Massimo Romano

Poesie


La pioggia

guarda in alto
come cade,
non fa rumore,
fino a quando,
non tocca ‘lsuolo.

Sulla pelle,
la vediamo cadere,
ci camminiamo,
guardando ‘nbasso,
per vedere,
ove li piedi
velocemente mettiamo.

Passo dopo passo
passa,
prima debole,
poi forte,
ma quando ci tocca
come animali la terra,
istintivamente,
guardiamo n’alto.

E quando finisce
e ‘lsole risplende,
‘lverde fiorisce
e la vita,
riprende.

Lucio Dalla diceva che prima dei 20 anni siamo tutti poeti e che, superata quella soglia l’essere umano è classificabile in due categorie: i poeti e i coglioni.
Onestamente non so a quale categoria appartengo, ma quando ci sono le giornate di pioggia mi sale un pò la tristezza, vedo il mondo piangere, come se volesse lavare tutto il mondo dal male che noi gli abbiamo causato, un male che purtroppo, solo una pioggia in tutta la storia, è riuscita nel suo intento.
Non ho mai sopportato vedere qualcuno piangere, mi provoca rabbia, non so spiegarne il motivo ma, è come se con quelle lacrime, scendano anche i problemi, giù che, attraversano le calde guance per poi lasciarsi cadere in una profonda caduta, un pò come la pioggia, accompagnata da lampi e tuoni, il pianto da singhiozzi e lamenti, entrambe si sfogano, per poi ridare il bel tempo, perché dopo un brutto temporale esce sempre il sole, perché dopo un lungo pianto, esce sempre il sorriso.
E se la pioggia, fosse il pianto del mondo che cerca solo un modo per sfogarsi?
e se i nostri pianti non fossero altro dei ponti che ci uniscono alla nostra vecchia ma pur sempre cara, Madre Natura? E se fossimo collegati ad essa tramite le lacrime che cadono a terra, rendendola fertile ma allo stesso tempo, ancora più triste per il dolore dei suoi figli?

 


 

