Massimo Donà - Poesie e Racconti

SILENZI

 

Canne al vento senza vento. In silenzio. Come in una tela di Schifano. Ci sono silenzi che raccontano molto più di tante parole, silenzi che spengono illusioni come le luci posteriori di una macchina che si allontana nella notte, silenzi che fanno male come il dito che rigira nella piaga. Silenzi come il tuo, in cui annaspo affannato alla disperata ricerca di un perché che non trovo.

Ci sono giorni che lasci passare in attesa di una spiegazione, nella speranza di trovare un senso, di capire. E ci sono silenzi che rendono vana ogni illusione. Ci sono frasi che vorresti sentire, parole che aspetti da tanto tempo e sempre gli stessi silenzi a farle tacere. Ci sono persone che ti illudi di capire, dalle quali attendi un cenno, che dovrebbero fare quel maledetto passo ma che ristagnano fossilizzate nel medesimo silenzio. In quei momenti è meglio smettere di pensare, sedersi in un pub ed ordinare una birra, lasciando che la musica interrompa, almeno per un po’, quell’insensato silenzio.

Tutto tace. Non ci sono più parole che vengono a raccontarmi di te, rimane spento ed addormentato nell’attesa il display del telefonino, non sento bussare alla mia porta socchiusa. Solo il lento scorrere del tempo scalfisce il perdurare di questo silenzio. Insopportabile. Eppure certe assenze sanno raccontare molte più verità di tanti inutili discorsi. Verità amare come certe bugie. Verità prima offuscate dal sottile velo dell’illusione. Dure da masticare. Difficili da deglutire. Ma, perlomeno, finalmente sincere


 

PRENDERSI CURA

 

Prendersi cura non è da tutti,

prendersi cura è diverso da curare,

non è dare una pastiglia

ma sedersi accanto mentre fa effetto,

non è scaldare portando una coperta

ma togliendosi la giacca,

chi si prende cura prova a pescare una luce

dal fondo del pozzo della rassegnazione.

 

Prendersi cura significa, pur con braccia stremate, 

cullare la disperazione,

quietare le ombre scure della paura

raccontandole una fiaba che sa di speranza.

Significa dimenticare lì i pensieri

ogni volta che esci e te ne vai.

 

Prendersi cura vuol dire sorreggere i passi malfermi

che altrimenti non si metterebbero in cammino,

imboccare bocche già sazie di nausea e acidità, 

ascoltare parole sussurrate

che non sanno mai se svelare o tacere.

Vuol dire donare senza preventivi di rimborso,

magari un sorriso.

 

Prendersi cura è restaurare un capannone dismesso,

è usare tutte le munizioni disponibili

per uccidere il dolore,

è vestire a festa un barbone

sottratto all’ombra del suo ponte.

 

È accarezzare pelle piagata gonfia di pus,

è una rondine che imbecca i suoi piccoli

nascosti nel loro nido,

è sentire gli occhi allagarsi di lacrime

così difficili da trattenere.

 

Prendersi cura è come tracciare un arcobaleno

nel cielo grigio di tutti i giorni,

e non è da tutti avere in tasca

i colori che servono,

e saper anche disegnare.


 

 

NON CHIAMATEMI EROE

 

