Maria Rosaria Cristaldi - Poesie e brevi racconti

Testi tratti dal volume “Nell’ora blu”

Nell'ora blu copertina fronte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SILLABE A ORIENTE

 

Ho sguardi sulle cose tra passi lenti e gesti voraci

vento sferzante e una musica mai dimenticata.

Sei un paese che apre la sua anima

i suoi varchi alle pieghe della terra

le sue arterie al fiato costante di un taciturno scirocco

le sue ombre divaricate su volute di luce.

Ed io so già so già che ti troverò lì

assorto, appoggiato a una porta che guardi ad Oriente

sdraiato sul limite estremo della tua ortografia

mentre il tempo stringe preghiere e legge una lettera pronunciando il tuo nome.

Mi accosto ai tuoi occhi per non passare tanto in fretta.

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L’ ESTATE DI SAN MARTINO

 

Dimori tra litanie ove giacciono memorie che nessun volto a te grato restituisce.

Sul tuo cuore hai piantato una croce che neppure il gelido inverno ha scalfito. 

Si eclissa la luna d’agosto, la tua estate di San Martino serrata in un pugno contro ogni divenire. 

Si accalcano sogni a sorvegliare ricordi, si siedono spettri a contemplare voragini. 

Ti desti da un sonno profondo, ritrovi l’incerta speranza soffocata da vita che sottrae vita.

Elegantemente rechi una sigaretta tra i pensieri

a fendere vento da non far penetrare in alcuna fessura dell’anima. 

Tra voci non manifeste osservi e ti accosti al silenzio

stringendo una pietra levigata dal pianto.

 La memoria è sabbia che si posa su nuova materia

la parete del tuo sguardo ne dispone la postura. 

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A MIA MADRE

 

 La mia strada correva verso casa con gli occhi pieni di te

del canto struggente e premuroso del mare nel nostro tempo. 

Quanta vecchiaia avrei dovuto scorgere ancora nella tua stanchezza

prima di comprendere quanto sentissi l’inopportuno disegno tracciato dalla separazione. 

Era un supplizio la mia lontananza

che si ricongiungeva, poi, al profumo intenso delle tue spezie sapienti.

L’attesa proiettava i tuoi sospiri attraverso i vetri

il tuo sguardo commosso riportava il profumo denso delle tue mani odorose

a impastare gesti. 

 Ti avvicinavi in un vergine abbraccio senza più lacrime

per quel destino d’asfalto che separa memorie. 

Sangue senza argini s’infiltrava in quell’ebbrezza di sguardi portati dal vento

dalla luce bianca di un Sud che restituiva  esistenza all’origine. 

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MEMORIE

 

La sua voce fendeva il silenzio verticale della notte.

Le sue abbraccia s’avvolgevano alle macerie di un amore perduto senza troppe parole.

Gesti in rovina riportavano memorie divaricate sulla luce di un’estatica vicinanza.

La stanchezza si sommava a un tempo che non soccorre alcuna domanda.

Le sue viscere restituivano il resto di niente

fino a che non smise di rivendere ai giorni perdute carezze.

Fino a che si appoggiò ad un silenzio

a lambire lo spazio vergine di ogni taglio sul proprio destino.

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PENSIERI A ORE

 

Le ore ci avvolgono e ci fissano mute in sguardi attrezzati per ogni distanza.

Liberiamo sillabe anonime e movenze di una prosciugata giovinezza.

Respiro fatica fino all’ultima goccia di sangue.

Abito spazi già consumati da una notte stanca.

 Indosso una contentezza portata a spalle, vestita a festa. 

 

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PERIFERIE DI SALE

 

Vivo per andarmene senza preavviso alcuno al mio dolore

vivo di sguardi sparsi altrove  tra le periferie di notti dilatate

dalle già scrostate voci di precoci mendicanti.

Vivo per non avere coscienza d’agitarmi nelle gabbie di occhi affaccendati nel nulla di un giudizio

per non rimanere immobile mentre tutto va in estasi di corpi densi d’anima e di sale.

Vivo perché mi tocca espandermi per guadagnare terra

e sentire a poco a poco le stagioni sanguinare.