Come vagabondo

Mi trovate in piazza, sulle vie principali, nelle stazioni e perfino sotto i ponti.
Non sai come ci sono arrivato, non sai chi sono, chi ero.
Non sai cos’ho passato.
Sai solo che non ho nulla, se non me stesso.
Sono colui che con il freddo svanisce e con il caldo sullo sfondo delle strade, figuro.
Molto spesso a causa della nostra condizione di vita, seppur non possedendo titoli nobiliari o conti in banca degni di tale titolo, pensiamo che il mondo sia perfetto fin quando noi riusciamo a mettere le mani sul nuovo modello di scarpe. Dimenticandoci di tutto ciò che ci circonda.
È proprio qui che comincia la nostra storia, all’incrocio tra un negozio di scarpe ed un parco.
Non vi dirò il nome della città, ne nominerò le vie perché nemmeno io conosco tutti i dettagli del viaggio, l’unico a saperli è lui, il vagabondo.
Il motivo per cui quella mattina si alzò e decise di andare al parco ancora se lo domanda, una mattinata tranquilla di luglio, in giro ancora quasi nessuno.
-È già domenica?
Si chiese, non che gliene importasse qualcosa, no, voleva sapere se avrebbe dovuto dirigersi in una chiesa per racimolare qualche moneta, non facile negli ultimi tempi.
Dal calendario che lesse da un’edicola la vicino scopri che non era domenica, lunedì 15 luglio 2019, sconfortato e sudato finalmente arrivò alla sua solita postazione, poco fuori il parco, non in mezzo alla strada, sopra una specie di blocco di granito alto come una panchina o poco più, dando le spalle al parco ed alle vecchie all’interno cominciò il suo spettacolo, con un ukulele e se stesso cominciò ad intonare “ no woman, no cry “.
Continuò così per un paio d’ore, riuscì anche a rimediare qualche banconota, lì in bella vista sporgevano fuori dal cappello, pulito, come lui. Verso le 11.30 decise che era ora di raccogliere, prese il cappello da per terra e se lo mise direttamente in testa, le monete come per magia passarono attraverso i capelli e finirono nelle tasche, si inchinò di fronte al suo inesistente pubblico e si recò su per la via, passò di fianco ai negozi, le vetrine riflettevano, ci si specchiò, si guardò il volto e con la mano destra si sistemò il cappello tirando la visiera in avanti per poi proseguire la sua strada. Dopo cinque minuti di camminata affiancata dai negozi e dagli splendidi palazzi, arrivò alla piazza.
-Oggi niente mercato, lunedì.
Decise lo stesso di restare, si sedette sopra una struttura verde usata per un banco dei fiori, posò il cappello sulle gambe approfittandone per portare una mano nella tasca del pantalone per prendere le sigarette, prese l’ultima e se la portò alla bocca mentre con l’altra mano cercava invano l’accendino. Dovette alzarsi e chiederlo ad una coppietta che passava proprio lì davanti, lui, lesto rispose con un – non fumo-, lei, nemmeno lo guardò. Ci riprovò per un altro paio di volte con lo stesso risultato fin quando, un turista benevolo decise di regalargli il suo, un classico accendino ma, un accendino. Con un sorriso malandrino fece ritorno al banco e ci si sedette di nuovo, si accese la sigaretta, cominciò a suonare e più lui suonava, più la gente si avvicinava, anche la coppietta, per ascoltare la dolce melodia che fuori usciva dal piccolo ukulele bianco e provato dagli anni.
Finito lo spettacolo guardò il cappello.
-Meglio parco, qui poco.
Pensò tirando su lo sguardo con gli occhi che si fermano esattamente puntando una paninoteca là vicino, prese i soldi e cominciò a contare.
-5, 10, 11 . .11.50. ok bastano.
Li chiuse bene nel pugno della mano destra, attraversò la strada e più si avvicinava più la gente si allontanava, non curante degli sguardi dei passanti, arrivò al bancone ed ordinò una pizza con la mortadella e pomodoro.
Tornato alla base, si godette la pizza farcita con il sole che picchiava sopra il velcro del cappello, rimase ancora una decina di minuti, il tempo necessario per decidere dove andare.
Camminò per un po’ ma alla fine si sedette sopra il bordo di un muretto dove prese un po’ di sole prima di rimettersi a camminare, non molto questa volta, arrivò davanti un viale immenso dove non passano macchine ma solo persone, si sedette con la schiena poggiata alla ringhiera di un cespuglio, posò il cappello davanti i piedi e cominciò a cantare.
Non riuscì nemmeno a finire la prima canzone che una voce gli disse
-Tu no stare qua, questo mio.
Alzò lo sguardo e davanti a sé una figura abbastanza aggressiva, decise che non ne valeva la pena mettersi a litigare.
-Il viale è grande.
Gli rispose mentre si alzava, si risedette al cespuglio vicino e ricominciò.
Cantò varie canzoni, di vari generi, prevalentemente Bob Marley ma, era quando non cantava che il pubblico aumentava, quando improvvisava ed incantava i passanti. Passarono un paio d’ore e giustamente credette di dover andare a prendere qualcosa da bere quindi fa per alzarsi preparandosi mentalmente alla camminata sotto il sole alle 16. Si stava quasi arrendendo al suo destino quando una figura vestita di rossa gli porse una bottiglia d’acqua, con la mano destra afferrò la bottiglietta e ringraziò con un movimento della testa il suo gentile babbo natale. A luglio.
Non avendo più motivo di alzarsi si ributtò sulla dura terra e tornò a creare una magica atmosfera fino al crepuscolo, accompagnando le coppiette con il suo ukulele lungo il viale, sperimentando per lui ed il suo pubblico che, nemmeno degnano di uno sguardo fin quando non suona.
Dopo il crepuscolo decise di fare ritorno, si alzò, si mise a giacca e cominciò a camminare in mezzo al viale, guardando la bellezza della città, con un solo pensiero.
-A domani.
Tornò da dove tutto cominciò, al parco, la sera frequentato da ragazzi tranquilli, rumorosi.
La vista di quei giovani lo riportava alla sua di giovinezza, qualche ragazzo ogni tanto glielo chiedeva da dove venisse, che cosa fosse successo, non rispose mai.
Quella sera, come tutte le sere attraversò il parco, salutò i ragazzi, ai quali chiese anche qualche sigaretta con successo per poi stendersi su una panchina, quella dove si sedevano sempre le vecchie che non lo facevano restare nel parco la mattina. Si addormentò quasi subito, con una coperta che lo copriva completamente e la giacca come cuscino.
La mattina dopo non ci fu musica, nessuna canzone. Se ne andò, lui non c’era più.
Solo il suo cappello.

