutto, ma soprattutto su quell’orribile ipotesi di forzata connivenza di Rosetta con le tresche della madre.

Con l’animo in subbuglio ma ostentando un grande sorriso, salutò la moglie senza dirle altro, usando lo scudo di una fretta che, in realtà, non c’era.

Durante il finto viaggio, Giovanni rimuginò sulla gravità dei pensieri che lo avevano tormentato negli ultimi giorni e pensò che fosse necessario fare di tutto per risolvere in fretta l’enigma. Il tragitto che si apprestava ad intraprendere era naturalmente preordinato a perdere tempo in attesa del segreto ritorno a casa.

Per non farsi notare sgattaiolò attraverso nascosti vicoli che, da persona socievole e sempre molto solare, solitamente non percorreva. Era rispettato e salutato da tutti giacché caratterialmente, anche in presenza di problemi personali, era abituato a mostrare attenzione nei confronti delle persone che incontrava. Considerava la vita troppo preziosa per non godere dell’affetto della gente ed era convinto che fosse perverso affliggersi per futili e banali motivi. Da perfetto contadino, conviveva con le gravose fatiche giornaliere non perdendo mai di vista il senso positivo dell’unica vita dono di Dio. Questo momento, però, per lui era veramente duro ed in grado di minare la sua naturale positività. La diffidenza nei confronti di Concetta lo aveva fatto diventare un altro, uno che era capace di spiare sua moglie. Si trovava in un vortice in cui il percorso era obbligato se voleva rimuovere l’angoscia. L’ipocrisia e l’ambiguità erano durati troppo a lungo e nelle poche occasioni in cui aveva tentato di affrontare con lei il problema delle dicerie, era finita che era stato costretto a scusarsi per aver ascoltato le maldicenze.

«Devi sapere che i vicini sono invidiosi del fatto che mi vuoi bene e le donne sono gelose ed invidiose perché tu non sei un ubriacone come i loro mariti», gli ribatteva Concetta serafica. 

L’incertezza volgeva al termine. Era deciso a scoprire la verità e, se non fosse stato sufficiente un solo giorno, avrebbe replicato più volte il tentativo del definitivo chiarimento. L’invidia dei vicini poteva anche essere un dato di fatto, ma le voci sull’inaffidabilità della moglie ora provenivano anche da parenti ed amici affezionati. Dicevano che Concetta ricevesse visite anche di uomini forestieri che non avevano nulla a che vedere con quella casa.

Giovanni aveva un grande trasporto per sua moglie e dal primo giorno l’aveva adorata per quanto appariva amabile e spontanea e non gli pareva vero che fosse capace di vivere una vita parallela e contraria alle apparenze. Ormai, però, le interminabili dicerie gli fecero pensare che non fosse la fedele compagna che lui immaginava. Qualcuno giunse persino a malignare che Concetta avesse consumato adulterio già da appena sposata e che Rosetta potesse essere il frutto di un’avventura extraconiugale. Ma Giovanni non avrebbe creduto a quella malignità neppure se fosse stata sua moglie stessa a raccontarla. A parte tutto il resto, la preoccupazione dell’uomo, al di là delle dicerie, era quella di salvaguardare la bambina da una possibile perniciosa situazione.

Ora più che mai, la figlia rappresentava la ragione di vita e la forza motrice delle le sue azioni e preoccupazioni.

Col cuore scosso dal turbamento, si avvicinò in silenzio e con passo felpato nei pressi della vanella di servizio retrostante la casa. Il cavedo era solitamente utilizzato a tarda sera e mattina presto per lo svuotamento degli orinali, rimanendo silenziosa per il resto della giornata dato che tutti si recavano a lavorare presso le rispettive campagne.

La finestrella di casa sua si chiudeva dall’interno con una grata, munita di due boccole di ferro, che veniva appesa a grossi chiodi. Giovanni vide che era chiusa come di consueto e che l’interno si mostrava silenzioso e vuoto. Si vergognò un po’ di essersi ridotto a fare azioni spregevoli, ma non poteva non portare a compimento l’opera intrapresa che ormai gli appariva ineludibile.