E’ questa la vita che ci scioglie a sé? il nostro orgoglio all’apparenza muto?

il nostro andare nel mondo come si va ad una musica già d’oltre confine!

 

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SCIROCCO

 

Su un silente uscio di scirocco

una donna si affaccia su un tramonto che nessuno l’ha portata mai a sentire.

Ha mani consumate da un tempo a lei ingrato senza pelle che passi tra i pensieri.

E rimane ferma, tra le sue mute sillabe, mentre sfilano vite a ricomporre giorni

ad abitare ore ad indossare facce da cerimonie soddisfatte.

 

Sud est… soffio di vento che riapri sulla vita da bambini

dietro le finestre a ricamare sogni un po’ contratti

 consentiti da mani grandi e nodose che s’imponevano al ritmo dei “tu devi”.

 

Sud est! Brezza di pianto che addormenta il battito

in ogni gesto di timoroso assenso al dolore.

 

A sud est le rughe di una donna ormai dimenticata salutano la storia

chiudono le imposte di una disfatta vita.

Lei non entra nel tuo tempo, per non farsi calpestare dalle ore.

Non ha più occhi capaci di luce ma sguardi in bianco e nero

su un deragliato pentagramma di note trasandate.


LA GRANDE GUERRA

 

 

Si levano gli uomini con il fiato tremante

a calpestare la sorte

a decomporre tempo di braccia aggrappate a carezze.

 

Le ore negano sguardi e voci d’innocenti fattezze.

 

Avanzano i passi nel fango

la morte è il solo tormento degli occhi

tra rumori assordanti che crivellano battiti.

 

Il dovere di andare non concede diritto d’esistere

resistere è l’unica preghiera da poter pronunciare

nei giorni d’assenza, nell’inverno che piega speranze.

 

Mani annientate tracciano sillabe scritte col sangue

la penna è l’unico solco che sottrae al gioco perverso che rende pedine di piombo.

 

Il tempo non torna neppure tra passi che, disperati e veloci, giungono a casa.

 

Tutto è comunque perduto tra le pagine rosse intrise da tanta, insensata ferocia.


LU RUSCIU TE LU MARE

 

“Lu Rusciu te lu mare” (il rumore del mare), con cui tutto ebbe inizio e spero finisca.


La storia di una vita ricomincia sempre in un altrove, un altrove di sguardi di luoghi di parole. 
Un giro di boa, 11 anni fa, mi ha condotto a ingurgitare distanze d’asfalto, allontanandomi da mani piene di tutto.

Da una terra governata da forze ancestrali che sempre hanno guidato i miei passi. 


E così il commiato gli affetti e luoghi, l’inchino al mare che tutto sa e tutto ricompone la sua voce unica irrinunciabile forma di vita possibile.

L’abbraccio agli spasmi nodosi degli ulivi che affondano le radici in una terra così rossa che sembra impastata con il sangue di chi l’ha duramente lavorata.

Un ultimo grande sguardo alla luce accecante del Sud per non sentire il buio da lontano, la strada del mare accanto, una conchiglia, il battito incessante vorticoso del tamburello e una pietra sulla strada, una pietra sì. 
L’identità culturale del Salento è profondamente segnata dalla pietra: dolmen, menhir, muretti a secco sono cantastorie, sentinelle da sempre devote a questa terra. 
L’approdo al Nord era la scoperta di nuovi sguardi sul mondo.

Appena arrivata, una strana lingua dalla fonetica piuttosto dura mi diede la sensazione, per certi versi inquietante, di essere all’estero ma presto compresi però come l’accoglienza parlasse una lingua intellegibile aldilà di ogni sillaba oscura. 
Il Nord apparve come una tavola a cui era stato riservato un posto per me, la natura incedeva verso di me ma l’orizzonte qui bisognava guadagnarselo e non si può dire che la montagna abbia conosciuto le mie fatiche.

