Non andartene, no, non andartene.
Non portarmi via questo azzurro
e le stelle…Non lasciarmi
nel buio…
Non andartene
Sono un albero battuto dal vento
Coperto di brina
nella pianura desolata
Non più foglie né uccelli
Rapito l’azzurro.
Io, particella residua dell’essere.
Il maggior ostacolo
me stessa.
Prospettive verticali.
Un sottile filo di ferro
mi chiude gli occhi.
Trapassa le palpebre
disegnando stelle
Ombre silenziose
i ricordi
si attorcigliano al cuore.
Ne trattiene il battito
la nostalgia.
Dall’abisso
ho imparato
il colore della luce.
Vivo nella mia fantastica pazzia:
il vento mi parla,
le foglie mi confidano
segreti di luce,
l’aurora mi regala
pennellate di colori.
Come una foglia settembrina
lentamente
tingo di rosso l’aria
Ti ho incontrato al mattino
forse no
era giorno splendente
col sole che increspava le nuvole
forse no
era notte stellata
dolcissima
con la luna appena nata
forse no
era tanto tempo fa,
quando ancora nasceva l’alba
il cielo non era fuliggine scura
il mare traspariva conchiglie dorate
l’aria colorava il respiro.
Forse no.
Non ricordo quale tempo
quale pioggia
quale nebbia
quale neve
quale stagione
tu mi abbia rubato.
Forse no.
Forse non sai.
Lamenti cupi
quasi guaiti di cane
mi attorcigliano
lo stomaco:
nausea
del giorno.
Temo
le grida del mio corpo
proteso
oltre il segno.
Non so rassegnarmi
alla banalità
del quieto vivere.
Guardo l’albero al vertice
alzarsi
sui rami così nodosi
urlanti la forza
della terra:
spasimi muovono l’aria intorno;
il segno al confine del cielo
è divenuto rosso
del fuoco d’odio:
si è liberato dal tuo abisso
nascosto.
Mi raccontavi
incantevoli storie di cavalieri antichi,
castelli, carte, pennacchi,
mi parlavi del tempo infinito
dove noi eravamo angeli
su una nave di luce:
tu, Ulisse, sei morto:
precipitato nel tuo abisso
di routine quotidiana:
hai seppellito gli oracoli
del tempo antico.
Sei rimasto a terra:
io volo in alto;
ti vedo piccolo, infinitamente piccolo,
a lottare coi fogli volanti:
basta un vortice d’aria
e tutto è subbuglio:
tu sparisci nel nulla.
E’ lungo ancora il cammino:
d’oro la strada
mi aspetta.
Ti manderò messaggi di libertà:
ma forse non saprai
riconoscerla.
Sei dentro la folla morta
dei colletti bianchi,
impegnato a costruire
le ricchezze del tempo
che dicevi infinito.
Vorrei salvarti,
ma sarebbe inutile.
Tu non vedi più
le stelle.
Mi strazia
questa luce
che taglia il giorno.
Come un’unghia
mi ferisce
sottile
invisibile.
Cammino
e intorno
la sabbia
è polvere di vetro
che penetra
gli occhi.
Corrode
questo cielo d’estate.
Mi hai spaccato il cuore:
frammenti di pietra
sono esplosi nell’aria.
Non hai pietà
del deserto
che mi hai costruito intorno.
Rovente
la torre brucia
nell’ultimo guizzo del giorno.
Semino stelle nel cielo.
Lame d’acciaio
per i viandanti sperduti.