Maria Stefania Marello - Poesie e Racconti

NOZZE D’ORO

 

Tra un bicchiere e l’altro, stordito dagli effetti alcolici,

ilare e giocoso, lui racconterà ancora la stessa storia.

Lei ascolterà, in silenzio, i suoi silenzi e il suo vociare,

e, come fosse la prima volta, riderà al suo scherzare.

Non v’è noia o tedio nel dolce oblio della senescenza:

passa il tempo, ma non è ostile il suo passare. Al calar

della notte sui ricordi, l’amore lascia accesa una stella.


 

CHARLES DARWIN

 

Fu un lampo quella sua visione.

L’oscura trama ne fu illuminata.

Seguì il tuono. Un tuono sovversivo, 

minaccioso per ogni religione.

Vacillò l’antico mito dell’umana storia

si sbriciolò il granito del creatore.

Da allora cambiò il secolo, il millennio,

ma ancora ci è difficile accettare

l’origine comune, e il fine ancora incerto,

e in mezzo l’assenza degli dei.


ARRIVERÀ

 

Arriverà per la donna leggiadra e per il guerriero

invincibile, per il santo e per il terrorista. Arriverà 

per il cavallo focoso, e per l’umile lombrico; per me, 

per te, che non la nomini mai e incroci le dita:

lei arriva per tutti, con il suo freddo segreto.

Forse sarà un lui, cereo, col sorriso stanco.

Mi prenderà la mano, non oserò resistergli.

Passeremo l’ultimo confine, fianco a fianco.

Sarà come venire al mondo, ma al contrario:

dal pianto al silenzio, dalla luce al tepore buio

di un antico grembo materno. Sarà come sarà.

Un ritorno al nulla, in fuga dalle grinfie della vita.

Un nulla così leggero, che si sbriciolerà fra le dita.


EQUINOZIO CONTADINO

 

Esplode il rosso di sera

sui resti del temporale.

Tra le nuvole stracciate

qualche rondine ciarliera

gioiosa declama proverbi

antichi sulla primavera.

I bambini si rincorrono

nella corte, schizzando

il fango dalle pozze,

ignorando fame e sete,

e il richiamo delle madri

sulla porta, inquiete.

Il temporale, esausto,

finalmente tace. Esce

il cane scodinzolando

alla ritrovata quiete, 

dopo l’eco del tuono 

e il suo terrore cieco.

Si è zittita tra i vitigni

anche la lagnosa rana:

ogni suono è sospeso,

si sfidano luce e tenebra

sull’istante conteso.

Ma la luce esita, cede,

si scolora, si arrende.

E il respiro del tempo

senza fretta riprende.


 

MOTO GRAN PREMIO

 

Centauri lanciati da un’invisibile fionda,

scintille di mille candele e un’unica onda

sonora: un tuono, che frastorna la folla

in attesa, da ore. E che vinca il migliore.

Il resto è retorica, commenti salottieri,

ciarle sovrastate dal rombo dei motori,

scordando che son fragili uomini quelli

là fuori, giovani gladiatori con l’elmo, 

 i muscoli tesi e i denti stretti, a cercare 

l’attrito migliore di ogni curva insidiosa, 

burlandosi di forze possenti come belve

feroci. Così è, nelle arene d’ogni tempo,

perché è sempre la sfida spavalda alla sorte

il gioco che strappa l’uomo alla noia. Ora, 

come ai tempi di Icaro con le sue ali di cera.


 

LA DANZA DELLE FOGLIE

 

Mutano colore tutte insieme, ma ciascuna

a suo modo. Poi cadono, una dopo l’altra,

per finire sull’asfalto, straziate  dalle auto,

ammucchiate nei viali, sollevate in festosi 

vortici dai cani euforici di gioco, inaridite 

dal sole, affogate dalla pioggia, calpestate 

o raccolte dai bambini che vanno a scuola. 

Nei boschi umidi, ove è silenzio, ascolta

con attenzione! Potrai udire il crepitio lieve 

del picciolo che si spezza, poi un fremito, 

quando la foglia volteggia e tocca il suolo,

e giace, non triste, non spaurita, rassegnata 

forse, docilmente soggiogata da un destino 

che, da equinozio a equinozio, si conclude.