Con una serie di comodi espedienti, raggiunsi una vetta e subito un’essenza densa e penetrante schiuse un nuovo patrimonio olfattivo. 
Pensai subito che il rapporto che la  gente del luogo aveva con la montagna dovesse essere per certi versi simile a quello che si stabilisce tra noi e  il mare. 
Ma il richiamo verso il Sud tornava dirompente e ancora la strada verso casa che accoglieva passi che divenivano origini in un gesto e l’approdo al mare dove, come sosteneva qualcuno, tutte le parole sono state già dette.

La vita tornava a pulsare forte nel vento, tra le braccia di una madre stanca alla quale, ad ogni partenza, ripetevo: “ Quando sentirai forte l’assenza, va’ verso il mare, ascolta il canto:  la forza che mai potrà separarci”.

 

 

LU RUSCIU TE LU MARE

I fatti te ‘na vita zziccane te capu a n’addha vanna, n’addha vanna te cuarda, n’addha vanna luntana, n’addha vanna te parole.

Unnici anni rretu cuarche cosa canciau e ddhu cuarche cosa me purtau cu gnuttu luntananze te catrame. Me lluntanai t’e mani chine t’ogni cosa. Te ‘na terra macara ca sempre m’aje cunsijatu i passi.

 

Salutai parenti e lochi; riverenza a ddhu mare ca tuttu sape e ttacca cu la uce sua, mbrazzai li sprasimi e li nnuti te l’arguli te ulia ca sprafunnane  terracate intra ‘na terra mpastata cu lu sangu te tutti quiddhi ca la faticara.

 

Cuardai n’addha fiata a luce t’u sud cu nu sentu ‘u scuru te luntanu. Te costi a via te mare, ‘na conchiglia, ‘nu bbinchiare forte allu tammurreddhu e ‘na petra susu a via, ‘na petra, sine.

A terracata t’u Salentu, cchiui te tuttu, ete a petra: dolmen, menhir, pariteddhi te petra suntu anima e cuardiani diòti a ‘sta terra.

Rrivare a nord era cuardare lu munnu cu occhi novi.

 

‘Ppena ‘rrivata, ‘na lingua streusa e tosta quasi me sciuntau, me ntisi forastiera ma mprima mprima, poi, dha parlata scura diventau accoglienza.

Me vitti ssattata ‘ntaula paru cu tutti l’addhi, ogni cosa me vanìa ‘ncontru ma l’orizzonte, cquai, tuccava t’u buschi e jeu nu canuscu fatica te muntagna ma, cu cuarche furbizia rrivai susu e ntisi nu ndoru mai saputu.

Panzai ca ‘a gente te cquai ‘ttaccata ete alla muntagna comu nui allu mare.

Ma a uce t’u sud turnava forte e la via te casa chiamava i passi ca portane a mare a ddhunca tutte ‘e parole ticune ca suntu state titte.

 

A vita turnava cullu battitu intra ‘u jentu, tra le razze te ‘na mamma stracca. A iddha ogni fiata, prima me ne vau, ne ticia: quannu teni desiteriu cu me viti, vane a mare, senti dhu cantu, ca quiddha ete a forza ca nu ne pote mai ristaccare.

 

(Traduzione a cura di Daniela Liviello).


PASSI BAROCCHI

 

Lei incedeva con passi lenti ed eleganti per il dedalo della città.

 Il suo sguardo si celava, solo apparentemente, all’ altrui andare.

Nulla, tuttavia, sfuggiva al verde intenso dei suoi occhi che si nutrivano anche di esistenze fugaci poiché tra tanta fugacità lei distingueva lei. 

Non sfiorava alcun viandante seppure conosciuto, il contatto lo riservava esclusivamente a chi portava dentro al petto.

 Il vento, intanto, lambiva le sue dolci fattezze talvolta portate a spalla per il dolore, talvolta sulla bocca che si concedeva ad un sorriso. 

Incedeva tra la barocca pietra come chi sa avvolgersi al filo degli eventi perché ne conosce il destino.

La vidi imboccare un vicolo illuminato dalla sera, la seguii solo per poco, poi mi fermai nell’attesa che si voltasse e così fece. 

Ci osservammo tra tante sillabe mute, sorridemmo da lontano, ci salutammo come se sempre lo avessimo fatto.