Maria Gisella Catuogno - Poesie

Stillano i giorni

 

Stillano i giorni il loro avaro miele
e lo mescolano all’amaro quotidiano
per tentarmi alla vita, nonostante.
E i nodi dell’ansia che arrochiscono
la voce e la baldanza
profumano di nardo tuttavia.
Arpeggia lieve la mia malinconia
e le sue note si perdono nel vento
non fa più male, ormai, è solo compagnia.
Avvolgo alla mia rocca il filo del passato
[sguardi, sussurri e lame di parole
sorrisi, pianti e grumi di dolore
perle di gioia e grandine di rabbia]
e ne alimento il fuso del presente
pungendomi le dita, non di rado.
Non ho un principe azzurro al mio risveglio
né fatine gentili a trepidare
ma guardo incantata i petali dell’alba
riempio d’acqua sorgiva le mie brocche
aspetto il sole, che sciolga questa brina.



Levità

 

Lieve è il suo passo:
non vuole spaventare
le farfalle o far tacere
i passeri sul ramo
né ingrigire i pensieri
-per una volta-
azzurri nel mattino.
Quasi è sorpresa
della filigrana eterea
dei suoi sogni
destati dalla polvere
di sole del risveglio;
non ne rammenta
intreccio e nodi
ma l’impressione
di quieta soavità
che li confonde
e li lucida a nuovo
come l’erba d’un prato
dopo un acquazzone.
Chissà se il miracolo
dell’armonia di pelle
e cuore si perderà
come schiuma marina
nell’ebano dell’acqua
o avrà la tenacia
del faro acceso
nella notte fonda?


 

Chi bussa alla mia porta

 

Chi bussa alla mia porta
s’aspetti lo scalino incrostato
di sale e di conchiglie
e reti da pesca stese
ad asciugare sull’erba;
s’aspetti stanze mute di finestre
e varchi di luce e cielo
al loro posto
e sotto, se s’affaccia,
il mare che dilaga.

S’aspetti nuvole che giocano
a rincorrersi,
mulinelli di vento
per fughe d’aquiloni
e Malinconia che danza
tra pareti d’alba e di tramonto.

S’aspetti odore di tamerici
e visite di rondini
dai nidi sotto il tetto,
sulle mensole vetrini colorati
e pile di libri
che arrivano al soffitto.

E ovunque canestri intrecciati
da silenziosa pazienza
dove cercano pace
i giorni trascorsi:
profumati di muschio e vaniglia
vestiti di seta e di tulle
o dimessi, ornati di nero e viola,
intrisi di pianto e tristezza.

Chi bussa alla mia porta lo sappia
che ho solo questo da offrire
oltre a ghirlande di biancospino
che piovono petali di fragile bellezza.


 

A mia figlia per l’8 marzo

 

Che ti posso offrire, figlia mia,

oggi otto marzo, festa della donna

di questi miei pensieri deboli e opachi?

Vorrei intrecciare per te serti di rose

e canestri di speranze alate;

lucidare ancora di più il cielo

già terso e lindo d’un marzo

appena in fasce ma già pronto

a scalzare il grigio dell’inverno

per offrirtelo come dono

con tutta la sua luce e il suo tepore;

e raccontarti, se trovassi le parole,

la bellezza e la fatica d’esser donna

e il regalo prezioso che ho avuto dalla vita

di condividere con te un tratto di cammino

di specchiarmi nei tuoi occhi immensi

riconoscendovi barlumi d’antica identità.

Tu percorri altre strade, altri studi, altre passioni

non ti consuma la letteratura, ami le scienze

preferisci il come al perché che sfinisce ed è vano.

T’offro un rametto virtuale di mimosa

lo cerco tra le immagini, lo invio in allegato:

deve essere giallo e bello come il sole

ne sentirai il profumo attraverso il pc

e penserai a una mamma orgogliosa di te

che t’aspetta sull’isola tiepida di primavera.