 

12  OTTOBRE 1492

 

Terra! Terra! Fu il grido nel vento.

Sfilacciate spiagge, luna nuova:

guidato da un sogno delirante,

raggiungere l’Oriente seguendo

il sol calante, con la benedizione

di una Regina e le sue bambole,

un italiano, famoso per un uovo,

s’incagliò in un mondo nuovo.


L’ASINO

 

Non è più bestia di tante altre, anzi, ha molte virtù:

buono, paziente, ostinato, robusto, agile equilibrista

quando avanza sull’orlo del burrone, su per sentieri

definiti mulattiere – e non è giusto! – carico, appunto,

come un asino, e sgobba anche a Natale nel presepe.

Non vola, come l’antico gioco vorrebbe, e nelle favole

fa spesso la figura del cretino, eppure dicono sia molto

intelligente: quello di Buridano fu un grande pensatore,

smise di mangiare, diventò anoressico per indecisione.

S’impunta, talvolta, senza motivo apparente, e lavargli

la testa è un inutile spreco di sapone. A volte sembra

ragliare a sproposito, ma anche se ne ha buoni motivi

è solo un asino… nessuno vuol sentire le sue ragioni.  


 

NON CORRERE… MANGIA

Racconto breve

 

Sono cresciuta (per la verità non molto) sotto l’ombrello delle attenzioni e delle ansie di mia madre. 

Non ero solo una bambina di salute cagionevole, ero una demo vivente dell’enciclopedia medica,  dalla A di Acetone e Adenoidi, passando per Faringite e Raffreddore, fino alla T di Tonsillite. 

Più malata del solito a Natale e Pasqua, spesso assente alle cerimonie di famiglia, ero però una presenza costante nell’agenda delle visite del medico di famiglia.

Questo spiega le ansie di mia madre e le sue innumerevoli raccomandazioni: chiudi la finestra, copriti le orecchie, asciugati bene, non stare all’ombra e così via. Di tutte, due sono rimaste scolpite nella mia memoria.

La prima era: Non correre che poi sudi

Si sa, prima di diventare sedentari e pigri come la maggioranza delle persone, i bambini vivono una fase cinetica, per gli adulti misteriosa e irritante, tollerata solo perché transitoria. Essi non amano le passeggiate tranquille, le soste, i riposini del pomeriggio. Si divertono solo se corrono, saltano, si agitano. Perciò sudare è per loro una funzione fisiologica di tutto rispetto.

Eppure mia madre veniva colta da crisi di panico se mi scopriva sudata. Come minimo presagiva una polmonite fulminante. 

C’era una specie di rito per scongiurarla: cambio degli indumenti, asciugatura dei capelli, obbligo all’immobilità per un tempo che a me pareva interminabile, a meditare sulla mia disobbedienza alla Regola Numero Uno. Non avevamo ancora la televisione: stare fermi era una noia mortale!

La Regola Numero Due, invece, non era un divieto, ma un obbligo: Mangia, che diventi grande

Vedendomi si potrebbe pensare che sia vero, ma non è così: sono rimasta bassa, non perché mangiavo poco, ma per le ferree regole della genetica. Se uno discende dall’albero genealogico della Banda Bassotti poco importa quanto mangerà. Al massimo, invece di essere piccolo e esile, sarà piccolo e rotondo. 

Mio padre, che si era fatto quattro anni di servizio militare durante la guerra, offriva una versione più scientifica e ardita della raccomandazione numero due: 

- Se mangi – tuonava con piglio da caporale – combatti le malattie! 

Immaginavo il cibo trasformarsi dentro di me in sentinelle armate, schierate contro microbi e germi d’ogni genere.

Ciò nonostante andavo a tavola con svogliata lentezza, e non perché fosse proibito correre dalla Regola numero Uno, ma per il presentimento di ciò che mi attendeva per disobbedire alla Numero Due.

Quando ci si augurava buon appetito mi chiedevo di che cosa si stesse parlando. Appetito? Per dirla come Don Abbondio: chi era costui?