Trascorse circa un’ora da quando Giovanni si imboscò nel vicolo e nulla parve accadere. Pensò di passare alla verifica successiva, cioè andare a controllare se Concetta si fosse recata alla Cota, ma nell’istante in cui provò a voltarsi per andar via, udì un rumore presso l’entrata della vanella. Si eclissò velocemente nell’insenatura buia di un porticato che gli consentiva di scorgere, non visto, il nuovo arrivo.

Si trattava di qualcuno mai notato in paese. Questi avanzò piano fino a raggiungere la finestrella dove si aggrappò con tranquillità.

Giovanni divenne livido di rabbia ma decise di non fare nulla. La sua vita stava crollando. Verificare che faccia avesse quell’estraneo era l’ultima cosa che gl’importava. Seppe quanto gli bastava, cioè che quell’estraneo rappresentava semplicemente l’occasionale strumento del disfacimento della sua vita. Udì l’uomo articolare qualcosa a bassa voce, ma non ebbe le emozioni che si aspettava e non venne neppure sfiorato da alcun senso di aggressività fisica. Il suo struggente pensiero volò verso sua figlia e all’urgenza di sapere dove si trovasse in quel momento. Non avendo sentito rumori dentro casa durante più di un’ora di attesa nel vicolo, fu certo che Rosetta fortunatamente non si trovasse nel luogo del tradimento.

Con tanto freddo nel cuore, Giovanni si diresse velocemente verso la Cota. In meno di dieci minuti fu alla campagna dove vide la bambina tranquillamente seduta sull’uscio della baracca, con le galline che beccavano intorno.

«La mamma ha detto che andava a casa a prendere il pane».


 Da “I Carafa e la Calabria. I Carafa della Spina” (Aldimari ed altri autori antichi e moderni), di Maria Cirillo, inedito, in via di pubblicazione

 

Mitica prosperità di Calabria

 

[…] Il trattato “Della Calabria illustrata” di Giovanni Fiore da Cropani, dedica doverosa attenzione agli aspetti che mettono in risalto le ricchezze naturali di una regione che definisce per natura «fortunata».

Sono state considerate parecchio lucrose le attività che traevano origine dal legno e ritenute di grande importanza, anche per l’impiego che se ne faceva, con particolare riferimento alla costruzione di navi e remi, vascelli, galeoni, galere, felluche, e tutto ciò che «veleggia» in mare. Inoltre, l’abbondante legno rendeva possibile la costruzione di case e quanto altro utile «all’umano vivere».

Nella sola Sila annualmente vi erano attive dieci serre. Le serre erano presenti anche in Aspromonte e nelle montagne di Arena, Fabrizia, Mammola, Santo Luca d’Ardore e Santo Stefano del Bosco.

La ricchezza boschiva calabrese risultava abbondante e di enorme importanza. Fiore rammenta che Papa Sergio I (pontefice dal 687 al 701) fece portare dalla Calabria «le gran travi» occorse per riparare la grande Basilica di San Pietro a Roma.

La quantità di legno calabrese, non solo era sufficiente a soddisfare i bisogni locali, ma ne consentiva lo smercio.  Oltre a costituire fonte di guadagno dei mercanti, il commercio di legname permetteva di ricavare da vivere a molta gente del popolo, non soltanto in funzione del lavoro di abbattimento e taglio degli alberi, ma anche in riferimento alle attività di trasporto e imbarco del legname prodotto.

Tra le numerose risorse naturali della terra di Calabria è specificamente segnalata la ricchezza della cacciagione, composta da numerose varietà di fiere, annoveranti spaventevoli animali, quali gli orsi, leoni, tigri e simili assicurando che non esiste animale selvatico che qui non ci sia. Vengono elencati capri, cinghiali, volpi, lepori, gatti, testudini, agliri, nonché abbondanti uccelli: pernici, faggiane, colombi, tortore, merli, malvizze, quaglie, mellardi, pettirossi, fucetole, cardellini, rosignuoli, calandre, passeri e qualsiasi altro uccello. La generosità della natura nei confronti della regione sarebbe provata non solo dalle bellezze naturali e dall’abbondanza di alberi da frutto, ma anche dal congiunto privilegio di essere feconda di ogni tipo di minerale, compreso il ferro che ancora si lavorava nelle montagne di Stilo.