 

 

Le vostre dune

 

Le vostre dune e piste di deserto

i vostri alberi e erbe di savana

i vostri cieli di fuoco e d’ambra fusa

il vostro tamburo di sole sopra il capo:

questo vedo nel vostro sguardo perso

oltre il gran mare

che tanti ne ha inghiottito.

 

E le gazzelle in corsa

le mandrie incalzate dalla sete

il sangue che condisce il fango

dei villaggi sconvolti dalle guerre

 

e la fierezza

che vi è sorella

 

anche quando bussate

carichi di merce e di fatica

alle nostre case

calde e inospitali

 

e non vi lamentate:

 

questo grida il vostro sguardo

scuro come la notte e il dolore.



Isole

 

 Sono barche ormeggiate
sul respiro del mare
e la resa del vento, la sera
dopo l’oltraggio diurno del maestrale;
miraggio ai naufraghi
d’impalpabili vite
incatenati all’onda dei ricordi
cerchi imperfetti, compiuti
in nitide geometriche identità
di verde e d’azzurro
abbracciate a se stesse
solitarie e pensose
nel momento solenne del tramonto.
Si raccontano storie
che galleggiano sul candore
della schiuma, tulle di sposa
sullo specchio placato dell’abisso,
come sorelle ciarliere ma lontane
che alzano la voce per capirsi
sotto l’ala distesa dell’alzavola
e lo sguardo acuto del gabbiano in volo.


 

Marzo

 

Fragilità nel tepore di marzo
dei petali dell’albicocco in fiore
sospinti da chissà che furore di linfa
a ricamare di bianco rosato il legno stanco;
e nei campi e nei fossi la smania dell’erba
a riscattare di nuovo e di verde lo sterile inverno.

Inutile dirsi che nulla è diverso:
il giorno rincorre la notte
e il tempo ricama le rughe;
la risacca sonante racconta
naufragi di speranze migranti
[sciame di vespe ronzanti
che non trovano dove accasarsi]
e il cielo distante distratto
rimane alle preghiere
[mare nero terra amara]

Inutile dirsi che nulla è diverso:
marzo gocciola miele d’acacia
scioglie la brina testarda
schiude gemme ed attese
azzarda la vita, sebbene.


 

Un sussulto

 

(contro la violenza sulle donne)

Un sussulto, concediti un sussulto

di dignità, di misericordia:

non sono carne da godere o da macello

sono creatura, come te

contraddittorio impasto

di cielo e di terra, di miele e di dolore.

Devi accettarmi, non plasmarmi

-come argilla il vasaio-

sono pesanti le tue mani

magli che illividiscono

e spaccano la pelle, aprono rivoli

di sangue, lacrime ed orrore.

Non appartengo a te

né a nessun altro, sappilo:

io sono della stessa materia delle stelle

degli acini che si gonfiano nel grappolo

della linfa che vivifica i tronchi

e fiorisce gemme a primavera.

La mia anima è ovunque, credilo:

nelle maree lievitate dalla luna

nei movimenti delle posidonie sui fondali

nel frullìo d’ali degli uccelli

nel vibratile sussurro della neve.

Non è forza la tua, è solo debolezza

vigliacca, che m’umilia e t’umilia

che recide ogni filo della trama

tessuta un giorno insieme.

Perché l’anima, sai, non si possiede

non si possiede mai.

E questo corpo su cui cantasti

un giorno, forse, una canzone d’amore

è diventato una sfida e una prigione.

E’ sbocciato l’odio nel mio cuore 

e lo coltivo come fosse un fiore.

E mi ripeto che questa non è vita

è un cadavere senza sepoltura

un incubo perverso e allucinante

l’inferno, senza averne colpa.