Se esistono nel sistema nervoso cellule atte a trasmettere la sensazione di fame, le mie dovevano essere poche, inefficienti e inclini allo sciopero come quelle di Pannella. Ma i grandi digiuni politici erano ancora lontani e nessuno aveva rispetto per questa mia vocazione. 

L’odore proveniente dalla cucina non mi piaceva quasi mai. I sapori erano anche peggio. Quanto alla vista, ricordo un piatto ornato di fiorellini rosa che facevano ghirlanda ad un’orrenda cotoletta grigiastra, tagliata da mia madre a piccoli pezzi. 

Ad ogni boccone di carne, per non sentirne il sapore putrescente, inserivo in bocca un pezzo di pane e iniziavo a masticare. Non so per quale fenomeno (fisico? Chimico? Osmotico?) nella mia bocca si separava sempre il pane dalla carne: l’uno scendeva disciplinatamente nello stomaco e l’altra continuava a vagare in bocca, assumendo ben presto la consistenza del polistirolo. 

Mamma invocava i santi del paradiso per vedere almeno una volta il piatto vuoto. Talvolta faceva un disperato tentativo di scalfire quel mio granitico rifiuto con la solfa della fame nel mondo:

– Pensa a quei poveri bambini africani. – diceva in tono riprovevole – Loro muoiono di fame. Magari avessero un po’ di questa carne! 

Fu lì che cominciai a farmi un’idea delle grandi ingiustizie della vita. Quei bambini erano affamati e non avevano cibo; io avevo sempre il piatto pieno e non avevo fame.

Papà, più pragmatico e severo, secondo il modello imperante di padre, ne faceva una questione di disciplina: – Avresti bisogno di un po’ di naia! – diceva con durezza.

Ignara di che cosa fosse la naia, immaginavo una specie di prigione in cui si mangiasse solo una sbobba di pane e acqua. Ma che punizione era? Niente carne e un solo pasto al giorno? Una vera pacchia!

Così, tra le lacrime di frustrazione per sentirmi causa del malumore della famiglia, dicevo con rabbia che sarei andata anche subito alla naia, se solo avessi saputo dov’era! 

A quel punto a mio padre scappava un sorriso e mio fratello subito ne approfittava per inserirsi con una delle sue puerili cantilene: 

‘Tu-non-puoi-fare-la-na-ia     

per-ché-tu-sei-una-femmina”.

Oh come li odiavo tutti quanti in quei momenti! Avrei voluto essere grande solo per buttare il cibo nella pattumiera e per picchiare mio fratello!

Ma tutto passa nella vita e, bene o male, oggi sono adulta. 

Non sono né più sana né più malata di tanti altri, forse un filo più stordita, ma anche qui il cibo non c’entra. 

Guardo con indulgenza i miei figli correre (e sudare) a loro piacimento, tra le proteste degli inquilini del piano di sotto e il furioso abbaiare del cane. Li guardo con piacere mangiare quando hanno fame, ma non insisto quando non ne hanno e se si ammalano so che guariranno, come tutti. 

E anch’io corro, finalmente. 

Mangio sempre poco, detesto ancora la carne, ma corro sempre. Corro per raggiungere l’auto parcheggiata lontano, per prendere l’autobus, per arrivare in tempo alla riunione dei genitori, corro nel parcheggio dell’ipermercato, spingendo un carrello alto poco meno di me, giusto da permettermi di vedere dove sto andando. 

Corro anche nei lunghi corridoi dell’azienda in cui lavoro. Mi hanno riferito che qualche collega mi chiama Forrest Gump. E che il capo si lamenta perché al mio passare svolazzano i fogli sulla sua scrivania. 

Pazienza. Gli regalerò qualche sasso da usare come fermacarte.


 

IL FILO

Fiaba 

 

C’è un filo invisibile che unisce i bambini di tutto il mondo: dal Nord al Sud, bambini ricchi e bambini poveri, bambini bianchi e bambini colorati. E’ un filo intrecciato di fantasia e di sensibilità, di solidarietà e capacità di immedesimarsi, di bisogno d’amore e di amore per la vita, di fiducia in un futuro migliore. 