E’ tutto così strano. Strade desolatamente deserte, negozi e bar chiusi, un silenzio assordante, quasi da dopoguerra, senza aver mai vissuto una guerra. Un lenzuolo bianco che dondola appeso ad una recinzione con la bandiera italiana e la scritta quasi intimidatoria:” STATE A CASA, TUTTO ANDRA’ BENE”. Ma non va bene un cazzo! Perché è tutto così strano. Anche questo sentirmi improvvisamente chiamare eroe. Ma sono sempre lo stesso. Quello che prova a lottare contro il male, adesso come prima. Quello che asciuga lacrime e tenta di diradare le paure. Quello che ti punge per promettere quiete ai tuoi dolori. Quello che ti ascolta quando intorno sembra non esserci nessuno, che si prende cura delle tue ferite, che accorre quando premi quel tasto rosso. Quello che ti spiega come fare, che ti aiuta ad alzarti, che ti sostiene nel passo malfermo, che assorbe la tua rabbia come una spugna. Proprio quello che c’era domenica, l’altra notte e anche a Natale. Quell’essenza invisibile che acquista spessore solo quando ne hai bisogno, come la luce d’emergenza che si accende solo nel buio totale di un guasto. Quello che raccatta piscio, merda e vomito quasi a mani nude, a parte un sottile strato di nitrile, e ti lava, ti asciuga, ti cambia. Quello che riesce perfino a pescare un sorriso in un mare di disperazione. Sempre lo stesso. Quello che prende troppo poco, a cui non pagano gli straordinari, che adesso salta le ferie per essere, come sempre, a disposizione. Armato solo di un camice di cotone a maniche corte e una mascherina di carta se c’è, contro questo nuovo nemico, bastardo come tanti altri. Non so se veramente andrà tutto bene ma farò quanto è possibile perché sia cosi. Allora adesso statevene a casa, voi che potete, e, per favore, non chiamatemi eroe!


 

LONTANANZA

 

Mi sto adeguando a strade diverse
che passano per gli stessi posti,
in un silenzio grave
che mi regala
l’eco inattesa dei miei passi.

Mi sto abituando ad accontentarmi
di un triangolo di cielo,
scorto alla fine delle mura
di questa gabbia opprimente.

Mi sto allenando a catturare pensieri
con reti fitte,
cucite di pazienza e curiosità,
per stenderli ad asciugare
lungo le righe ordinate
di questo foglio.

Mi sto adattando a me stesso,
in mancanza di altri,
chiacchierando con uno specchio
che ha ancora cose nuove
da raccontarmi.

Sto provando a lasciarmi smussare
le mille asperità,
da una capriola di vento,
dalla risacca di un ricordo,
dallo scroscio improvviso
di questa pioggia salata.

Ma per quanto mi adegui,
per quanto m’abitui o m’alleni,
mi adatti o mi lasci smussare,
per quanto provi a svelare ragioni
sepolte sotto frane d’istinto,
non saprò mai,
proprio mai,
fare a meno di te.


 

LOCKDOWN

 

Giorni lenti. Giorni pigri. Giorni vuoti che ciascuno s’ingegna a riempire di qualcosa. Rettangoli di cielo incorniciati sempre dalla stessa finestra, visti da un divano troppo grande per questa solitudine, dove il rincorrersi di qualche nuvola ha già il sapore di novità. Se almeno ti sedessi qui, a dare un senso all’altra metà divano, potrei provare a ricamarti di parole i miei pensieri partoriti da questo tempo alieno. Da queste ore senza nuovi panorami da fotografare, con un sottile filo di ragnatela teso tra i raggi della bicicletta, senza voci e senza volti. Questo tempo di distanze che non possono avvicinarsi, nė cercarsi, di pelle secca che rovista nella memoria per scovare il ricordo dell’ultima carezza, di quanto fosse preziosa la banale normalità. Di sorrisi tramontati dietro sguardi preoccupati. Questo tempo gonfio di silenzio, di malinconia, ma anche di speranza. Magari potrei raccontarti di come mi salvo, o meglio, di come mi sono salvato: balzando su ogni treno, accettando ogni invito, cogliendo ogni occasione, navigando ogni esperienza, ove possibile, ripetendo ossessivo il mantra: “potrebbe non ricapitarmi più!” Avido di rimorsi piuttosto che schiacciato dai rimpianti. E potrei dirti, ora più che mai, che so di aver fatto bene. Adesso ho migliaia di fotografie da riguardare, cumuli di ricordi da ripercorrere e grovigli di emozioni da rivivere. Profumi che mi sembra ancora di sentire, una colonna sonora di rumori e respiri e brividi che non hanno ancora smesso di vibrare. Tutto in quel rettangolo di cielo. E la limpida consapevolezza che è stata la scelta giusta e che, appena se ne ripresenterà l’opportunità, lo rifarò. Più di prima. Ora più che mai.

