Maria Felicia Gelonesi - Poesie

Diario di una maestra (In tempo di lockdown)

Sono una persona, una donna, una maestra. Tempo per pensare adesso ne abbiamo tanto tutti. Volendo.
É lunedì, l’inizio di una settimana diversa da tutte le altre.
La strada che porta a scuola è silenziosa. Fino a pochi giorni fa l’attraversavo tra sciami di mamme, papà, bambini. Alcuni vivaci, altri quasi dormienti. Ogni mattina di lunedì il solito rituale: dall’ aula vedo i bambini arrivare mentre percorrono il lungo corridoio della scuola, con l’enorme zaino sulle spalle, sempre più grande di loro.
Si fermano, tolgono i loro cappottini, chiacchierano, si raccontano il fine settimana, si scambiano figurine.
Ci salutiamo con allegria, scherzo con loro, sono sempre felice di rivederli.
A scuola stanno bene, è un ambiente accogliente e sicuro.
C’è il bambino dagli occhi azzurri, col ciuffo biondo pieno di gel; l’intellettuale che appena arrivata mi chiede: ma tu lo sai quanto fa 12 x 12 ? E subito mi dice il risultato.
Arriva poi il bambino, piccolo scienziato: ma lo sai che i dinosauri. Sa sempre tutto, lui. E poi la bambina che ti chiede di sistemarle i capelli, sempre scompigliati, e quella che ti abbraccia senza parlare. Ogni mattina ce n ‘ é una … Piccoli racconti infiniti, piccole grandi storie.
Maestra, oggi cosa ci fai fare?
Hanno esultato in questi giorni quando ho presentato il numero 100 : “ehhh…”
Per loro un grande traguardo!
Giovedì invece, non hanno dimostrato entusiasmo alla notizia della chiusura della scuola, erano dispiaciuti, qualcuno ha anche pianto.
Ci rivedremo presto bambini, non voglio raccontare di voi ma, stare insieme nel migliore mondo possibile. Come solo con voi si può stare.
(Marzo 2020)

 

 

 

Passeggiata romantica post Covid (Maggio 2020)

Un venticello lieve accompagna i nostri passi, attraversando un tiepido pomeriggio di giugno.
È invitante appropriarsi di Roma, dopo lungo tempo e aggirarsi per le vie, intorno alle piazze, alle fontane, ai palazzi, abituati da sempre ad essere ammirati.
Un senso di intimità, di appartenenza pervade piacevolmente l’animo.
L’ assenza totale di turisti stranieri attenua il sentimento cosmopolita della capitale. Appare ora un grande luogo dove tutti si riconoscono perché hanno vissuto la medesima angoscia e adesso pensano di essersene liberati.
Con leggerezza, un passeggiare lento tra i vicoli del centro. Come se si volesse cogliere il vecchio con occhi nuovi, con compiaciuta consapevolezza che Roma c’è e ci sarà sempre.
Basta saper aspettare per coglierla nel momento giusto a cuore aperto, apprezzando ciò che a volte la quotidianità ci fa dimenticare.
La bellezza, che non muore mai.

 

 

 

Isola BISENTINA tra storia, arte, natura.
Lago di Bolsena. Un giorno sul battello

L’ isola, adagiata sul lago, ci osservava dall’alto, con la sua torre diroccata.
Il sole declinava lentamente mentre i nostri occhi scivolavano lungo rocce levigate dal tempo.
Fasce di luce rosa- violaceo avvolgevano i voli dei gabbiani accompagnati dal loro vocio incomprensibile.
Cosa dicevano nel loro gaio volteggiare?
Lontana dalla terra, riflessa sul lago, la torre ascoltava, fiera, col suo manto rigogliosamente verdeggiante dove, boschi di pioppi, platani e larici si specchiavano su intriganti insenature.
L’ isola accoglie ancora, vestigia di personaggi noti, aneddoti di dame e papi.
La storia racconta un passato glorioso che solo gli uccelli, guardiani ignari, portano in alto, nel loro andare lontano, tra fessure di spazio senza tempo.
La sera scendeva, mentre il battello riportava i nostri occhi verso la terraferma, dove adesso, la storia continua il suo corso. Un’altra storia.
GIUGNO 2020