Non ci credete? Ve lo dico io, che sono una vecchia maestra e di bambini ne ho conosciuti tanti… 

La storia che ora leggerete mi è stata raccontata proprio da uno dei miei scolari.

 

Fuori era una fredda sera di gennaio. La città era immersa in una nebbia densa e inquinata dai gas di scarico delle automobili.

Ma in casa c’era un piacevole tepore. Anzi, in cucina, dove la mamma di Carlo aveva preparato la cena, faceva addirittura caldo. 

La famiglia era a tavola: Carlo, mamma e papà stavano masticando l’arrosto e l’insalata. Il televisore era acceso e trasmetteva il telegiornale. 

Tutti e tre guardavano in silenzio sul video le immagini di una città distrutta da un terribile terremoto.

-  Le prime scosse – diceva un giornalista per la terza volta – sono state avvertite nel pomeriggio.  Sono state scosse molto forti e hanno causato il crollo di parecchi edifici della città di Port au Prince, la capitale dell’isola di Haiti. Non è ancora possibile stabilire il numero delle vittime, ma potrebbero essere alcune centinaia…

- Basta- disse il papà, vedendo che Carlo era molto impressionato e aveva anche smesso di mangiare – spegniamo il televisore – e pigiando sul telecomando pose fine a quelle immagini strazianti. 

Quando ritornò il silenzio, Carlo non aveva più fame. Aveva appena visto le case crollate, le donne che piangevano, i feriti seduti o sdraiati a terra, con le facce sporche e insanguinate, e gli sguardi spaventati. Soprattutto aveva visto bambini, tanti bambini come lui e anche più piccoli, giacere nei lettini di un ospedale da campo, oppure starsene rannicchiati in braccio ai soccorritori. Non piangevano. Avevano grandi occhi neri spalancati, che sembravano guardarti dentro l’anima.

- Dov’è l’isola di Caiti? – domandò Carlo

- L’isola di Haiti  – lo corresse suo padre – sta in America Centrale, nel mar dei Caraibi.

Carlo fissava il piatto, dove il sugo della carne aveva disegnato macchie unte e scure sul fondo azzurrino della ceramica. Sembravano proprio isole nel mare.

 

Dopo essersi lavato i denti Carlo si coricò nel suo lettino, sotto le lenzuola che odoravano di ammorbidente e sotto il piumino soffice e caldo. Era stanco: la giornata era stata intensa, tra scuola, compiti e allenamento in piscina. 

Pensò a varie cose, in modo rapido e superficiale, come generalmente capita poco prima di addormentarsi, come se il cervello volesse ripassare, come un bravo scolaro, ogni esperienza vissuta durante la giornata. 

L’ultima cosa a cui pensò fu il terremoto in quell’isola lontana, dall’altra parte della terra. Rivide le macerie, i volontari, le ruspe. Vide l’inquadratura della telecamera mettere a fuoco una voragine buia, come l’imbocco di un pozzo tra mura diroccate. Gli sembrò di caderci dentro e fu colto dalla leggera vertigine del sonno.

 

Si risvegliò che era ancora buio, non riusciva a vedere attraverso le palpebre incollate. Sentiva un rumore regolare, una specie di gocciolio, come un rubinetto che perde.

- Qualcuno ieri sera non ha stretto bene il rubinetto in cucina – pensò.

Aveva anche caldo, si sentiva sudato e appiccicoso. Fece per sollevare il piumino e scoprirsi, ma non c’era nessun piumino. L’aria era umida, pesante e odorava di terra e di muffa. Si sforzò di aprire gli occhi, ma non vedeva nulla nemmeno ad occhi spalancati. Sentì un movimento, poi un respiro e infine un lamento. Oh, un lamento pietoso, flebile, come di una bestiola intrappolata. Seguirono alcune parole, pronunciate con un filo di voce. Erano in una lingua diversa dalla sua, eppure lui le capiva. 

- Mamma, ho fame. Mamma, vieni.  Mamma… 

- Chi sei? – domandò Carlo ad alta voce, in quel buio pesto.