Nonostante tutto mi sento fortunato. Alla faccia delle limitazioni, delle lontananze forzate e del periodo nefasto. Alla faccia di questo maledetto virus. Mi sento fortunato perché sto bene, non devo stare solo a casa e posso essere, più o meno, quello di prima e continuare ad uscire per andare al lavoro. Quel lavoro che mangiava vita a suon di turni e che ora è meno sazio poiché ruba giorni comunque vuoti. Quel lavoro scelto nell’inconsapevolezza della gioventù ma che risceglierei oggi. Quel lavoro che amo, se possibile, adesso ancora di più. Adesso che la vicinanza ha riscoperto il suo valore, che si fa prezioso un breve contatto, adesso che il paziente è ancora più solo di prima e, più di prima, elemosina una parola di conforto, una battuta, una carezza. Magari con voci ovattate da una mascherina o con mani celate da un guanto, ma comunque semplici gesti capaci di fare miracoli. Perfino di farmi diventare figlio, amico, fratello. Sono fortunato perché posso ancora incrociare nuovi sguardi, ascoltare altre storie, confrontarmi con i colleghi. Posso ancora afferrare quella mano tesa, provare a consolare, gettare un piccolo salvagente nel mare mosso della disperazione. Sono fortunato e, in fondo, lo sono sempre stato, prima di tutto questo, ora e anche dopo, quando tutti torneranno a dimenticarsi di noi. E sarà così! Ma ci sarà sempre qualcuno per cui invece, in quel momento, sarò indispensabile. Quindi può capitare che sia spaventato, oppure stanco e nervoso, a volte scoraggiato e incazzato, ma è tutto ben nascosto dietro il solito sorriso perché, nonostante tutto, mi sento fortunato.

Continuo insistentemente a sentir parlare di eroi senza armi, di paladini senza nome, di angeli senza ali. E non è certo un caso se ad ogni appellativo manca comunque sempre qualcosa. Continuo a sentire grazie a cui non sono abituato, riconoscimenti da ogni dove e pensieri sia verbali che materiali perfino esasperati dopo anni e anni di braccine corte e silenzio. Continuo a sentire improbabili accostamenti che mi dipingono come portatore della croce nell’odierna via crucis, dotato di superpoteri e con addosso una tutina attillata sotto la divisa, rigato da gocce di sangue che scorrono come lacrime, capace di miracoli e, addirittura, in grado di guidare la resurrezione. Continuo a sentire cose a cui non credo. Considerazioni che svaniranno insieme a questo virus. Promesse che passeranno e nessuno ricorderà più. Nessuno si ricorderà più dei marinai che hanno tenuto la barca a galla col mare mosso quando sarà passata la tempesta e quel mare sarà nuovamente piatto. E tornerò a non trovare posto in parcheggio, ad assorbire lamentele e ad essere un semplice numero. Allora, oggi come sempre, l’unico termine pasquale con cui mi identifico ė “passione”, perché ė quella che mi ha sempre accompagnato, che mi fa andare avanti e che da un senso a tutto. Anche a questo infame periodo di passione!

Il tempo passa, anche se sembra che bisogni spingerlo perchė ci riesca. E, pian piano, ci stiamo abituando a tutto. Ad intuire i volti nascosti da una mascherina, a stare a debita distanza, a rimanere sepolti dentro quattro mura e a trasformare in evento la spesa al supermercato. Ci stiamo adattando a passeggiate troppo brevi, a strade silenziose e al vestito stretto della solitudine. Ad animali sempre più temerari che si spingono dove prima non osavano, attirati dall’immobilità. Ma tutto questo potrebbe non essere solo un male e, quando questo incubo finirà, avremo un’occasione unica. Qualcosa di irripetibile e speciale. Potremo rivivere ogni esperienza, anche la più semplice e banale, come se fosse la prima volta e avremo l’opportunità di riscoprire tutto: un panorama nuovo, un abbraccio, un fiore, una scampagnata, una cena in compagnia o la carezza dell’onda alla sua spiaggia. Magari scrostando lo strato opaco della superficialità con unghie curiose per scorgere quel luccichio. Avremo gli occhi di un neonato appena partorito alla vita, un corpo intorpidito che si ridesta alla fine del l’anestesia, un cuore vergine da riempire di nuove emozioni … e sarà bellissimo!