Nel capitolo “Della Calabria Fortunata”, Fiore traccia una specifica e intensa descrizione delle buone cose in dotazione, a partire dalla salubrità dell’aria ed assicura che nella regione finanche la manna non durò per soli quarant’anni, ma per sempre. Discorre anche della varietà e bellezza dei fiumi e della qualità delle acque, includendo quelle medicinali e catalogando in tal ambito i Bagni di Nicastro e di Gerace, le acque sulfuree di Tropea ed i bagni medicinali di Guardia e di Bagnara.

Tratta poi della pesca e degli animali da guerra e da soma, nonché di quelli da alimento e da latte; delle api e del miele, della fertilità della terra e dei vari ortaggi, frutti e legumi, nonché dei funghi, dei lini e dei bambagi. Segnala, quindi, l’esistenza di innumerevoli erbe medicinali, per il cui «lungo catalogo» rimanda all’opera di Girolamo Marafioti.

L’appassionata dissertazione conclude con l’affermazione che la Calabria non fu solo regione fortunata, ma «la migliore del mondo» e, a conferma, chiama in causa l’opinione del poeta Francesco Petrarca, che «antepose» l’Italia al resto del mondo, nonché l’abate Ferdinando Ughelli, che poeticamente descrisse la Calabria come la provincia migliore d’Italia (“non perché poco le manchi; ma perché abbonda del tutto, tanto che non sia bisognevole dell’altrui, e per altro è ubertosa sì, che possa dare a tutti”).

Carafa contro Tommaso Campanella

Tommaso Campanella nacque a Stilo, in Calabria, il 5 settembre 1568. Il suo nome di battesimo era Giandomenico, nome che cambiò in onore di San Tommaso, dopo essere entrato nell’ordine dei domenicani. Figlio di un ciabattino, crebbe in un ambiente contadino e povero e la sua formazione iniziò da autodidatta. 

 […] Campanella si rendeva conto dei tanti problemi affliggenti la sua terra, tra cui le incursioni dei pirati turchi, le calamità naturali e il malgoverno degli spagnoli, che stavano portando la popolazione all’esasperazione, e mirava alla liberazione della Calabria dal loro dominio, all’abolizione della proprietà, all’instaurazione di una democrazia di tipo comunistico e teocratico. Il clima apparve idoneo alla rivolta e così, insieme ad alcuni compagni e discepoli, preparò una congiura per rovesciare il dominio dei feudatari e del clero.

Il progetto fallì, nonostante la vasta adesione e l’alleanza segreta con i Turchi. Venne arrestato e rinchiuso a Napoli e nel 1602 fu condannato al carcere perpetuo. Restò in prigione ventisette anni: in questo periodo riuscì a lavorare e compose gran parte delle sue opere maggiori. Riuscì a conquistarsi la simpatia dei suoi carcerieri spagnoli, assegnando loro, nei suoi libri, un ruolo importante nella «riforma universale» da lui auspicata. In questo periodo scrisse anche La città del Sole, opera utopica che riassume le sue concezioni politico-religiose.

Scarcerato nel 1626, fu nuovamente rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, dal quale fu liberato (1629) per la benevolenza di Urbano VIII (che gli aveva fatto dare il titolo di magister e lo teneva come consigliere in fatto di astrologia). Scoperta la congiura a Napoli di Tommaso Pignatelli, filosofo ritenuto seguace di Campanella, la Spagna chiese l’estradizione di quest’ultimo, che il papa rifiutò, consigliando al filosofo la fuga. Il 21 ottobre 1634 Campanella lasciò Roma e l’Italia e si stabilì a Parigi, dove ebbe accoglienze amichevoli e poté finalmente iniziare la pubblicazione delle sue opere.

La benevolenza nei confronti di Tommaso Campanella fu una continua altalena. Egli, in fondo, desiderava dar vita a una città vivibile, dove regnasse il bene. Non si considerava ribelle e non riteneva di meritare la morte dacché, al contrario, annunciava e desiderava «preparare un bene da un male». Fino agli ultimi anni della sua vita, «non dimenticò il bene», basti ricordare la sua difesa di Galileo Galilei che scrisse mentre si trovava in carcere. Morì nel convento di Saint-Honoré il 21 maggio 1639, dopo una vita di continuo vagare tra prigioni, congiure e fughe.

