Marialuisa Bottazzi - Poesie e Racconti

NELLE OMBRE DI GUERNICA

 

Un occhio elettrico

sovrasta un  triangolo

di corpi.

Nel trittico dolente

ruota la testa di cavallo,

lingue e fauci spalancate

soffiano la morte

tra zoccoli

e libertà ignorate.

Giace nel pugno

una spada spezzata,

un fiore

ancora si nasconde

nel bianco dell’innocenza.

 

Linee zigzaganti

tagliano libertà

da muri fiammeggianti

che avvolgono vite rubate

di mani e braccia.

 

Si nascondono  fantasmi.

 

Ulano teste     

di capelli a triangolo.

e un lume arcaico

avanza nel buio.

 

Candori e tenebre

dipingono  carne esplosa

nell’aria putrida,

brutalità si fronteggiano,

lacerano  corpi senza orbite,

abbandonati

nell’arena calpestata.                                                                                                   

 

Emerge dall’ombra

una colomba

straziata da ali morenti.

Nel pavimento di cenere

il  bianco entra nel nero,

nessuno  spiraglio si apre.

Soffocano aliti,

incapaci di illuminare

le macerie dell’esistenza.


 

NELLO SGUARDO DI ESCHER

 

Entrare nell’ambiguità

di sguardi mutevoli

uscirne  senza permesso,

rivivere in pesci alati

e morire

nella casa dai tetti rossi.

 

Tra certezze e duelli,

trionfi di nuvole

guardano  profili di nastri rosa

dipanare volti

per  riavvolgerli

in celate malinconie.

 

Ruotare, circolare, ribaltare

attraversare  labirinti di scale,

dove gechi  striscianti

risalgono cascate

nel moto perpetuo

di passi inghiottiti.

 

Rettili umani

riemergono

da fogli dimenticati.

 

Lontano,

alberi al contrario

liberano foglie  sull’acqua,

scolpita da orme antiche,

girotondi di anatre

entrano capovolti

nel cielo riflesso.

 

Ancora e ancora

anime intrappolate da stelle celesti

vagano tra comete, sabbie e crateri,

dentro pagine di un libro

sfogliato da mani,

che inseguono

amori invisibili.


Paesaggio

 

Nel giorno diverso

la finestra   

muta in paesaggio.

 

Emergono dal bosco

due cipressi abbracciati,

monoliti del cielo;

avvolge una casa  

il terrazzo fiorito,

diffonde fragranze

nella stanza in penombra.

 

Lontano lo stesso scenario.

 

La magia del paesaggio

entra nel paesaggio,

avvicina, allontana

l’anima inquieta.

 

Trasparenze di luci

penetrano i segreti del buio

accessibili e irraggiungibili.

 

Vola il  tempo.

 

Sul davanzale

un fiore rosso

respira.


Il bozzolo

 

Nel bozzolo di pietra

un filo,

entrato da lontano,

attorciglia sguardi,

annoda muti garbugli

in percorsi sfilacciati,

ingloba  sentenze

dentro ragnatele d’acciaio,

senza scolpire il senso della vita.

Ancora  rimbalzano collane strappate

che disperdono perle.

Nello smarrimento

 

un filamento fluttuante

ascolta il vento  

che  libera, slega, srotola.

 

E’ il filo di oggi

quel filo.

E’ entrato

nel bozzolo di  pietra

un filo sbagliato.


L’ETA’ PROTEGGE

 

L’età protegge il corpo marchiato

avvolto da scafandri grinzosi,

nascondono

per non ricordare   

occhi brillanti truccati di nero,

bocche scarlatte turgide d’amore,

non riconoscono

mani macchiate  di falangi contorte.

 

 L’ età protegge

 barlumi sofferti di memorie ferite,

 ire negate di fotografie strappate,

 corse nel vento, palpiti travolgenti

 nell’erba odorosa di sospiri segreti.

 

  L’età protegge

  folate impetuose di spiriti imbizzarriti,

  consegnati

  al tempo vincitore.


Polvere

 

Gira lo sguardo

intorno al silenzio

nella stanza senza respiro.

 

Sul piatto rosato

ricamato da foglie d’argento

un libro riposa,

il nastro di seta ricade

dalle pagine serrate

e mai concluderà

il cammino.

 

Attendono gli occhiali

nella custodia nera.

 

Dal cielo greve di mattoni

piovono parole di polvere,

si adagiano lievi,

ricoprono pavimenti, mobili

e letti di piume.

 

Nel calore fuggito

sprofonda il divano

di pelle bianca

E ancora nei fogli ordinati

le parole tremanti

si interrompono.