 

SPAZZATURA

 

In questi tempi crudi pregni di falsità ed apparenza 

forse la sincerità si cela nella spazzatura. 

Nei cumuli di resti allineati sbadatamente lungo i marciapiede. 

E’ li che si trovano i segreti, 

le foto venute male, 

le lettere dei tradimenti, 

le armi degli omicidi, 

fazzoletti di carta bagnati di lacrime 

e bottiglie di vino vuote. 

Parole scartate, 

carezze mai date 

e sogni infranti. 

E’ tutto li dentro in attesa di essere trovato,

portato via,

smaltito. 

Dovremmo cercare la verità in ciò che non si mostra, 

negli scarti gettati in un sacco nero per provare a dimenticarli,

senza riuscirci,

ai margini della strada,

nella polvere,

sotto la zampa sollevata

di un cane randagio

o di un improvviso temporale.

Non c’è traccia di falsità

in ciò che buttiamo

pensando che non serva,

non si spendono bugie

per chi ti rifiuta.


 

HO VOGLIA

 

Ho voglia di scrivere un’altra poesia sul muro lungo la strada, 

per poter ricordarmi sempre di chi ero.


Ho voglia di evadere dalla stanza stretta dove mi hanno rinchiuso le mie convinzioni.


Ho voglia di strade diverse, 

aria fresca e una luce accecante dove lasciar pedalare gambe e curiosità.


Ho voglia di un giorno di sole che si siede al bar per una birra, 

quando si fa sera.


Ho voglia di rincorrere la scia di una stella che muore 

con le scarpe slacciate dei desideri.


Ho voglia di fare l’amore 

come quando é da troppo tempo che non stiamo insieme noi due.


Ho voglia di un piatto di pasta improvvisato per ritardare il sonno e un devo andare.


Ho voglia di risentire quel brivido che se ne frega se é sempre la stessa canzone.


Ho voglia di ingrassare a forza di risate senza motivo, 

di quelle che é impossibile avanzarne. 


Ho voglia, 

e finché avrò ancora voglia di tuffarmi o di saper cogliere,
di volare, piangere, cambiare, sfiorare, chiedere, assaggiare, sbagliare, baciare, camminare, sussurrare,
respirare,
vorrà dire che avrò ancora voglia di vivere.


 

SORSI DI CHERSO

 

Sono tornato per tutte le promesse che questa terra sa mantenere. Per come lecca il suo mare con lingue di sasso che, allo sguardo, paiono pieghe di tessuto di un immaginario sipario che si spalanca sull’orizzonte e una vela solitaria attraversa quel palcoscenico, inconsapevole comparsa, dentro la cornice di quest’altro giorno. Per la colonna sonora composta da onde che si distendono senza fine sulla riva, dal vento che fischia tra i rami e dal costante frinire delle cicale. Per l’aria che rotola giù dalle colline portando quell’inconfondibile aroma d’elicriso, pino marittimo e rucola selvatica. Sono qui per quell’intreccio di muri a secco, fatti di sassi pazientemente disposti uno sull’altro da mani e braccia antiche, che da secoli resistono a vento e tempeste, forti solo della loro vicinanza. Di quell’eterno abbraccio con cui si sorreggono. Per le file ordinate di vecchi ulivi, con rughe profonde tatuate sul tronco dal tempo trascorso a guardare il mare, fedeli sentinelle della costa. Per la tavolozza di colori rovesciata tra cielo e terra che non sbiadisce mai. Per questo mare liscio come il lenzuolo di un letto appena rifatto. Sono qui per tante cose, seduto su una sedia di scoglio col mio libro, e lo sguardo che elemosina meraviglia. Le pagine mi invitano ad ascoltare una storia, cuore e birra m’illudono di inventarne una nuova e la vita, fuori, mi aspetta per farmi vedere la mia.