 


 

 Lo specchio di Virginia

 

Per Virginia lo specchio era fonte di inesauribile soddisfazione: le rimandava l’immagine di una dea dell’Olimpo, di una “statua di carne”, come l’aveva definita, piena di invidia, quella bisbetica della principessa di Metternich. Era il primo buongiorno che si concedeva al mattino, spogliandosi nella sua camera da letto, finalmente sola, quando quel noioso di suo marito usciva di casa per i suoi affari e lei pigramente apriva gli occhi e cominciava a prendere contatto col mondo. Prima di chiamare la servitù, farsi servire la colazione e cominciare la lunga estenuante toilette che avrebbe occupato gran parte della mattina, le piaceva liberarsi della serica camicia da notte e guardarsi. Per quale sorta di miracolo era così bella, così perfetta? Davvero Venere e gli Amorini avevano vegliato sulla sua nascita colmandola di attrattive! A cominciare dalla pelle di velluto, bianchissima, per passare ai lunghi capelli movimentati da morbidi ricci, e a quel corpo che faceva impazzire di desiderio tutti gli uomini che la conoscevano: non c’erano politici e diplomatici, re o banchieri che le resistevano. Davanti a lei, lo stava sperimentato giorno dopo giorno, da quando le si erano aperte le porte della corte sabauda, anche i personaggi più potenti, quelli che facevano la Storia, diventavano semplici maschi eccitati. E di questo godeva, assai più degli amplessi che si concedeva generosamente, in fondo anch’essi monotoni e ripetitivi!
Il potere di sedurre era molto più soddisfacente della seduzione stessa!
Lo specchio, davanti a cui sostava scrutandosi attentamente, alla ricerca di imperfezioni inesistenti, con lo sguardo di un’estranea che dovesse giudicarla, le raccontava occhi cangianti dal verde all’ azzurro, naso delicato, seno alto e armonioso, cosce lunghe e affusolate.
Sapeva di suscitare la rabbia e il rancore delle altre donne, ma anche di questo godeva: poteva portarsi via i loro uomini con uno sguardo, un valzer, una scollatura audace, un tocco più deciso delle sue mani leggendarie.
-Chi sei? Che farai di grande? Possibile che tutta questa bellezza sia fine a se stessa? Non sarà invece un segno del destino?- chiedeva all’immagine riflessa, mentre la stanza si inondava di luce e il sole danzava sul letto abbandonato.
Poi, a malincuore, doveva rinunciare alla contemplazione di sé, per cominciare la giornata. C’era una novità eccitante: Cavour le aveva parlato di una missione a Parigi presso Napoleone III, si profilava all’orizzonte un suo trasferimento nella ville lumière! Del resto il suo matrimonio era ormai a pezzi, Francesco aveva chiesto la separazione e il piccolo Giorgio non poteva certo impedirle di fare la sua vita. Sapeva di essere non solo bella, ma anche scaltra, intelligente e colta. Il francese, poi, era la sua seconda lingua. Avrebbe potuto fare qualcosa di importante ed essere ricordata per sempre! Questo non valeva forse una separazione, la maternità sopportata, il disprezzo della buona ed ipocrita società piemontese?
L’unico cruccio era che anche il Nigra la incoraggiasse: era stato uno dei suoi tanti amanti, ma di lui, forse, si sarebbe potuta innamorare… soltanto da lui accettava di buon grado quel nomignolo affettuoso, Nicchia, con cui la chiamavano i suoi familiari da piccola, per la curiosa abitudine di raccogliersi come una conchiglia.
Quel nome le ricordava il Golfo dei Poeti, che lei chiamava romanticamente Ariel, suo padre e sua madre, La Spezia che amava e che le rimaneva nel cuore, anche dopo il trasferimento a Torino e i fasti della corte. Era quella la sua città, al punto da negare la nascita fiorentina, in quel ventitré marzo 1837 di tiepida primavera, per proclamarsi spezzina: “ Sono nata alla Spezia, mi sono sposata alla Spezia e voglio essere sepolta alla Spezia, mia ingrata, ingiusta, amata città” scriveva nel suo diario. Non sapeva spiegarsi razionalmente quell’attaccamento: era piuttosto un’inclinazione naturale dell’animo verso quel luogo, quel paesaggio, quel golfo che si apriva a perdita d’occhio sul cobalto del mare alimentando i sogni e la fantasia. Quante volte, da bambina, aveva immaginato di viaggiare, a bordo di quei velieri, diretti chissà dove, ai confini del mondo…e con quale gioia, passeggiando lungo la riva, mentre il sole giocava con l’acqua, aveva raccolto conchiglie: le piacevano tanto quelle forme, quelle cavità misteriose nelle quali si nascondeva, come gemma nello scrigno, il profumo e il rumore del mare. Del resto anche lei non era forse una “nicchia” quando dormiva, raccogliendosi stretta stretta, intorno a se stessa?
Poi, a sedici anni, l’addio alla bella villa, alla famiglia, al suo golfo, per sposarsi: perché l’aveva fatto? Non per amore ma per curiosità, per la costante irrequietezza che l’accompagnava. La solleticava l’idea di diventare “ la contessa di Castiglione”, poter frequentare il potente cugino di Francesco, entrare a far parte di quel mondo dorato. Il conte aveva dodici anni più di lei, era gentile, innamorato, stregato dalla sua prepotente bellezza. Così Nicchia si era tuffata in quell’avventura…che presto l’aveva profondamente stancata.
Per lei ci sarebbe voluto un uomo diverso, più forte, più determinato, che la sapesse guidare con autorevolezza.
Invece Francesco l’accontentava in tutto, anche nei suoi capricci più indisponenti e costosi, terrorizzato all’idea di perderla, di dividerla con altri uomini. Ma proprio questa era la strategia sbagliata. E poi lei era troppo bella per essere solo di suo marito: ogni corteggiatore, ogni spasimante rappresentavano una conferma del suo fascino, un trofeo che si aggiungeva al precedente. Che trionfo piacere ed essere invidiata!