Silenzio. Sgocciolio. Sospiri.

- Chi sei, tu che ti lamenti? – ripeté

- Sono Karol – fu la risposta. Questa volta si capiva che era la voce di un bambino.

- Dove sei Karol? Non ti vedo

- Sono vicino a te, vedo il tuo piede. Ho la testa vicino al tuo piede

Carlo si guardò i piedi e finalmente lo vide. Vide la testa di un bambino sdraiato. Aveva la faccia scura, forse anche sporca. Due grandi occhi scuri lo fissavano dal basso. Carlo si accucciò vicino a lui per vederlo in faccia.

- Che cosa fai lì? – chiese

- Sono intrappolato, non mi posso muovere – mormorò Karol, con il pianto nella voce

- Ma perché?

- Sono qui da quando ha tremato la terra, si è spenta la lampadina, mamma ha urlato, poi è caduta giù insieme alla scala. Ho visto il muro che si crepava, ho sentito dei rumori terribili e poi… Poi non ricordo. Mi sono svegliato qui, mi faceva male la testa. Ho urlato, ho urlato tanto, ma non è venuto nessuno. – Le ultime parole erano state pronunciate in un soffio, come se avesse esaurito il fiato.

- Ora ci sono qui io – disse Carlo, impressionato e commosso dal racconto del bambino. –  Ti tiro fuori io.

Ma in realtà non aveva idea di come fare. Era buio, c’erano pietre e ostacoli dappertutto. Il bambino aveva il corpo bloccato sotto una tavola e non riusciva a muoversi. E lui non sapeva nemmeno come fosse arrivato fin lì. 

Allora si sedette vicino a Karol, disperato quasi come lui. Gli prese la mano e la tenne stretta nella sua. – Vedrai – disse – ora vengono a prenderci tutti e due. 

Poi però gli venne un dubbio – Ma dove siamo? – chiese –  Dove stavi quando è crollato tutto?

- A casa mia – rispose Karol. Poi aggiunse – io abito nella città di Port au Prince

- Per caso è… nell’isola di Haiti?

- Sì! Ma tu come lo sai?

Carlo cominciò a provare una forte ansia, un po’ come quella volta quando aveva appena quattro anni e  si era perso al centro commerciale. Era tutto così inverosimile da fargli pensare che si trattasse di un sogno. E proprio come nei sogni si trovava in una situazione assurda e lui faceva e diceva le cose più insensate. 

Si sforzava di pensare, di controllare la confusione che aveva nella testa. Sicuramente stava  sognando. Come poteva altrimenti essere lì sotto? L’isola del terremoto era tanto lontana dalla sua città, l’aveva detto anche suo padre. Non gli restava che aspettare il risveglio e magari, nel frattempo, tenere compagnia a quel suo nuovo disperato amico.

- Quanti anni hai? – gli chiese

- Ne ho appena compiuti otto – rispose Karol

- Anch’io ho otto anni! Vai a scuola?

- Sì. Cioè… non sempre ci posso andare. Se piove tanto e c’è il fango non posso andare. O anche se devo aiutare mio padre.

- Beato te! – disse Carlo – io invece devo andarci tutti i giorni

- Ma che dici? A me piace andare a scuola. E’ molto meglio che stare tutto il giorno vicino al fuoco e sollevare le sbarre di ferro. Alla sera le braccia mi fanno male e non riesco nemmeno a scrivere. Certe sere mi accorgo che il quaderno è finito, ma mia madre non ha i soldi per comprarne uno nuovo…

Carlo non aveva mai pensato che potessero succedere certe cose. Andare a scuola e poi fare i compiti dopo la piscina gli sembravano già le cose più faticose del mondo. Anzi, a volte protestava se sua madre gli chiedeva di apparecchiare il tavolo.

- Come si chiama la tua maestra?

- Felicia – rispose Karol – e la tua?

- Io ne ho tre – rispose Carlo, mostrando tre dita della mano – Anna, Lucia e Letizia. Ma Anna è la mia preferita. Perché è buona e gentile e mi incoraggia sempre se non so fare qualche cosa. Sai fare le operazioni con le centinaia?