 

Piangono sbiadite

le pantofole rosse

dentro orme di pietra.

 

Muore la stanza

nella notte d’inverno.


Voce di note

 

Avvolgono il promontorio nel mare

cadenze sommesse di note,

invadono lente, poi esplodono

e la voce potente entra nei corpi

chiede il perché di parole mai dette.

 

L’invisibile pentagramma

rimbalza negli occhi, sull’abito bianco,

ondeggia sulla sabbia dentro la sabbia,

incontra la riva,

raggiunge e attraversa nuvole

arancioni

 

e ancora

la voce torna nella melodia

insegue sguardi

separati dalla linea blu oltremare.

 

Cerca i naufraghi di parole,

prigionieri di pensieri mai detti

nel libro mai letto,

e insiste la voce di note

sulla pelle salata.

Insegue sentieri mai percorsi,

a inghiottire sogni di anni,

sussurra perché.

 

Lentamente si spegne.

 

Ora il silenzio sospeso

attraversa lacrime di mare                                            

e annega l’amore.                                    


Il varco

 

Un sipario di pioppi

apre il varco nel tempo.

Sul palcoscenico

una panchina d’argento

schiude un sentiero.

 

Si inoltra un bagliore di luna,

sfiora bisbigli di foglie,

tronchi di muschio,

occhi invisibili, sibili,

sussurri, folletti ballerini.

 

E si diffondono

melodie profumate

nel mondo fatato.

 

La voce prosegue

dentro la notte di luna

non vuole tornare,

nell’intrigo celato

dimentica il buio

della stanza immobile.

 

Ancora non tornano i passi,

indugiano, si fermano

sulla panchina d’argento.

 

Nel tempo finito

un sipario di pioppi

chiude il varco nel tempo.


 

La telefonata

Lentamente appoggio il cordless sul tavolo.

Il silenzio stordisce, dopo le parole inattese.

Ancora mi chiedo chi sei.

Gli avvenimenti riemersi dal passato si propagano incontrollati nella stanza.    

Sei tu, sei ricomparsa, la donna imperiosa che non permette di penetrare la sua anima.

Ritornare agli avvenimenti del passato è sconvolgente e ripercorrere i ricordi di anni, emersi prepotentemente attraverso questa tua conversazione interminabile, rievoca senza sorprese un vissuto falsamente dimenticato.  

È trascorso un tempo senza tempo dalla nostra conoscenza.

Un giorno d’estate avevi intravisto una ragazza sconosciuta nel palazzo condominiale e ti eri precipitata a conoscerla.

Quella sera stessa, dopo uno squillo prolungato del campanello, eri apparsa sulla soglia di casa, “Ciao, sono Deborah! “.   

Avevamo mangiato pane, burro e acciughe.

L’intraprendenza insistente aveva colto di sorpresa la mia riservatezza e i giorni erano proseguiti altalenanti tra risate e sguardi diffidenti.

Eravamo due adolescenti discordanti, un filo tenace mi separava dai tuoi eccessi impulsivi, inspiegabili.

Amplificavi ogni approccio alla vita, in continuo movimento.

Conoscevi ogni abitante dell’edificio, salivi e scendevi le scale da un piano all’altro, peregrinavi di casa in casa annunciandoti con scampanellate intermittenti e raffiche di domande: “Sono arrivata, sei contenta? Ti piace il mio vestito?”.  

Non attendevi le risposte.

Raccontavi i pettegolezzi del quartiere, le vicende di attori e cantanti, sfogliavi le riviste di moda e ventagli di pagine roteavano impazziti: “Bellissimo il colore di questo rossetto, quest’anno è di moda il colore fucsia!”.

Poi scomparivi con un sonoro “Ciao! “.

Giorno dopo giorno ti posavi come una farfalla sulle famiglie del condominio e trascorrevi molti pomeriggi in casa dell’una o dell’altra. Ti trasformavi in parrucchiera, truccatrice, confidente, arredatrice delle amiche di tua madre, Anna, Franca, Maria, Carla; ascoltavi, proponevi, raccontavi, poi volavi sugli scalini scesi e risaliti e ancora risate alternate a pianti, silenzi cupi e il sorridente “Ci vediamo più tardi!  “.

Eri il perno del gruppo, elargivi consigli, amplificavi il tuo sentire attraverso mulinelli di parole, dirigevi le conversazioni, ma se non eri il fulcro dell’attenzione diventavi silenziosa, intrattabile, e scomparivi indispettita con:” Sono stanca, vado via…”.    