La villa di Parigi, messale a disposizione dal cugino Camillo Benso era ricca e confortevole e soprattutto… piena di specchi.
Così poteva concedersi un’orgia di sé, gustare la sua immagine riflessa ovunque e ricaricarsi per le fatiche della missione; sì, perché era un’autentica “missione diplomatica”quella che le si chiedeva: convincere Napoleone III all’alleanza con Vittorio Emanuele II, rilanciare il processo risorgimentale dopo l’umiliazione della prima guerra d’indipendenza, dare ai Piemontesi la possibilità di una rivincita sull’odiato Impero austro-ungarico.
E lei Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, poteva favorire tutto questo, naturalmente a suo modo: infilandosi nel letto dell’imperatore e diventandone, almeno per un po’di tempo, l’irresistibile amante italiana; certo le dame di corte avrebbero starnazzato di gelosia e d’invidia e la cattolicissima Eugenia, l’imperatrice, avrebbe gridato allo scandalo davanti alla sfrontatezza di quella straniera: ma era proprio ciò che desiderava e le insaporiva la vita. Non vi avrebbe rinunciato per nulla al mondo.
Già dalla sua prima comparsa alla reggia, al braccio dell’ambasciatore Costantino Nigra, durante una festa, aveva monopolizzato l’attenzione di tutti con i suoi gioielli preziosissimi, l’abito audace, la spendida acconciatura che sottolineava l’ovale perfetto e il collo da cigno: un mormorio aveva attraversato la sala…poi erano cominciato le danze ed i commenti malevoli. Dei quali si fregava. Come della sua fama.
Da lì a poco c’era stata la notte di Compiègne, con l’imperatore: per l’occasione aveva indossato una camicia di seta finissima, che stava nel pugno d’una mano; se l’era fatta scivolare addosso, sul magnifico corpo nudo, i lunghi capelli sciolti sulle spalle. Si era presentata così ed era riuscita ad essere molto più convincente del suo brutto cugino. In fondo gli uomini sono tutti uguali, si diceva, e lei conosceva bene le loro debolezze…
Ma gli anni trascorrevano impietosi tra un ritorno in Italia e un nuovo viaggio in Francia, le spese folli, gli amanti smemorati, i debiti che la sommergevano, la causa di divorzio, il figlio poco amato, il marito rancoroso. Lo specchio ancora la confortava, la seguiva nei suoi spostamenti, era il suo talismano segreto.
Fino al un giorno in cui, nella solitudine di un pomeriggio assolato, la sua immagine risultò inedita e dolorosa allo sguardo: due rughe ai lati della bocca indurivano il sorriso, gli occhi da favola apparivano tristi e spenti, la pelle non più tesa sulle mani mirabili.
Le crollò il mondo addosso: la fonte di tutti i suoi poteri, la sua mitica bellezza, stava tramontando! Come fermare quel disastro? Come arginare il fiume in piena del tempo?
Pianse, si disperò, imprecò contro tutto e tutti: maledisse se stessa e le energie trasfuse in quel castello di carte, che così velocemente crollava, giurò di non guardarsi più, di mettere il lutto alla sua bellezza che svaniva. Ordinò alla domestica metri e metri di tulle nero e con questo velò tutti gli specchi di casa, per non assistere all’agonia della sua avvenenza. Non aveva ancora quarant’anni.