- Non mi piacciono le operazioni. Mi piace di più scrivere, fare il dettato. Mia mamma mi fa fare le addizioni e poi dice che sono il suo piccolo somaro! E ride, e mi abbraccia.

- La mia invece si arrabbia quando non capisco – sospirò Carlo

- Tu non hai sete? – chiese improvvisamente Karol

- Un po’, e tu?

- Guarda qui, viene giù dell’acqua da sopra .

Carlo guardò e vide in effetti dell’acqua che sgocciolava accanto all’orecchio di Karol. Bastava che lui spostasse un po’ la testa e le gocce gli entravano direttamente in bocca.

- E’ buona sai?– Disse Karol, leccandosi le labbra secche e screpolate – E’ come quella che esce dal rubinetto nel nostro cortile. 

Restò un attimo in silenzio poi si mise a descrivere la pompa dell’acqua, un aggeggio di cui Carlo non aveva mai sentito parlare.

- Noi abbiamo una bellissima pompa di ferro, sai? Basta spingere su e giù l’asta per far uscire acqua fresca e buona da bere. L’ha fatta mio papà, che è fabbro. L’ho aiutato io. In cima alla pompa c’è un gallo di ferro, forgiato dentro un cerchio. E’ bellissimo! Mio papà è molto bravo in questi lavori. Ma forse – si interruppe – dovrei dire ‘era’… Forse è morto  e … il nostro cortile non c’è più, non c’è più la casa, la strada, il cancello…

 

Il giorno successivo Carlo non pensò a Karol per quasi tutta la mattina. A scuola c’era maestra Letizia, che lui temeva per la sua severità. A dispetto del suo nome, la maestra Letizia era sempre seria e a volte anche un po’ arrabbiata. Dovette concentrarsi molto sul problema, si sentiva stanco e distratto, ma non voleva farsi sgridare davanti a tutti.

Solo quando arrivò la sua amatissima maestra Anna e cominciò a parlare alla classe del terremoto che c’era stato ad Haiti, si ricordò improvvisamente del sogno e di quell’infelice bambino che non poteva muoversi.

La maestra spiegò con parole semplici che cos’è un terremoto e da che cosa ha origine. Spiegò che quello di Haiti era stato molto forte e che aveva distrutto quasi un’intera città. 

Carlo, rassicurato dalla presenza di Anna, osò fare delle domande. Chiese che cosa succedeva alle persone durante un terremoto e se era possibile restare intrappolati sotto le macerie senza morire. 

La maestra spiegò che molti morivano, ma alcune persone invece erano protette da un tavolo, o da una colonna o da un armadio e potevano sopravvivere fino all’arrivo dei soccorritori. E disse anche che i soccorritori non si fermavano mai, scavavano dappertutto tra le macerie, proprio per trovare persone ancora vive, per tirarle fuori e curarle.

- Ma quanto possono resistere senza mangiare? – chiese il suo amico Nicola

- Senza mangiare si resiste anche parecchi giorni – disse la maestra – il problema è bere. Se non si beve si muore in fretta.

Carlo esultò: il bambino del suo sogno aveva l’acqua! Sarebbe vissuto!

La sera la TV parlò ancora del terremoto. Si videro le stesse scene del giorno prima, gli incendi, le strade rotte, le case crollate, la gente che viveva all’aperto. Carlo seguì il servizio con attenzione. Ad un certo punto si portò la mano davanti alla bocca come per trattenere un grido: la telecamera aveva ripreso un angolo tra due muri solo in parte crollati, dove si vedeva una colonnina di ferro che usciva da un mucchio di calcinacci. Sopra la colonnina c’era un cerchio e dentro un gallo, come quelli delle banderuole che segnano la direzione del vento.

 

Alle nove era già a letto. Pensò a Karol. Nel buio lo chiamò sottovoce. Ma il sonno non veniva. E poi, se anche si fosse addormentato, magari non avrebbe fatto lo stesso sogno della notte precedente. Non succede quasi mai di riprendere un sogno come fosse un telefilm a puntate. 