 


 

Dettagli

La mattina ha sempre quel qualcosa che ci spinge ad affrontare la vita, impegni, imprevisti, luoghi in cui andare per qual si voglia motivo, ogni giorno è come rinascere, tutte le mattine in fondo, in questo piccolo, grande mondo, dove tutti siamo diversi, siamo tutti uguali.
Posso dire con tranquillità che, la parte della mattina che preferisco è la tarda mattinata, verso le dieci e mezza, undici, esattamente la fascia oraria nella quale, chi va di corsa ha già tagliato il traguardo e chi come me, non ha niente di meglio da fare. E dove si va quando, non si ha niente da fare?
Al Bar.
Fin dalle origini, i Bar, importanti centri all’interno della società, sono stati i punti di ritrovo per tutte le classi sociali, con delle piccole ma imprescindibili regole ovviamente ma, senza nessun tipo di discriminazione, insomma, il posto ideale per chi è alla perenne ricerca di una località, dove, a nessuno importa chi sei, che fai per vivere o da dove vieni, semplicemente, riposarsi un po’.
Nel quartiere dove vivo, i Bar sono molteplici, ciò grazie alla grandezza del quartiere, interessante è il fatto che, in base alle zone dove sono situati i Bar, le clientele differiscono: il Bar sotto casa (che poi non è un Bar ma un Bazar) è frequentato principalmente da persone provenienti dall’est Europa, il Bar della piazza ha un continuo via vai di, netturbini. Infine, il Bar dove sono diretto io, pensando di essere l’unico cliente.
Un Bar abbastanza nascosto, incastrato in un palazzo, originariamente c’era un’agenzia di noleggio. All’esterno marrone, all’interno verde muschio, all’entrata la cassa, all’uscita la vetrina dei dolci, si etra e si esce tramite un’unica portafinestra, collegata dalla stessa scalinata, una piccola veranda con un paio di tavoli completa il quadro.
Ordinato il caffè, mi accomodo su uno dei tavolini, di fianco a me, una coppia anziana, probabilmente marito e moglie. Lei, leggermente più giovane o almeno così appare, con un gran cappello e un enorme paio di occhiali da sole attraverso i quali, legge, lui, sui settanta, vestito di un elegantissimo pantalone bianco abbinato perfettamente alla giacca, chiaramente più nervoso, fuma e con gesti isterici posa la cenere. Dietro di me, due ragazzi ripassano, dopo una rapida occhiata alle tazzine sul tavolino, posso affermare che sono lì da un po’, utilizzando i libri come scusa, come me, anche loro sono seduti in quel Bar per perdere il tanto caro e sempre meno tempo.
Quando si ha tempo ci si può focalizzare sui dettagli.
La musica, leggera, accompagna il nostro dolce far niente, per poi violentemente rispedirci sulla Terra, facendo delle pause per i radiogiornali. Il barista, facendo avanti e indietro, si lascia scappare un commento, a modo suo, sulle decisioni politiche del momento, forse ho capito il nervosismo del signore.
Calma e ordine sembrano governare questa tarda mattinata, fin quando, come da norma, un imprevisto interrompe la nostra pace. La signora, voltando pagina con una mano e tentando di prendere l’accendino con l’latra, rovescia involontariamente, la tazzina piena, situata proprio di fronte al marito che alzandosi istintivamente, fa volare due gocce, precise come un banchiere, si stampano sulla costosa ed elegante giacca, portandolo a esclamare un irripetibile commento.
La sua reazione, talmente spontanea, unita dal nervosismo e la tensione, lo rende surreale e comico, provocando così le irrispettose risate: mie, dei ragazzi e del barista; non credo che tornerà più in quel Bar. La signora, palesemente sul punto di cedere alla risata, si limita a osservarlo, il furibondo marito, mostrandogli poi, un magico sorriso e nel mentre, con le mani intrecciate, gli lascia un bacio sulla guancia invitandolo, a ridere insieme.