Non capivo la mutevolezza dei tuoi comportamenti.

Spesso avevi lo sguardo sperduto e ti rifugiavi in casa, nella stanza buia; distesa sul letto, il corpo immobile, gelato, morto, tenevi le braccia incrociate sul petto, gli occhi sbarrati, una lucina flebile proveniva dalla lampada sul comodino.

Ti guardavo impaurita.

Poi, ti risollevavi e ricomparivano l’allegria e le ribellioni negli assordanti conflitti familiari.

Walter, tuo padre, severo e intransigente, ti proibiva di uscire, tentando di contenere la tua esuberanza incontrollata, ma tu sparivi di nascosto, ti allontanavi per ore e, al ritorno, erano pianti, discussioni violente, percosse, schiaffi.

Nel palazzo le urla si amplificavano attraverso i muri, entravano nelle abitazioni.

Io e tua madre Elvira eravamo spettatrici mute.

.

Timida, insicura e dipendente, allora, da un rapporto sentimentale irrisolto, ero insoddisfatta del mio aspetto: i capelli ricci, gli occhi scuri a mandorla, gli abiti semplici, il trucco discreto, la piccola statura, ti osservavo: eri la ragazza ammaliatrice e seduttrice, il bel volto, i capelli neri, lunghi e ondulati, il corpo dalle forme prorompenti e procaci, gli occhi neri grandi abilmente truccati, il rossetto rosso, le sfacciate passioni, gli amori nascosti, gli sguardi ammiccanti.

Ero relegata dentro le insicurezze senza via d’ uscita.

 

Sono trascorsi anni fragili, senza riferimenti.

La tua voce rincorre fotogrammi velocissimi: le luci delle sale da ballo, le danze sfrenate alla moda, la musica sincopata, i vestiti nuovi della festa, gli amori leggeri, le calde sere d’estate in cortile con le amiche, il mangiadischi arancione.

Ci sentivamo vicine, o almeno ci sembrava che fosse così.

Poi le zone d’ombra.

I disorientamenti galoppavano imbizzarriti, gli zoccoli del tempo calpestavano la pochezza del nostro rapporto, rinchiuso dentro un legame denso di polvere scura, impenetrabile.

Rivedo la scalinata di una casa d’epoca, il pianerottolo deserto.

Una voce irriconoscibile filtrava dietro una porta di legno sbarrata, minacciava gesti terribili.

Solo dopo ore di estenuanti strategie per convincerti ad aprire i meandri della ragione, varcavo la soglia della tua coscienza e della casa in penombra, dove regnava una confusione di oggetti, abiti sparsi, cibo avanzato, mobili ricoperti di polvere.

Ti trovavo tremante, sporca, accovacciata in un angolo sul pavimento e ripetevi all’infinito:” Vai via… via… via… “.

Non mi arrendevo.

 

Nonostante le diversità del carattere continuavamo a frequentarci e, un pomeriggio:” Vado dalla sarta, vieni con me?”. Avevi gli occhi velati, inespressivi, forse eri sotto l’effetto di farmaci, ma decisi di andare.

Eravamo salite sulla tua macchina rossa, sportiva, dono di Enrico, tuo marito, un maturo professionista in perenne adorazione, pronto ad esaudire ogni tuo desiderio.

Di fianco il tuo profilo si stagliava contro il finestrino dell’auto; i gesti a scatti nella guida, eri un robot telecomandato.

Avevo voluto assecondarti, ma il terrore dell’alta velocità bloccava ogni mia parola, ero aggrappata alla maniglia della portiera, la mano livida.

Al ritorno, finalmente, vidi ricomparire il lungo viale interno alla circonvallazione che ci riportava a casa; eravamo molto vicini, ma tu non rallentavi, anzi, gradualmente acceleravi sempre più, il muro di mattoni si avvicinava pericolosamente; ero muta, bloccata e tu impassibile, fredda; ci saremmo schiantate, ma, improvvisa… una frenata lacerante, il muso dell’auto si fermò a pochi centimetri dal muro.

Pochi secondi e: “Ciao, vado a casa “.

Io scesi, ancora sconvolta, tu entravi nel portone d’ingresso.  

 

Spesso venivo a trovarti nella casa antica.

Dedicavi il sabato pomeriggio alla cura della tua persona: bagno, creme profumate, capelli, trucco e la scelta dell’abito da indossare alla sera per l’uscita consueta con Enrico.

Assistevo alla trasformazione del tuo corpo.