Chiuse gli occhi per favorire l’arrivo del sonno.

Si girò su un fianco e fu a questo punto che lo udì:

- Carlo! Sei tu?

- Si, sono io, ma tu dove sei? –

- Se tieni gli occhi chiusi come fai a vedermi? – bisbigliò Karol – apri gli occhi!

Carlo li aprì e lo rivide. 

- Ma come mai ti vedo? – chiese – non mi sono ancora addormentato…

- Io invece ho dormito tanto! Ho sempre sonno. Quando mi sveglio, sposto la testa e bevo un poco d’acqua – sospirò – poi giro la testa e mi riaddormento. Ma ora che ci sei tu voglio stare sveglio. 

- Stai bene? – domandò Carlo – A parte il sonno, dico

- Credo di sì. Non ho male da nessuna parte. Ogni tanto mi fanno male le gambe, allora le muovo come posso. Sento gli spilli ai piedi, ma poi passano.

- La maestra ha detto che puoi resistere finché non vengono a prenderti. Basta che ti ricordi di bere.

Ci fu silenzio. Poi Carlo chiese ancora:

- Che cosa stavi facendo quando c’è stato il terremoto?

- Stavo giocando con il mio camion. Ho un camion bellissimo, di legno, con le ruote di ferro, grande come una scatola di scarpe! Lo facevo girare sotto il tavolo. E tu? – chiese dopo una pausa – con che cosa giochi?

Carlo pensò ai suoi giocattoli, che erano davvero tanti, ai libri, ai giornalini, alla play station e preferì tacere. Gli sembrava offensivo parlarne a lui, che ne aveva uno solo e ora probabilmente l’aveva pure perso. Decise di cambiare discorso:

- Hai notato che ci chiamiamo quasi uguale? Forse Karol vuol dire Carlo nella tua lingua.

- No, Karol  è un nome polacco

- Io invece mi chiamo Carlo come mio nonno, il papà di mia mamma. Non l’ho mai conosciuto, perché è morto prima che io nascessi. Mamma dice che gli assomiglio molto.

- Invece i miei genitori decisero di chiamarmi Karol quando videro il Papa. La nostra famiglia è cattolica. Tanti anni fa venne ad Haiti un Papa polacco che di nome si chiamava Karol e mia madre andò in una grande piazza per vederlo e sentirlo parlare. Mia madre gli toccò la veste e da quel giorno decise che avrebbe chiamato Karol il suo primo figlio. Cioè io – aggiunse per chiarezza

- Ne ho sentito parlare – disse Carlo – anche se noi non siamo religiosi.

- Noi invece preghiamo e andiamo in chiesa. Quando mi sento stanco e ho paura che siano tutti morti e che nessuno venga a prendermi prego questo Papa, che si chiama come me, e gli chiedo di farmi svegliare a casa mia, nel mio letto… mentre mia madre mi chiama per andare a scuola.

 

- Allora ti svegli? – stava dicendo la madre di Carlo, scuotendolo per la spalla – Dai, muoviti che oggi ci sono i biscotti che ti piacciono…

Carlo aprì gli occhi e vide sua madre che gli stava parlando. Fuori era ancora buio, perché d’inverno il sole sorge tardi. Avrebbe dato i suoi giocattoli per poter dormire ancora un po’, ma era già in ritardo. Alle otto e trenta doveva essere a scuola, altrimenti chiudeva il cancello e per entrare doveva avere la giustificazione.

Pensò a Karol, ma ormai aveva capito che, in qualche modo, l’avrebbe rivisto la notte successiva. Andò in cucina, dove veramente c’era un piatto con i suoi biscotti preferiti. Ne prese tre o quattro e se li mise rapidamente in tasca, senza farsi vedere da sua madre. Poi si sedette a fare colazione. Sentì il rumore dei biscotti che si spezzavano nella tasca dei pantaloni.

 

- Karol svegliati! – gridò – apri gli occhi. Sono tornato.

Il suo amico si lamentava con voce flebile, ma non si voleva svegliare. Carlo si preoccupò.  “Eppure è vivo – pensò – se si muove e si lamenta è vivo.” 