 

Il lato tenero di Filippo Tommaso

 

A oltre un secolo dalla pubblicazione a Parigi su Le Figaro del Manifesto del futurismo (20 febbraio 1909) e delle sue roboanti  provocazioni (… La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno… Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna) quello che segue è un racconto sull’uomo Marinetti, in famiglia molto diverso dall’immagine pubblica. Il testo è liberamente ispirato a un’intervista che la figlia Ala concesse nell’agosto 1994 a La stampa.


In quell’estate del 1936, nel tripudio degli oleandri rosarancio, delle begonie scarlatte, dei carrubi e gelsomini in fiore, si aggiravano, nel giardino di villa Hammeler- Mazza, a Cavo (Isola d’Elba), Vittoria, Ala e Luce Marinetti, figlie del “guerriero futurista” Filippo Tommaso.
Per loro era tutto nuovo in quella casa comoda ma non sfarzosa, anzi quasi spartana, in confronto alla loro grande abitazione di Piazza Adriano a Roma, con i salotti dalle pareti giallo sole, i divani azzurri, i mobili intarsiati di madreperla, i lampadari di rame traforato e i grandi vasi cinesi, in un affollarsi di sculture, arazzi, oggetti d’arte e cuscini “futuristi” firmati Depero.
La “casa al mare”, dove erano ospiti, sorgeva sulle rovine di una bella villa romana del primo secolo dopo Cristo e Capo Castello si chiamava quel promontorio da cui si poteva vedere, sotto, il mare azzurro, trasparente e all’orizzonte il profilo della costa toscana.
Era la prima volta che i Marinetti decidevano di accettare l’offerta della signora Mazza: gli anni precedenti avevano passato le loro vacanze a Capri “la sedia a sdraio del Mediterraneo”, dove lo scrittore aveva ricreato un nido futurista con Francesco Cangiullo, Alfredo Casella e l’affascinante Benedetta Cappa, giovane pittrice piemontese, destinata a sedurlo senza rimedio, tanto da diventare la madre delle sue tre figlie. Nella villa sopra Marina Piccola c’erano tornati con le bimbe, ma da quando erano diventate tre, la mondanità della splendida isola e tutti quegli scalini da scendere e salire, li avevano convinti a rinunciare, seppure a malincuore, alla Grotta Azzurra e ai Faraglioni, per trascorrere l’estate a Villa Pellizzi, a Forte dei Marmi.
Ma anche qui, il pericolo di imbattersi continuamente in “Eccellenze, Gerarchi, Padreternoni e Padreternini” d’ogni calibro, al volante delle arroganti decappottabili o in ozio sulla spiaggia del Poveromo, li aveva infine convinti a provare la villeggiatura in quel piccolo, tranquillo paesino elbano, in bilico tra l’azzurro del mare e il verde della macchia. Non c’era nemmeno un porticciolo, ma solo un moletto dove attraccava il barcone che faceva la spola col piroscafo; poco più in là, case sparse tra orti e vigneti, alcune belle ville della borghesia locale e ovunque il profumo e la dolcezza dei fichi maturi. Ai piedi della casa che li ospitava, il dirupo roccioso che precipitava in mare era qua e là interrotto da cespugli di lentisco; dopo un tratto di costa tormentato, a levante si apriva la deliziosa Caletta delle Alghe e a ponente la più selvaggia spiaggia del Frugoso; di fronte il mare aperto del Canale di Piombino.