Tommaso Campanella era stato amico di tanti notabili, si frequentava con Principi e Signori «et in particolare col principe della Roccella, et col Marchese di Arena».

Nonostante la frequentazione, il Principe di Roccella, Fabrizio Carafa, figlio di Livia Spinelli e nipote di Carlo Spinelli, Principe di Scilla, che si era distinto per la difesa contro i turchi, si scagliò contro Campanella, benché precedentemente gli avesse mostrato benevolenza e ne avesse ammirato alcuni lavori, tra i quali la tragedia intitolata Maria Regina di Scozia. In concreto furono proprio le truppe del principe di Roccella a catturare Campanella e Domenico Petrolo, suo amico fedele. La sera del 6 settembre 1599, i due vennero scortati, con gran dispiegamento di truppe, a Castelvetere. Partì un processo per eresia, soggiacente però a una «feroce manipolazione» con la partecipazione del vescovo di Gerace Bonardo, di Xarava e fra Cornelio.

Anche il clima di terrore giocò una parte notevole atta a far sciogliere non solo la lingua ma anche «e soprattutto la fantasia» di molti che, pur di salvare la pelle, furono pronti a sottoscrivere tutto ciò che i carnefici pretesero. Nei primi giorni di settembre gli incarcerati furono 34 e annoverarono laici ed ecclesiastici, nobili e popolani. Il 17 di settembre il numero salì a 59. La sede delle esecuzioni venne spostata a Napoli e, sulle navi che dovevano trasportare i carcerati, a Bivona, presso Pizzo Calabro, salirono anche coloro che andarono a prendersi gli onori per l’azione di repressione compiuta. Con la stessa nave si imbarcano anche personaggi che si recano a Roma per l’imminente «anno santo», tra cui il principe di Roccella Fabrizio Carafa e alcuni suoi servitori.

Nelle carceri napoletane Tommaso Campanella fu sottoposto a torture atroci, ma fu proprio appena uscito da quel tormento che scrisse la Città del Sole.

Tommaso Campanella evitò la condanna a morte soltanto fingendo la pazzia. Sopportò le torture a cui lo sottoposero per smascherare la sua finta follia e riuscì a far commutare la pena di morte nel carcere a vita.


 Figliol prodigo

 

Hai udito l’amara parabola

del figlio malvagio e il padrone.

Chi ha dato sé stesso all’amore

ha compiuto soltanto un dovere;

Chi torna da tragiche vie,

corrotta l’umana virtù,

accolto da feste e da balli,

soddisfa il suo egemone sogno.

Tutto ritorna alla mente

del povero uomo fallito:

dal primo vagito innocente

al tormento dell’eroica fuga.

Le ombre che hanno oscurato

un trascorso ormai rinnegato,

son solo motivo di elogio,

al coraggio che Dio gli ha donato.

E Tu,

povero figlio,

che mai rimpiangesti

illusorie avventure,

l’amaro or ti viene

a scoprir frizzante di vita,

fallace condotta,

che è sol trasgressione.


 Sentimenti

 

Possiamo esprimerci come ci pare, e magari mentire. Ma l’anima non mente.

Possiamo dire di essere dei duri, delle persone determinate e che non si piegano al dolore, ma non è così.

Siamo, innanzitutto, sentimenti. I sentimenti non mentono, perché sono parte dell’anima.

Non ci si può vergognare dei sentimenti e neppure farsene intimidire. Vedi, leggere dei sentimenti degli altri a volte ci aiuta a comprendere i nostri. E non solo: alle volte sentiamo di poterci immedesimare in essi. Questo è il bello della vita. Per quanto siamo singolarmente “unici”, al contrario, nella grande umanità nella quale viviamo e soffriamo, siamo tutti assimilabili. Siamo fatti per la maggior parte di spirito, ed i sentimenti positivi sono in grado di farci raggiungere l’acme dell’infinito.