Pettinavi i lunghi capelli dai riflessi ramati come “Gilda “, la protagonista di un vecchio film in bianco e nero degli anni ’40, imitavi lo stesso make-up, i gesti, gli sguardi languidi, l’abito fatale, aderente, la gestualità. Un profumo avvolgente invadeva le stanze della casa.

Durante quelle ore di metamorfosi, non ti curavi di me spettatrice né dei miei consigli, ma proseguivi nel tuo viaggio eccitante.

Eri la regina del trasformismo.

 

Dopo me ne andavo, muta, scialba e scolorita.

 

Ricordo una vacanza estiva, non programmata, in Puglia insieme ai rispettivi mariti Gianguido e Roberto.

Ci eravamo ritrovati in un piccolo borgo nelle vicinanze di Monopoli.

L’albergo aveva un giardino inebriante di fiori: ibiscus, caprifogli, azalee, seminascosti dalla macchia mediterranea che si spingeva fino alla spiaggia di sassi, nel blu profondo del mare.

Quel luogo magico, lontano dagli stereotipi domestici, mi invitava ad approfondire gli argomenti dei nostri discorsi, alla ricerca di una maggiore comprensione per favorire attimi di confidenza, fino a quel momento inesistenti.  

Nei giorni, alternavi abbigliamenti stravaganti e trasandati, ancora gli sguardi cupi si contrapponevano alle allegrie sfrenate, ai racconti bizzarri, alle risate chiassose.

Ostentavi a voce alta e senza ritegno imitazioni imbarazzanti degli ospiti dell’albergo che ti guardavano con freddezza e compatimento.

Un giorno, durante una passeggiata in paese, avevamo gustato un ottimo gelato e camminavamo senza meta, ma nel girarmi per mostrarti un negozio di coralli, ero rimasta ammutolita.

Eri ferma in mezzo alla strada, tra la gente che ti sfiorava, non so come avevi incastrato il cono vuoto del gelato sul naso, come Pinocchio nel paese dei Balocchi, i calzoni a mezza gamba e in testa il cappello a tesa larga che avevi trasformato a forma di cono.

Camminavi disinvolta sul palcoscenico, ti fermavi, proseguivi, facevi inchini come un burattino manovrato da mani trasparenti, mimavi, ammiccavi con cenni d’intesa, richiamavi l’attenzione del pubblico intorno.  

Ti esibivi.

Roberto guardava impacciato e accennava a timidi sorrisi. Era un giovane uomo indifeso, timido, educato, completamente immerso in te.

Durante un giorno di pioggia, seduta sul letto della mia camera, eri silenziosa; ho iniziato a parlare di argomenti importanti: l’amore, i desideri della vita, gli affetti, i progetti futuri, l’esistenza vissuta e da vivere, i figli.

Ti chiedevo il perché degli atteggiamenti che lasciavano sbigottiti.

Mi hai ascoltata senza interrompermi, senza guardarmi, non hai risposto, i tuoi occhi grandi erano assenti, il volto una maschera dura, scolpita nella pietra, le labbra serrate, le lacrime solcavano le guance, poi pochi monosillabi: “Non lo so…non lo so… ma… non voglio… non sai… non sai…”.

Sei fuggita.

 

Era la vigilia di Natale, il telefono squillava e la tua voce: “Vieni, ho una sorpresa per te!”.

Scesi le scale, la porta del tuo appartamento era spalancata e tu, sulla soglia:” Ti piace il mio vestito nuovo?”

… Il tuo corpo si trovava imprigionato in un parallelepipedo di cartone rosa, avvolto da nastri cangianti, verdi, azzurri e gialli, fissati da due enormi nodi di carta increspata; lo sostenevano due corte bretelle di elastico sulle spalle ed emergevano solo la testa e i piedi, un enorme fiocco argentato troneggiava sulla tua testa.

Eri vestita da” regalo “.

Camminavi a piccoli passi in precario equilibrio, giravi, volteggiavi ed accentuavi lo stropiccio della carta frusciante.

Mi trascinavi dai vicini, volevi mostrarti e fragori di risate, esclamazioni stupite echeggiavano ovunque.

 

Conservo una fotografia di quel Natale.

Sette personaggi circondano la tavola straripante di pacchi regali: Elvira, Anna, Franca, Maria, tu ed Elisabetta dentro gli scafandri di cartone ed Enrico, alto e magro, nel classico doppiopetto blu.

I corpi sono seduti o in piedi; i volti, bloccati sulla carta opaca, senza sorriso. Nella stanza di cucina la luce livida del lampadario inonda la tavola ricolma di pacchetti diversi nelle dimensioni, disordinati, sovrapposti, ancora chiusi, e lascia nella penombra le figure.