 

CERCO NATALE

 

Negli ultimi, ostinati, avanzi di neve gelata che sonnecchiano adagiati sulle vecchie tegole dei tetti, in un ripido ed ondeggiante manto sporco. Negli angoli dimenticati dal poco sole di queste giornate troppo brevi. Nel passo silenzioso e guardingo di un gatto curioso che si sofferma ad annusare quell’inatteso regalo del cielo. Nella fuga intimorita di un merlo, nero come la cenere dei camini, che abbandona la sua paziente ricerca di foglie e rami secchi  per rinforzare il nido. Per scaldarlo. Cerco Natale. Nel tronco dell’ulivo che si scalda imbottito di paglia da mani premurose, al riparo dalla rigidità delle eterne notti invernali. Nei nudi e spogli rami del melograno che danzano insieme a quelli del nocciolo e dell’acero. In quella foglia solitaria che ondeggia aggrappata a quello che era il suo nutrimento, con un’invisibile filo di ragnatela. Di speranza. Nelle altre, cadute da tempo, che sbirciano il cielo grigio da sotto quel che resta della neve. Come bambini giocosi che occhieggiano le stelle nascosti al caldo delle loro coperte. Aspettando Natale. Nei ceppi di faggio che ardono scoppiettanti nella stufa, nelle lingue di fuoco incandescenti che anneriscono i mattoni refrattari e scaldano con pazienza il freddo intorno. Gli occhi non si staccano dallo spettacolo delle fiamme, e il corpo piacevolmente li asseconda. Senza muoversi da lì. Anche a Natale. E’ il destino ostinato con cui convivo. Nonostante un treno che passa ancora, io sono qui che lo aspetto. Disperso nelle mie periferie. Semplicemente. Semplice come la voce del mio anziano vicino che mi chiama dal campo, ed eccolo là con la solita camicia a quadri degli altri giorni, gli stessi pantaloni scoloriti, le gote rosse e i capelli grigi arruffati. E una bottiglia del suo merlot per me. Per augurarmi buon Natale. Lo ringrazio commosso. E cerco ancora quel Natale in un giorno come gli altri. Nel dolce sapore della consuetudine. Dove non c’è confusione, dove non giungono luci d’illusione, dove non compare carta da pacchi colorata né fiocchi lucenti. Qui, lontano da strade affollate e da volti semisconosciuti con le loro bugie. Sarò qui in questa notte. Alla fine uguale a tante altre. A cercare qualcosa gettando qualche altro ceppo di faggio nel camino. Con, a fianco, la bottiglia di merlot, a guardare il fuoco ascoltando il vento. Ad attendere di sentire qualcuno che bussa alla porta, infreddolito, nel suo vestito di panno rosso, la barba bianca e un grande sacco legato con lo spago. E scoprire cosa mi avrà portato, con un sorriso bambino di curiosità, mentre lui si riposa e si scalda davanti al fuoco con un biscotto alle mandorle e un buon bicchiere di vino. 


 

 

SOLE ASSASSINO

 

Il sole non pensa al buio che uccide.

conficca deciso la lama affilata dei suoi raggi,

nelle carni gelide dell’oscurità,

senza compassione, senza ombra di pietà o pena,

fino al cuore.

 

Carnefice sadico e spietato,

sorge lento e piano soffoca, lentamente, a poco a poco,

il nero della notte

stringendo il cappio dell’alba al collo del buio,

uccidendo nel giorno l’ultimo respiro di tenebra.

 

Poi passeggia fiero nel cielo ormai suo,

orgoglioso splende e scalda e piano si spegne nella sera,

chiamando la luna di guardia alla notte,

mentre lui recupera le forze

per il prossimo, quotidiano omicidio.

 

Se il sole non fosse un vigliacco assassino

saremmo condannati al vagare cieco,

privi di riferimento o limiti,

senza luce,

nell’eterna notte 

della sua candida innocenza.