Era proprio quello che desiderava il “genio-atletico-lirico-palombaro-blindato”. Lontano dalla folla, dai centri di potere, dall’ ”intellighenzia” più o meno schierata col regime, avrebbe ritrovato i profumi del Mediterraneo, il legame con l’Africa della sua infanzia e curato quelle tre deliziose bambine che la dolce Beny gli aveva regalato: erano il suo orgoglio e la sua debolezza! Ma come non capitolare di fronte a quei visini delicati, ai boccoli e ai nastri fra i capelli, alle loro voci acute e squillanti? Era così che si voleva consolare, in quell’estate del 1936, per nulla tranquilla: la campagna d’Etiopia gli aveva infatti attirato le critiche degli intellettuali francesi; la cultura fascista, fortemente condizionata dal nazismo, aveva attaccato pesantemente l’ ”arte degenerata” dell’avanguardia e gli stava con gli occhi addosso; per niente apprezzati erano poi i suoi interventi presso il duce in favore di Parri e di altri confinati, che gli attiravano però le simpatie e il consenso di Benedetto Croce.
A Cavo poteva riposarsi, ritemprare le forze non più alimentate dalla giovinezza –aveva ormai 62 anni- nuotare, fare i tuffi, pescare i ricci di cui era goloso, insegnare alle sue bambine come si riconoscono i canti degli uccelli, i profumi dei fiori, la morbidezza o la rugosità delle foglie.
Per Vittoria, Ala e Luce era il più tenero e tradizionale dei padri, disposto per ore ad insegnare il piano, componendo d’istinto, e privilegiando Wagner, Debussy, Vivaldi. Suonava spesso le Quattro Stagioni, in particolare l’Inverno, e per far capire ad Ala come farlo con sentimento diceva:”…tu sei al caldo…immagina che al di là dei vetri cadano fiocchi di neve. Guarda quell’omino intirizzito che sul marciapiede vende caldarroste…”
Dunque Marinetti un inguaribile romantico? Proprio lui che aveva proclamato. “Uccidiamo il chiaro di luna!” ? Miracoli della paternità!
Del resto le bambine erano così felici ed attive in quell’estate elbana, che cercava di assecondarle in tutti i modi… Come quando esse ottennero il permesso, in verità dopo molte insistenze, di “un teatrino” dopo pranzo per rallegrare mamma, papà, la padrona di casa ed altri illustri ospiti.
Cucirono così bacche e grappoli d’uva fragola sui loro costumini e alla fine del balletto cantato li staccarono con un artistico lancio in aria, senza rendersi conto che finivano sugli abiti chiari degli spettatori. La conseguenza fu che per una settimana rimasero in punizione, senza poter scendere al mare…Tra quegli ospiti c’erano il maestro di operette Giuseppe Pietri, Franco Marinotti, il prefetto della Toscana, i signori Tonietti, concessionari delle miniere, e forse Georges Simenon che nell’estate di quell’anno sostò per un mese nelle acque di Cavo, sull’Araldo, il barcone del capitano Giacomo Canovaro, elbano (come il resto dell’equipaggio), adattato a yacht per lo scrittore, la giovanissima moglie, una cameriera e un gigantesco mastino marrone.
L’incontro tra Marinetti e Simenon avvenne forse quella sera, ma non è da escludere che si fossero già conosciuti alla “locanda” Pierolli, dove si poteva gustare uno straordinario cacciucco, al suono di improvvisati concertini.
Comunque, il fondatore del Futurismo aveva troppi impegni per poter soggiornare settimane all’Elba, senza muoversi: così, succedeva spesso che si assentasse, dominato dalla necessità di propagandare per tutta la penisola il suo “verbo” e in particolare quella poesia”epico-industriale” che gli frullava per la testa: a Torino aveva tenuto una conferenza, a Biella aveva visitato uno stabilimento della Snia Viscosa, entusiasmandosi al Lanital, prodotto autarchico ottenuto dalla caseina, da lui definito “Muscolo del vento…Tessutomaterno”…