 

 

 

Un giorno a trastevere

Non era un parcheggiatore abusivo, come se ne vedono tanti in questi ultimi anni.
Lui aveva un motorino su cui c’era scritto “traslochi”.
Mi fermai ad osservarlo.
Aveva un viso con lineamenti delicati, simpatico sotto un grande cappello bianco. Era alto e snello con mani da pianista.
Non so se volesse guadagnarsi la vita facendo traslochi (essenziali) col suo motorino o se sul motorino traslocava, da città in città, la sua vita stra-vagante.
Gli diedi un euro.
Lui con insistenza mi volle dare il resto di 50 centesimi e al mio rifiuto, sempre insistendo, mi disse: facciamo a metà, così è più giusto! Sorrisi.
Che tipo!
Forse voleva salvare la sua dignità,
Gli bastava meno di ciò che aveva.
Mi chiese di fargli delle foto con il mio cellulare e di tenerle, così mi sarei ricordata di lui. Lo feci. E un sorriso di tenerezza riaffiora ancora quando riguardo quelle immagini.
Era un giorno d’estate a Trastevere.
LUGLIO 2020

 

 

 

Atmosfere ed angoli di mondo

Ci sono posti che richiamano altri luoghi, luoghi mai visti e forse solo immaginati. Ma senti che ti appartengono perché le atmosfere che suscitano sono già dentro di te, da sempre. Li riconosci per averli semplicemente sognati, desiderati. Ritornano nel tempo tramite un colore un fremito di emozione, lasciato disteso sulla sabbia e poi cancellato da un’onda distratta. Sono angoli di mondo.
Bagliori. Canti tribali.
T ‘incantano come sirene e nell’ ipnosi di un momento, ti rapiscono.
Poi ti lasciano andare e mentre vai, sei sicura di aver fatto un viaggio nel tempo o in un angolo di mondo. Il tuo.

 

 

 

Stazione del Sud

Le stazioni nei piccoli paesi, con alberelli intorno e fontanelle a getto continuo, sembravano piste da gioco per bambini.
Eppure da lì partivano e arrivavano storie.
Tanta era la gente che non partiva mai e andava ugualmente alla stazione, su panchine un po’ rotte o scomode sostava con attese, a volte, lunghe una vita.
C’era chi chiacchierava con l’ amico occasionale, chi da solo e c’era chi fantasticava guardando treni che arrivavano da lontano e lontano andavano.
Treni che portavano via sogni immaginati e mai menzionati.
Speranze appena accennate.
Quanti si lasciavano andare come portati da cavalli su una giostra in corsa!
Lasciavano andare, a volte, anche la loro vita aspettando nelle stazioni mai esistite treni mai partiti.

 

 

 

Il mio caledoscopio

Lo prendevo in mano quando volevo sognare.
Lo preferivo spesso agli altri giochi.
Guardavo dentro, il mio sguardo scorreva lungo quel tunnel buio e alla fine, sullo sfondo, scoprivo un mondo.
Variopinto, mutevole dove si intrecciavano i colori, si rincorrevano, combinando figure, galassie, mondi sconosciuti , per la gioia della mia fantasia.
Incantata, nel silenzio dei colori, danzavo con loro, dimentica del mondo intorno.
Stamani davanti ad alcuni fiori colorati, schegge di rubino, ho pensato a quel lontano, piccolo caleidoscopio.
Il mio incanto é rimasto uguale, anche se il nostro mondo oggi é cambiato per sempre.!