Dalle carte natalizie, dorate e argentate, emergono renne, Babbi Natale, cristalli di neve, abeti ricoperti di stelle e metri di nastri colorati si confondono.

Il tuo volto inespressivo, pallido, senza trucco, guarda altrove.

L’arcobaleno splende dal vestito di cartone.

 

A febbraio si annunciava l’ultimo giorno di Carnevale: il “martedì grasso”.

All’interno dei caseggiati condominiali il cortile si riempiva di bambini mascherati, grida,

voci esultanti. La pavimentazione di cemento si ricopriva di stelle filanti; coriandoli dai mille colori si innalzavano, ricadevano sul selciato formando un tappeto mimetico di foglie variopinte.

Intorno alle aiuole si rincorrevano tanti Zorro con cappelli, mascherine nere e spade di finto metallo pronte a sfidarsi in duelli immaginari. Principesse dagli abiti vaporosi e fatine turchine, con cappelli a forma di cono legati sotto il mento, ruotavano bacchette magiche di stelle luccicanti pronte ad esaudire ogni desiderio.

L’anfiteatro di finestre assisteva alle fantasmagorie travolgenti di giovani occhi sgranati nella fantasia del travestimento quando, nella confusione, vidi aggirarsi uno strano personaggio: Rosmarino. Il nome scritto in rosso spiccava sul petto. Uno gnomo.

Camminava lento, trascinava le gambette stranamente corte e sproporzionate ricoperte dalla calzamaglia verde e le scarpette a punta di panno rosso. Agitava enormi guanti blu e sulla testa gigantesca a palla un cappellino di velluto ricopriva parzialmente lunghi boccoli bianchi che ricadevano ai lati del faccione dall’espressione fissamente sorridente.

Non capivo chi fosse, poi, guardando meglio, notai che il buffo personaggio si muoveva  

dondolando le ginocchia, qualche ciocca di capelli neri sfuggiva nel vento; la voce gutturale, a tratti riconoscibile, si univa alle voci infantili, le mani spalancate afferravano la pioggia di coriandoli in danze senza musica. Il corpo rincorreva goffamente i bambini che zigzagavano in direzioni diverse per non farsi prendere, poi si fermava, la grossa testa ondeggiava nelle giravolte improvvise, il corpo instabile cadeva, si rialzava e così per lungo tempo nel pomeriggio di festa.

Nessuno ti aveva riconosciuta.

Nella stanza ormai buia, la cornetta parlante riversa echi di rabbie e colpe che mi attribuisci.

Ancora una volta risento le stesse accuse degli anni passati, mi incolpi dell’interruzione del nostro rapporto: “Non mi hai aiutata nel momento della separazione da Roberto, non mi hai sostenuta, compresa, sei scomparsa dalla mia vita, non ti perdonerò mai! “.

Ascolto, mentre la realtà viene modificata, ridotta a superficiali interpretazioni errate e pretesti intollerabili.

Mi hai estromessa da quella decisione sofferta, mentre hai amplificato l’avvenimento tra le amicizie leggere, i pettegolezzi dilatati, le chiacchiere distratte, le interminabili telefonate.

I miei sentimenti di grande compassione erano stati annientati da una sorta di immobilità fisica e psichica, ero priva di reazioni e con la riconquista di profonde consapevolezze si è concluso ogni rapporto con te per otto anni.

 

Prosegui nel tuo monologo dentro un altro mondo doloroso: l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza di Elisabetta, tua figlia, vissuta faticosamente dentro un’esistenza rimasta irrisolta.

I flash della memoria rilasciano gli sguardi blu di una bambina divenuta donna e madre dal vissuto solitario.

Suo padre Giovanni si era dileguato dopo pochi mesi di matrimonio.

Dopo il divorzio la bimba era stata affidata ai tuoi genitori in seguito a una tua presunta depressione post partum e per lunghissimi anni sono stata spettatrice amorevole, insieme ai miei genitori, della sua vita.

 

Ti vedevo arrivare di pomeriggio, elegante, i tacchi a spillo, i lunghi capelli sciolti sulle spalle, entravi nella casa di tua madre, un bacio alla piccola Elisabetta che teneva, per tutta la durata della tua visita, l’impronta del rossetto sulla guancia, poi, ancora di corsa fuggivi di casa in casa come un tempo: “Vado da Carla, ha bisogno di me per un consiglio, torno subito!”.

Ma il tempo trascorreva e al tuo ritorno un altro bacio alla bambina che ti guardava incantata e scomparivi; il tuo profumo, come un tempo, si espandeva dappertutto lungo le scale, entrava negli appartamenti.