Anche il giorno dell’incidente, dunque, si trovava fuori…
Beny, invece, si era alzata piuttosto presto, non come quando c’era lui, che nel cuore della notte poteva dirle: “Cara, lavoriamo un poco…” e alla finestra affacciata sul mare o in giardino, al chiaro di luna, le dettava i suoi versi…Dopo quelle veglie dormivano fino a tardi…
Quel giorno, invece, di buon mattino, nel riordinare le stanze, la donna notò dei fiori secchi in un vaso e lamentandosene disse ad Ala: “Prendili e valli a buttare nel punto più lontano!”. La bambina prese alla lettera l’invito della mamma e si diresse in fondo al giardino, dove i gerani, le petunie, le dalie lasciavano il posto ai cespugli di lavanda, salvia e rosmarino, prima di smarrirsi nel trionfo dei lentischi più in basso. Ala si sporse per gettarli in mare, ma la balaustra cedette e lei precipitò di sotto…i rovi attutirono la caduta e le impedirono di sfracellarsi sulla scogliera ma le ferirono rovinosamente il viso…il grido che lanciò fu sentito da tutto Capo Castello.
Beny, le bambine e tutti gli abitanti della casa terrorizzati accorsero, districandola da quel viluppo di rami e spine: sarebbe rimasta orribilmente sfregiata se la mamma, con le sue splendide mani d’artista, non le avesse subito riunito i lembi di pelle strappata e fasciato il viso.
A Cavo qualcuno se lo ricorda ancora quell’urlo, seguito da un viavai di gente che passandosi la voce “La figlia di Marinetti è caduta nel dirupo!” accorreva a Villa Mazza per avere notizie.
Filippo Tommaso arrivò alle due di notte con una lancia messa a disposizione del prefetto portando con sé il più noto chirurgo plastico torinese e maledicendo la scelta di un luogo così isolato per la vacanza delle sue bambine.
Quando la figlia aprì gli occhi tra il groviglio delle bende, le mormorò: ”Sembri un gattino caduto nel latte…”. Gli occhi neri e vellutati del padre furono la prima immagine che Ala vide al risveglio dal coma. Del chirurgo non ci fu bisogno: bastarono le tenerezze della famiglia a guarirla…
Nonostante tutto, quella fu per Marinetti una delle ultime vacanze felici: di lì a poco si sarebbe sentito schiacciato tra l’ostilità degli intellettuali internazionali e un antisemitismo di regime che non condivideva affatto. Verrà poi la guerra, la campagna di Russia e la scelta di partire, sebbene Mussolini glielo avesse “proibito”. Da lì manderà alla figlia Ala un fiore, racchiuso in una busta e accompagnato da queste parole: ”Ti mando i profumi della steppa e questo fiore colto per te”.
La morte, non in battaglia, come aveva sempre sognato, ma a Bellagio, sul lago di Como, lo colse l’anno dopo.