Martina Antoci - Poesie

 CERCANDOMI

 

Amo la parola chiara

che risplende come

il marmo levigato da mano di uomo

 

Amo il sì e il no

il giorno e la notte

le luci che accecano e

le tenebre che tutto celano.

 

Eppure sono ombra

che cerca ancora

la definizione netta

del proprio contorno.

 

E se mi discosto dal

mio passo titubante

inciampo e mi sento

sciocca.


 

 GIOVANE DONNA

 

Non sempre le mimose saranno in fiore,

 non sempre sarà la luce

delle candele a rischiarare il buio della sera.

 

Giovane donna,

quante sono le maschere che

dovrai svelare?

 

L’inganno sa di miele

e non basta il sale delle

lacrime per ritrovare

se stessi.

 

Oggi siedi felice

sulla poltrona che ti è stata offerta,

ma non dimenticare

che il servitore talvolta

mente.


 

 ILLUSIONE 

 

Delusione è un silenzio che non muore

un telefono che non canta

una mano che non accarezza

 

Delusione è un viso che svanisce

nella nebbia dei “ci sono”

nella stanca attesa di un gesto

che mente a se stesso

e tarda a venire.


 

 INVERNO

 

Tra fili d’erba incapsulati dal ghiaccio

scorgo gli indizi di un autunno appena trascorso.

 

E’ la foglia che,

ripiegata su se stessa,

consola il riccio, orfano

della sua castagna.


 

 

 LE PORTE DEL CUORE

 

Sai quante sono le porte del cuore?

Contale per me

che io mi ci perdo dietro ai numeri.

 

So solo che sono così tante

da non saper leggere la cifra.

 

Sono così tante

che sommando l’amore dentro ciascuna

potremmo dirci infiniti.


 

 TI RESTITUISCO LA TU MANCANZA

 

Ecco, ti restituisco la tua mancanza.

 

Le ho dedicato attenzione e amore,

l’ho riempita di frammenti, di sguardi rubati,

sorrisi intravisti, mani sfiorate.

 

Con la tenace pazienza dell’artista che

realizza il suo più bel mosaico

ho scelto tra i ricordi le tessere più lucenti.

 

Giorno dopo giorno, bevendo attimo dopo attimo,

ho tessuto l’immagine e adesso, che è terminata,

te la rendo.

 

Ecco, ti restituisco la tua mancanza,

abbine cura, rassicurala, perché

a me, pur con dolore, ha fatto compagnia

e ora tanto mi è cara.


 

 VALIGIA

 

Tu parli

io sento le tue parole,

le sento, sì, ma non ti ascolto,

già lontana nel mio mondo

sconfinato.

Mi accomodo sull’accento della tua voce.

Ti sento, ti sento e non ti ascolto,

accoccolata in una piccola valigia

che sempre porto con me.

 

E parli e dici cose,

e io sorrido ai tuoi occhi,

specchio del mio essere già altrove,

distesa tra una vecchia maglia in lana

e il libro che un tempo

ho sognato di scrivere. 



SE VORRAI VENIRE A TROVARMI

 

Se vorrai venire a trovarmi,

non giungere col sole del mezzogiorno che 

incide le cime dei monti,

come lo scultore la creta.

 

Se vorrai venire a trovarmi,

io ti spetterò nella calda luce

di un tardo pomeriggio d’estate,

quando i monti si imbellettano

con pennellate di prezioso lapislazzulo e

 le cicale tacciono.

 

Mi troverai accoccolata nel mio divano,

 intrecciato di fili di prato,

col mio cestino di stupore.

 

Non saranno necessarie le parole

per raccontarci i giorni dell’assenza.

 

Basteranno le nostre dita a sfiorare le pagine

dei nostri perché.

 

Basterà la rugiada della sera

a lavare i nostri forse.

 

Se vorrai venire a trovarmi,

non usare né bussola né mappe,

segui solo il timido impigrirsi dei raggi del sole

prima dello sfacciato tramonto.


 

SONO

 

Ti guardo: fermo e stabile,

i piedi bene poggiati a terra.

 

Ti guardo, mentre il vento della vita 

ti attraversa,  e tu non barcolli.

 

Vorrei  essere come te,

ma io sono altalena.

 

Oscillo sospinta ora da brezza leggera,

ora da vento impetuoso che schiaffeggia .

 

Resta il mio corpo attraversato da brividi,

immobile, solo per pochi istanti.

 

Poi riprende la folle corsa dove non sa.

 

Provo a cavalcare e a domare la vita che

 mi disarciona, ridendo del mio

mettere in scena me stessa.

 

Le braccia a cingere le gambe che si raccolgono al petto:

 bambino nell’utero materno.

 

Sussurro lentamente a me stessa che 

il vento a volte fa male,

occorre sedersi e pensare.

 

Ma il richiamo del vento e dell’altalena,

forti, mi riportano indietro

e io risalgo e continuo il mio sfiorare le vette

senza mai toccarle.


 

MONOLOGO DI UNA DONNA CHE SI CERCA DENTRO AD UN ARMADIO

 

Una e quaranta: il sonno sembra essersi dimenticato di me.

Escolzia e melatonina non hanno fatto il loro dovere e neppure il romanzo che sto leggendo. Non riesco ad  allontanare da me questo sciame di pensieri che mi ronza nella testa e non dà tregua.

Ho letteralmente bisogno di vomitare fuori tutti questi spettri che si aggirano nella mia mente e mi danno il

tormento.