Anche quando ti recavi in città, a passeggio con Elisabetta, ero testimone della tua vita.

Incontravi amiche e conoscenti, ti soffermavi, mostravi e sottolineavi in modo plateale la bellezza della bambina: “Guardate il colore blu degli occhi di mia figlia! “. “Oggi è vestita all’inglese, i calzoni scozzesi, il cappottino e il basco blu! “.

Lei si lasciava accarezzare, abbracciare, passava di mano in mano, come una bambola disarticolata.

 

La voce al telefono non si ferma, percepisco il nome di Elvira, tua madre, affetta da demenza e ricoverata in una struttura specializzata, totalmente dipendente.

Le parole rabbiose esprimono un livore non più contenuto: “Assisto mia madre per dovere di coscienza, ma nello scorrere della vita non mi ha amata, abbracciata, sorretta, la violenza familiare mi ha impedito di vivere; desideravo aiuto, amore, attenzioni, consigli, ma ho ricevuto solo ceffoni e insulti. Nessuno della famiglia mi ha amata, tutti sono colpevoli e anche tu non conosci, non sai niente di me! Ora lei è inferma, quasi non mi riconosce, ma mi sacrifico, vado a trovarla, accudisco la sua persona, sono presente ogni giorno! “.

Ascolto la voce straripante che riferisce dedizioni e rinunce.

Ho assistito in passato a gestualità meccaniche, comandi intransigenti nel volto duro, all’assenza d’amore verso Elvira, poi la fredda indifferenza, le minacce di abbandono abilmente nascoste e, fortunatamente, non comprese dalla follia di lei.

Tua madre, nonostante la mente perduta, non voleva essere sfiorata, avvicinata da te e, di fronte al personale sanitario, piangevi improbabili lacrime, capovolgevi la realtà trasformandoti in una vittima sacrificale Sono entrata nelle vicende senza interferire.

 

Nella stanza buia, la cornetta trasmette echi lontani di rabbie e impotenze che ancora si combattono. Non voglio ascoltare e adagio il ricevitore sul tavolo.  

 

La telefonata ha riaperto il sipario del palcoscenico, dove il personaggio dalle personalità multiple, dalle mille voci modificate e di volta in volta lamentose, capricciose, squillanti, buie, suadenti, continua ad offrirsi senza mai fermarsi, tra luci e oscurità, ancora sospese nei gesti, nelle parole in bilico tra follia e ragione.

Ho vissuto un’esistenza parallela alla tua, trascorrendo anni disorientati e senza riferimenti accanto a una persona camaleontica: entravo senza difese nelle trappole di buonismo, di pianti senza lacrime, di vere o false disperazioni, la mente vacillava e ne uscivo sconvolta.

 

Ai limiti mentali hai supplito con l’astuzia.

Non sapevo e ancora non so distinguere il sottile filo che separa i tuoi eccessi dalla patologia psicotica.

Hai approfittato della costante disponibilità che ti offrivo per aiutarti e mi sono lasciata usare per riempire i tuoi giorni vuoti, senza punti di riferimento ma, nel tempo, la maturità ha saputo, in parte, individuare gli aspetti nascosti, le parole ambivalenti, il divario tra realtà e immaginazione.

Per anni ho portato il tuo carico logorante quando altri, giorno dopo giorno, si sono allontanati.

Temo adesso che la tua mente non sia più in grado di distinguere tra realtà e finzione, sento che si intersecano, entrano l’una nell’alta, si scambiano senza più riemergere separatamente.

Ancora oggi non so chi sei.

Le immagini continuano a scorrere lungo una strada sconfinata, si fermano al crocevia, non sanno quale direzione prendere, così le tue personalità divergenti si separano per poi ricongiungersi e di nuovo diramarsi in sentieri sempre più stretti dove camminano solitari una figlia, due bambini, una madre, in balia di una vita priva di equilibri d’amore.

I pensieri sono un fiume in piena, la telefonata ha rotto gli argini e l’acqua torbida scorre,  invade presente e passato.

 

Riprendo il ricevitore del telefono, le parole continuano: il fallimento del nostro rapporto, la morte di Walter padre padrone della tua esistenza, il fratello Domenico disabile, la madre Elvira incapace, la ribellione di Elisabetta, i nipoti sconosciuti, i mariti scomparsi.

La tua vita dentro esistenze parallele, la mia senza risposte.

La voce si abbassa, prosegue in solitudine, poi, improvvisa, l’ultima frase squillante: “

Ho un regalo per il tuo compleanno, vieni subito, ti aspetto! “.