 

 

 

La “Casamadre”

La casa, per me è come la Madre. È un rifugio che accoglie, consola, protegge. Quando racconto di” casa mia”, istintivamente, mi riferisco a quella in cui sono nata e cresciuta.
Quella stessa casa dove é nata mia nonna, mio padre, i suoi fratelli.
Dove le mura trasudano storia, spessore affettivo, emotivo.
Ho pianto non so per quanto tempo, quando l’ho lasciata per trasferirmi a Roma.
Un pezzo di me è rimasto sempre li, impresso su quelle mura, spesse, solide,
su stanze dai soffitti alti e solenni, dove riecheggiavano le mie risate e gli strilli di piccole paure.
Sono stata costretta a venderla.
Adesso non c’ é più, é stata demolita, ricostruita da altri proprietari.
Non ritornerò più al paese, la mia casa rimarrà dentro di me, intatta, con le voci dei miei cari, di me bambina, con la vita che dentro l’animava.
Adesso la casa attuale, a Roma, mi vede in un altro tempo, in un’altra storia.
Ma le storie dei paesi, le tradizioni, le credenze dei miei luoghi sono il mio humus.
Se mi ritrovo come sono adesso é grazie a ciò.
Mi rimane dentro il profumo di azalee che a primavera inondava “casa mia”.

 

 

 

Due Novembre

Ogni anno, le caldarroste preparate da mia madre con la padella forata, le pannocchie di granturco abbrustolite da nonna, il 2 novembre alle porte, preannunciavano che ormai si era entrati in pieno autunno.
Novembre, per me, era sempre un mese di passaggio tra l ‘ estate, ormai sfiorita e sempre più lontana, e l’attesa del Natale.
Il culto dei morti da bambina lo vivevo con abbastanza tranquillità. Mamma, il giorno che precedeva il 2 novembre si affaccendava a comperare candele, lumini e fiori freschi per parenti ed amici che riposavano da tempo.
Alle 10.30 veniva celebrata la S Messa in memoria dei defunti direttamente al cimitero. All’ epoca era un luogo piccolo, posto poco lontano dal paese e circondato dai cipressi. Si accedeva, dopo aver fatto pochi scalini, da un grande cancello grigio in ferro battuto.
Ricordo ancora il profumo pungente dei cipressi dei crisantemi e delle candele sciolte.
Insieme a mamma visitavo la tomba dei miei bisnonni e di qualche prozio, anche perché avevo tutti i parenti e i 4 nonni vivi e vegeti e, con orgoglio, anche una bisnonna.
Intorno a me ricordo le donne del paese, interamente vestite a lutto stretto, piangere i loro cari con grande drammaticità. Lamenti lunghi ed accorati, a volte accompagnati da vere e proprie frasi con cui invocavano, inginocchiate davanti alle foto, il nome di chi non c’era più.
Quando la dipartita avveniva per incidente o per mano d’ uomo i pianti delle donne (madri, mogli o sorelle) si facevano ancora più acuti.
Forse un retaggio delle prefiche dell’antica Roma.
Per questo motivo e, forse, per esorcizzare quelle visioni tristi e inquietanti appena mia mamma girava gli occhi, io e mia cugina senza farci vedere, giocavamo saltando sulle tombe situate sul suolo. Cosa di cui oggi mi vergogno solo a pensarci.
Avevo 18 anni quando entrai per l’ultima volta in quel luogo, a causa della perdita prematura del mio grande papà.
Non riuscii più a metterci piede, per lungo tempo.
Dopo gli studi universitari lasciai il mio paese e mi trasferì altrove per lavoro.
Passarono 25 anni e un pomeriggio di un agosto rovente, rientrata in Calabria per le ferie estive, decisi di ritornare in quel “luogo del pianto” accompagnata dalla mano dell’uomo con cui avevo scelto di condividere la mia vita.
Il sole, lento, declinava sui cipressi
Il silenzio riportava voci lontane, visi impressi nel cuore.
I nonni, gli zii, papa’ , tutti mi guardavano dalle foto sorridendo, come a dirmi : non aver paura perché sei stata da noi molto amata .