- Karol, guardami, sono io! Dai, apri gli occhi! Ti racconto una storia – ma il bambino non voleva saperne di svegliarsi.

Carlo fece un altro tentativo:

- Guarda che cosa ti ho portato. I biscotti!

Miracolosamente Karol aprì gli occhi e vide la mano del suo amico: nel palmo c’erano dei pezzetti di qualcosa che aveva un odore molto invitante. Sembrava l’odore del pane d’anice che faceva sua mamma, ma più intenso.

Aprì la bocca e Carlo gli ficcò dentro un pezzo di biscotto. Con la poca saliva che gli restava prese a masticare: quelle briciole avevano un sapore paradisiaco! Inghiottì e poi aprì al bocca per averne ancora. Un pezzo alla volta Carlo gli diede tutti i biscotti che aveva in tasca, fino alle ultime briciole. Alla fine Karol guardò il suo amico e parlò:

- Grazie. Ora mi sento meglio. Adesso puoi raccontarmi la tua storia.

Tra le tante fiabe che conosceva Carlo decise di iniziare con Pinocchio. Così, nel ventre buio della terra, sotto le macerie di quella che era stata la casa del suo amico, si udì la storia del burattino di legno, che voleva tanto diventare un bambino, ma succedeva sempre qualche cosa a impedirglielo. 

I sassi ascoltavano, ascoltavano i pezzi rotti del mobilio, i mattoni, le radici dell’erba che nel mondo di sopra cresceva ancora rigogliosa. Dappertutto si sentiva sussurrare.. Pinocchiooo, Fata Turchinaaa… Mangiafuooocoo… Gendaaarmiiii

La terra restava silenziosa, ma trasmetteva tutte quelle parole attraverso le macerie, facendole vibrare … fino al mondo di sopra … alla luce del sole… all’aria aperta… su fino al cielo.

La storia era tanto lunga che Karol si addormentò di nuovo e Carlo si distese accanto a lui, continuando a parlargli nell’orecchio: Lucignolo… il paese dei balocchi … il pescecane.

Nel mondo di sopra era arrivata tanta gente per aiutare quel popolo sfortunato e stremato dalla terribile calamità che lo aveva colpito.

Alcuni uomini che stavano rimuovendo macerie intorno alla pompa decorata con il galletto sentirono dei bisbigli, delle voci, dei lamenti. Chiamarono il responsabile della squadra e lui fece venire le macchine per sollevare i blocchi più pesanti. Poi scavarono con le mani.

Sotto un robusto tavolo di legno c’era un bambino, vivo e apparentemente illeso. I volontari, laceri e sudati, con le mani scorticate e la schiena rotta, si guardarono e sorrisero.

 

Quella sera Carlo stava pensando al disegno per il giorno dopo, che non aveva avuto il tempo di finire. La maestra si sarebbe arrabbiata. 

– Carlo, guarda! – lo chiamò sua madre che stava guardando la TV in cucina – Hanno appena trovato un bambino ancora vivo sotto le macerie del terremoto. E dire che sono passati tre giorni!

Carlo corse in cucina.  Sul piccolo schermo del televisore si vedeva un bambino di carnagione scura adagiato su una lettiga, tipo quelle dell’ambulanza. 

La telecamera ne inquadrò il volto e il bambino improvvisamente aprì gli occhi e lo guardò dallo schermo del televisore, con quelle grandi iridi nere che Carlo non avrebbe mai più dimenticato.

 

Quella notte Carlo dormì nel suo lettino un lungo sonno senza sogni. Solo verso il mattino gli apparve in sogno una strana fata, dai capelli turchini e dalla pelle scura. La fata lo fissava con grandi occhi scuri e gli  sorrideva. 

 

Capito bambini? Il filo funziona! Non sempre fa miracoli, ma spesso aiuta a sentirsi meno soli e ad essere più coraggiosi e più saggi. Perciò, quando siete in difficoltà o avete paura o avete perso la speranza afferrate il filo e stringetelo forte tra le mani, pensando agli altri milioni di bambini nel mondo che, come voi, affrontano ogni giorno il loro destino.