 LA STAZIONE

 

Le scale salgono, si interrompono, proseguono, girano, mi accompagnano alla piattaforma sopraelevata che domina l’interno della stazione ferroviaria e, immobile, ne aspiro gli odori, ascolto i respiri dentro le luci senza ombre.

Le valigie colorate si fermano, proseguono, oscillano, ancorate a mani frettolose di persone che si sfiorano, camminano, non si guardano. Automi senza sorriso salgono gradini, scendono scale mobili, appaiono e scompaiono nei sottopassi. Quel brulichio di esseri umani inghiottiti, poi riemersi dentro le architetture nascoste, sembra uscito da un labirinto di Maurits Escher.

La mia mente fruga nel passato d’amore, afferra le emozioni e ritrovo il volto di Giulia, i capelli lisci, castani, appena sulle spalle, gli occhi neri altrove, le labbra lucide, la figura minuta, il cappotto scozzese dai toni grigi, rossi, neri, i calzoni eleganti e una soffice sciarpa emergono da un giorno lontano, alla stazione.

Quel ricordo sconvolge i miei pensieri, entro nel groviglio dei sentimenti, resi ora più consapevoli dal tempo trascorso. Rivivo le immagini insistenti di abbandoni impulsivi, di egoismi contrabbandati per amore, di tradimenti nascosti che continuano a pulsare come un tempo, non danno tregua, mi trafiggono il corpo; ancora le separazioni e i ritorni improvvisi si intrecciano alle carezze accolte e rifiutate. Riascolto le parole sfumate di Giulia, gli occhi velati, la mia apparente indifferenza unita alle prepotenza delle parole, poi i suoi silenzi rinchiusi in giorni prolungati, contrapposti ai miei tra i nostri sguardi divergenti. Non capivo, immerso nella superficialità prepotente.

Ma volevo lei, senza averne coscienza.

Trascorrevano giorni assenti di parole, ritornava la supponenza che prendeva il sopravvento sulla voce appena sussurrata, poi il desiderio di lei nell’alternanza di fughe e ritorni. Non capivo i progetti svaniti con gli amici, scomparsi nell’incapacità di sostenere i silenzi, gli sguardi separati, le divergenze insistenti.  

Così erano trascorsi lunghi anni sterili.

Sono accanto alla ringhiera, mi sento fuori dal corpo quasi senza vita e, nella consapevolezza, per la prima volta, guardo il mio profondo, ne comprendo i limiti mi soffermo, lo ascolto, rifletto.        

Non ho dimenticato quel volto gelido mentre spariva dentro lo scompartimento del treno.

Dall’alto delle scale vedo le rotaie allontanarsi e congiungersi, poi svanire nel buio serale, così la mia vita con Giulia.

Sobbalzo nell’udire una voce improvvisa e metallica che si propaga all’infinito raggiungendo ogni piccolo spazio nascosto e annuncia il treno ad alta velocità delle 22.34 che mi riporterà quella donna preziosa, ancora ignara della mia presenza, dei mutamenti maturati, scardinati e ricomposti nei mesi solitari.

 

Sono seduta sulla comoda poltrona del treno superapido, oltre il vetro sfumato scorrono fotogrammi spezzati di ombre, distolgo lo sguardo, entro nella luminosità interna che abbraccia. Lentamente percepisco il rallentamento della velocità, intravedo il tunnel luminescente della stazione e l’arrivo sui binari senza rumore.

Le porte sincronizzate si aprono: sono immobile nella vettura di coda, sulla soglia d’uscita, la mano stringe la maniglia del trolley rosso e il gradino intralcia il corpo ancora dolorante, nel passaggio sul marciapiede. Superato quel piccolo ostacolo, mi fermo davanti al muso aerodinamico del treno, alzo lo sguardo verso l’armatura futuristica della stazione ferroviaria dove gli spazi pieni e vuoti della struttura costruttiva si alternano in andamenti ondulati, sinuosi, come le onde che avanzano e si ritraggono in movimenti alternati.

Il cielo buio appare e scompare.

Intorno, il via vai continuo dei passeggeri, i passi sincronizzati, le scale mobili nel movimento intermittente.

Mi stringo nel piumino grigio dal cappuccio ornato di pelliccia, i guanti e una soffice sciarpa mi proteggono le mani e i capelli, la mente circonda i pensieri.

Il rientro nella mia città, dopo un’assenza così prolungata, inquieta.

Mi siedo sul sedile bianco, contro la vetrata trasparente, ancora non riesco ad uscire dalla folla anonima che mi protegge.

