Massimiliano Mirto - Poesie

Versi riversi

“Morte della poetessa Achmatova
è necessaria una carta
una carta sul decesso
con il referto del medico sulla causa”
(Sergej Stratanovskij)

Le cose tendono tutte al loro equilibrio,
ad una certa armonia interna,
come l’assestarsi nella spalla dell’artrosi
o dell’albero, che nel crescere
s’adatta allo spiraglio di luce
tra il muro e la siepe;
entrambi, spalla e albero,
porteranno frutto a loro tempo.
Così, scrivo versi,
nel tentativo di respirare il nulla
o di limitare il crescere della stupidità
in questo mondo di sapienti,
qui, dove sono l’unico ignorante.

 


 

Se paragono il fumo della sigaretta
che svapora tra me e la balaustra
alle nuvole che coprono la volta
come strato di bambagia grigia,
non mi sovviene la differenza.
Questa vita è come la bolletta della luce
o del gas che attende d’essere saldata;
alla fine, troverà il capolinea questo silenzio
che viaggia senza parole, come un vecchio tram:
“Vietato parlare al conducente!”
recita la scritta sulla targhetta arrugginita,
ma qui non c’è nessuno.
Stride sordo intanto sulle rotaie il mezzo,
canta la sua nenia al vento
che come guscio di tartaruga
avvolge il suo poema sconnesso,
senza sapere da dove viene e dove va.

 


Le ultime gocce d’una pioggia scialba e fredda,
con flemma tutta inglese, passeggiano
sul cornicione della finestra,
pare vogliano dire che la recita è finita
e nel loro lento andare via
annunciano una notte insonne
dal colore del piombo.
Tutti tacciono, ora, e anche lei se ne sta zitta,
senza più acqua da mandare giù.
Alla fine rimane solo il ticchettio dell’orologio
e il battito di questo cuore testardo
amante della vita.

 


 

E quest’esercizio di fermare il vuoto che incalza
che si chiama verso
mentre ansima la notte
in cerca d’un passante
ora che l’ultima luce del bar si spegne e s’addormenta
è un pacchetto cui manca solo il fiocco.
Il bicchiere asciutto svaporato
come svapora l’anima di Rilke negli abissi del cielo
svena sul foglio con incerta melodia
stride come chitarra
o sega o martello di fabbro
macina rime da artigiano
consegna alla notte l’ultimo testamento,
la lista della spesa, la bolletta da pagare.

 


 

Una manciata di nuvole lasciata da Monet,
come zucchero a velo,
come schioppettio di fuochi d’artificio.
La rada che si apre fino all’orizzonte
dove albeggia la sirena Partenope;
a un bacio dal mare, scintilla di luce
come suo mantello, Neapolis
nel sole che esplode,
nel verso sparuto d’un gabbiano.

 


 

Le cose abbandonate nella casa qui di fronte,
ingrigite da una polvere testarda come una vecchia,
dormono un sonno letargico in attesa di chissà che,
mentre la porta spalancata del balcone
si apre alla notte e ai piccioni,
soli ospiti d’una stanza quasi museo di vita evaporata.

Io sto qua, a contemplare questo silenzio,
che nel suo muto vocabolario ansima quasi,
racconta e ripete i gesti
di chi, convinto di non esser visto, l’abitava.

 


 

Ulivi squarciati dal vento,
con il cavo a cassa di violino,
dormono protesi al cielo.
Seduto, dinanzi al Volturno,
gli occhi come braccia di olivo,
chiedo al vento che suona sulle acque:
Cos’è che spinge l’uomo a guardare l’orizzonte?
Il fuoco che dentro gli arde?

 


 

Nell’estate la vita sospesa
che riconta i giorni perduti
mentre le madri matute dormono nel tufo;
chiuse nel Museo, intonano una nenia,
antica come le sponde del Volturno.

Vennero i Borbone,
i vecchi feudi coi loro nobili
incastonati alla terra come diamanti,
i castelli abitati dai baroni a guardia delle coste,
le antiche leggi normanne:
tutto avrei lasciato intatto.

Questa Italia fasulla,
sa di cibo avariato,
di aria stantia,
dei resti di pasti dei gabbiani.

La fanghiglia macera delle alghe
s’avvoltola sulle onde come un cadavere
lungo la rada dei saraceni
quasi ad imitare i morti dimenticati,
quelli che solo questa terra ricorda
nel suo silenzio incantato.

 


 

Di sangue, di lusso e di Falerno
qui s’inebria Annibale il fenicio,
ché della madre Roma in Averno
da Capua brama farne tutto sbricio.

E così, caro Fëdor, un mare eterno
– cultura ‘mmericana – d’americio
empie tutte le città; com’inferno
divora l’anima ‘sto maleficio,

più nulla puote ‘l pontificio soglio
che, pare, prend’ a beneficio scoglio.

 


 

Derubati della memoria,
come vegetali dentro il tempo,
noi che i nomi di nostri eroi,
(tu, almeno, ricordi Tuškov morto a Borodino)
nemmeno conosciamo,
tutti avido li ha bevuti il dio Volturno
in un gelido ottobre del 1860
o hanno finito i loro giorni nel lager di Fenestrelle.
Chi ha interrotto il filo di Mnemosine
che ci conduce fino a Serlone d’Altavilla
smembrato come Dioniso
da avide menadi infedeli?