E’ capitato. Potrebbe capitare ancora. Nessuna garanzia né in uscita né in entrata.

Un giorno come un altro ti svegli, ti alzi, metti insieme i soliti rituali del mattino: doccia, colazione. Lo

sguardo che si perde nel vuoto a cercare i confini della tuo quotidiano.

Tutto è identico a sempre: oggetti, mobili, odori, colori.

Poi l’esplosione: quella deflagrazione improvvisa e inattesa capace di frantumare un per sempre dato per

conquistato. Lo squarcio nella tela che fa appena intravedere l’ossatura del dipinto della nostra scontata

esistenza.

Tutto muta, così, in un niente. 

Impossibile tornare indietro, ricucire lo strappo, restaurare l’immagine.

Una sola parola di cinque lettere capace di cancellare minuti, ore, giorni, interi anni: basta.

Basta.

Allora ti chiedi stordita se quell’insieme di consonati e vocali sia frutto della tua immaginazione, un rimasuglio dei sogni della notte che ancora tardano a staccarsi dalla tua pelle.

Ma è tutto vero.

Di fronte a te lui, il compagno della vita. Quello con cui hai condiviso la metà del tuo letto, il tubetto del

dentifricio, la microscopica porzione di divano, acciambellati per guardare un film.

Basta.

Basta a chi, a cosa?

Di fronte a te un estraneo. Un estraneo che ha i suoi stessi occhi, bocca, attaccatura di capelli. Persino la

voce è identica. Eppure non è più lui.

In una frazione di secondo, tanto durano cinque maledettissime lettere, dieci, vent’anni si sgonfiano come

un palloncino. 

Chi sei allora, tu, tu col quale ho riso, pianto, progettato fino a ieri un avvenire che sembrava solido come

questo tavolo sul quale appoggi stanco le braccia.

Ti ho mai conosciuto davvero? Mi hai mai conosciuto davvero?

Mi hai sempre mentito o sono stata io che mi sono ostinata a vedere ciò che non era?

 

Non conta nulla, allora, tanto tempo trascorso insieme, non fa curricolo. 

Troppe sono le domande a cui non c’è risposta. 

Ora io sono il perno intorno al quale ruota la tua vita, e poi,

in un niente, fai la valigia e te ne vai. Fuggi, in silenzio: le uniche parole sono il cigolio della porta che a poco

a poco si chiude. Poi più nulla.

Resta l’eco delle tue accuse e l’ombra del tuo indice contro di me puntato.

Esci dalla mia vita che fino a ieri era in parte anche la tua, quella vita che giorno dopo giorno avevo imparato

a plasmare sulla tua, raccogliendo i tuoi cocci quando, a terra, non sapevi incollarli, sostenendoti  quando le

tue gambe traballavano, gioendo con te quando ti sentivi in alto, arrivato.

Mezze verità, bugie, cos’è stata la nostra storia.

Mi rimane di te un fantoccio senza struttura, senza identità.

E adesso io qui, a dover ricostruire un quotidiano che non c’è più, a dover riempire gli spazi vuoti che hai

lasciato dentro gli armadi e dentro la mia vita.

A dover trovare quelle risposte che tu mi hai taciuto perché troppe, perché poche, perché

vane, perché pesanti. Perché?

Forse non le conosci neppure tu. Io le avrei cercate insieme a te. Tu hai preferito chiudere la porta e

scendere quelle scale, gradino dopo gradino, quelle scale che ti allontanano da me. Per ora, per sempre,

non so.

Sento solo una immensa stanchezza.

Devo ricominciare tutto. Rovistare tra i cassetti alla ricerca di ciò che ero prima di te. Per ripartire da lì,

cercando di far coincidere i margini del mio passato con quelli sfilacciati di questo presente che mi sembra

non appartenermi più.

Come si fa a girare pagina. Come si fa a ricominciare se non sai neppure come è finita.

Se non sei stata in grado di capire, prevenire, intuire quello scricchiolio che in un basta è diventato frana

che travolge e ricopre.

Sarò più in grado di credere nell’essere umano, cogliere il fiore intero? O, cinica, coglierò solo la corolla e

getterò a terra lo stelo.

Sento di aver sbagliato, ma non so dove, né come né quando.

Chi dei due ha fallito? Chi dei due ha tradito se stesso?

Tu, col tuo voler costruire una realtà preconfezionata e rassicurante, o io a voler tenere insieme i mille

pezzi delle nostre esistenze che spingevano per andare ciascuno nella propria direzione.

 

Quanto potere di seduzione racchiudono le parole, capaci di disegnare mondi perfetti. Un per sempre di

rassicurazioni.

E mentre la bocca fiorisce illusioni, già qualcosa dentro scalpita per andare lontano.

Sarebbe così naturale e bello potersi parlare, dire un semplice sì o no, senza sovrastrutture o impalcature

Nudi, finalmente, l’uno di fronte all’altra, capaci di guardarci senza ferirci.

Nudi, immuni dal giudizio dell’altro, spinti solo dal bisogno di liberarsi di quegli abiti che ci siamo cuciti

addosso, che ci hanno cuciti addosso, che ci siamo lasciati cucire addosso.

E così, ciascuno con le proprie fragilità e imperfezioni, nel silenzio parlarci. Muti.

Invece mille parole non sono servite a squarciare questo buio che adesso mi pare sconfinato.

E io ancora qui a farmi domande, a formulare quesiti e a cercare soluzioni per me, per te, per un noi che

non esiste più o forse non è mai esistito o forse era vero solo per me.