Ero certa di poter affrontare il ritorno, ma l’emozione è insistente.  

Sono trascorsi due anni dalla mia partenza improvvisa verso un’altra città; gli eventi dolorosi mi avevano costretta ad allontanarmi da lui, per dimenticare.

In seguito, l’incidente mi ha costretta a trascorrere gli ultimi mesi in un centro riabilitativo per una lunga convalescenza. Ancora ne porto le conseguenze sulle gambe sofferenti.   

E’ un ritorno in solitudine, nessuno mi attende.

Ricordo la decisione sofferta, la partenza frettolosa, dovevo allontanarmi dall’amore sbagliato, entrato impetuoso nell’esistenza trattenuta, vissuta nell’ interiorità delle emozioni contrapposte alla baldanza irruente senza pensieri, alla leggerezza dispersiva. Emergono sequenze di vacanze solitarie in mari sconosciuti, dove cadevano barriere nella continua vicinanza e apparivano abbracci, sorrisi, sguardi d’intesa. Dimenticavamo.

Eravamo complici e amanti senza memoria, isolati nella lontananza che ci separava dalla vita reale, nascosti dentro una sfera trasparente che fluttuava, si allontanava e ritornava senza mai lacerarsi.

Poi, nel ritorno alle consuetudini, l’involucro si squarciava, smarriva i frammenti d’amore, dispersi nella dimenticanza.   

Quella sera mi accorsi di Giacomo alla stazione, lo sguardo scuro negli occhi lunghi, stretti, a fessura, la bocca senza parole, i capelli corti, appena ondulati, il corpo alto e magro, il solito giaccone nero, poi il vagone finalmente lo nascose.

Durante la permanenza a Treviso il lavoro assorbiva i giorni trascorsi tra carte dipinte da velature sfumate e pagine di parole che sarebbero diventate un libro, fotografie di scorci deserti tra aurore e tramonti.

Tutto avrebbe dovuto riempire il vuoto.

Riflettevo sulla povertà del mio cuore distante, nascosto in una nebbia che non si diradava.

La sera, in piedi, davanti alla porta finestra dell’appartamento, guardavo i tetti della città sconosciuta, le strade dove mi perdevo, il canale colmo d’acqua che scorreva rumorosa, ascoltavo i tonfi sordi della corrente che urtava i muri delle case senza fermarsi, come lo scorrere del mio tempo ancora fermo nel fondo buio dell’acqua torbida.

Rivivevo del passato.

Così scivolavano i pensieri tra i pianti nascosti in gola, le notti bianche, gli sguardi altrove, il corpo di sale, le diversità incolmabili tra realtà opposte, l’indifferenza per le emozioni. Ancora percepivo i giorni di quiete, accoglievo i sorrisi, gli abbracci selvaggi sulla pelle, il perdersi tra le mani abili, insinuanti, i baci tra le onde salate.

Un uomo inspiegabilmente amato.

L’incidente ha impegnato a lungo la mia vita tra ospedali, terapie, ricoveri, dolori, paure, ma, nei giorni immobili, non dimenticavo.

Ma ecco che, immersa nella memoria, ho perso il controllo della mente, la banchina è quasi deserta, a fatica mi alzo dal sedile e mi avvio verso la scala mobile più vicina che mi porterà all’uscita. Appoggio il peso del mio corpo sul manico del trolley rosso.

Una casa vuota mi attende.

 

Così immerso nel garbuglio della coscienza, stupito, non mi accorgo dell’orario.  Frettolosamente scendo le rampe di scale, sono in ritardo, le 22.34 sono ormai passate,

percorro il marciapiede correndo, evito i viaggiatori sorpresi che intralciano la mia corsa, mi arresto davanti al treno rosso, le porte sono spalancate, guardo all’interno, nessuno,   mi allontano, mi avvicino, ancora ripercorro la banchina, non riesco a scorgere quel volto. Finalmente, poco lontano, riconosco i capelli lisci, le spalle minute, l’incedere lento e inconfondibile del corpo leggero.

 

La giostra ruota vorticosamente intorno a lei: occhi, mani e braccia si cercano, sfuggono, indagano, riconoscono, si intrecciano, entrano nel calore dei corpi, ancora ritagli spezzati di ricordi volteggiano, si frantumano, ricompongono nostalgie e indifferenze.

Poi si ferma e attende.

 

Riprende il mulinello di volti, corpi, valige, treni che sostano, ripartono, proseguono in direzioni opposte e scompaiono improvvisi, di scale che salgono, scendono e finalmente entrano nella stazione dell’alta velocità.