Matteo Maragna - Poesie

MOTI ACCELERATI UNIFORMI

 

Loro,

videro due anime sfrante ricongiungersi nell’ultimo mare

che pur fu il primo,

riconiugando i verbi dell’amore

in ondeggi perpetui,

fare ghirlande di sassi salmastri,

abbrancando i bargigli dell’immenso.

E questi festoni di gaiezze fuggenti

furono offerti,

negli imminenti ritorni alle case,

come ai termini dell’estate,

a quei monti che ai fiumi danno il viatico,

non guardandovi più

per amor del vostro amore,

che cresce imminente e incontrollato:

divenne imbarazzo per noi che viviamo.

Chiedevamo solo

un torneo di maggio improvvisato,

il pretesto per una rinascita,

ma ottenemmo poche candele

e il pane secco come pegno

di un impegno immaturo,

ma che ardeva impaziente nelle nostre tasche.

Loro,

hanno visto i pensieri di angeli

scanditi dal metronomo del mondo

leggeri quanto il sonno dell’infante.

Pesantezza che è infame somma di sogni

creata da ogni mano

con malcerta insicurezza,

vanificando leggi riportate dalle effemeridi.

La poesia mai detta si formava…

col lambire di carezze,

volava via,

lontano dalle falloforiche città verticali

che perdonano sofferenti

la crudeltà di elementi inclementi.

Loro,

che muoiono ogni giorno

convocati dalla vita responsabile.

Afflato di esistenze

attanagliate in atavica morsa sempre attuale

senza pesare sulla piuma di uno svago.

Senza pensare

alla fine che conta davvero,

riflesso e somma di risultanti infinite.

Loro

ci hanno visto partire,

di notte e sognanti,

a cavallo di eroiche suggestioni,

di parole proferite da nuovi corpi,

riscrivendo le nostre vite e le vostre

per tracciare miriadi di croci

su smorfie cancellate per il vostro godimento.

“Ma loro chi?” : ‘loro’ si interrogavano.

E intanto un lume gli riardeva negli occhi.

Della bella stagione dei sogni,

riflettevo,

mi resterà la miseria degli incubi.

E macabro sorridevo,

con l’amarezza di chi crede

o finge di credere,

che loro non lo sappiano.


 

LOMBI DIVINI

 

Questa mattina i ragazzi rientreranno tardi.

Non li sentiremo chiudere la porta,

nemmeno uno sbadiglio,

una risata,

alcun rumor di sorta.

Tra le lenzuola non si assopiranno,

ranicchiati come bimbi di una volta:

splendore di feti appena nati,

rapiti, assorti,

in sonni rievocati

da abissi prenatali

e quatte fughe dal Lete,

via da memorie di cunicoli amniotici.

Non torneranno i nostri ragazzi!

Non da noi, cara,

che li schiudemmo dalla terra brinata,

mulinandoli in alto,

radici impolverate,

per far sì che apprezzassero l’aria e il respiro,

il canto dei loro polmoni.

È ridondante questo nostro affetto?

La cura non lede mai il paziente, certo.

Ma chi era già Edipo, amore?

Di lui si inventano fin troppe lezioni,

nelle scuole di ogni tempo,

per confondere la nostra prole.

E noi, nelle premure di genitori,

attendiamo l’ombra dei nostri figlioli.

Dei nostri lombi?

I nostri semi,

i nostri ovuli,

i nostri… I nostri?

Nostro “futuro”,

“eredità”,

“prole”,

la mia, la tua e sua “immortalità”,

patrimonio dei geni,

investimento a lungo termine

per vecchiaie imminenti.

È la parabola discendente della tua libertà

di brillante individuo

dopo l’acuto di un vagito.

Che abbiano 39, 50, 17, 21,

o sette anni,

dopotutto restano,

resteranno sempre ciò che è compiuto.

Spettri del nostro ambire,

olezzo e afrore del desiderio di animali gaudenti,

di giardinieri speranzosi.

 

Genitori! Siam forse,

oh, si che siamo,

orecchie raggrinzite,

carnali involti,

conficcati sulla testa di un dio

un po’ troppo zelante,

piissimo osservante

di liturgie naturali.

Piccoli tiranni, di sicuro,

e a contempo gentili Geppetti,

fantomatici alchimisti di omuncoli imperfetti

prematuri nel cuore e nei sangui.

Bagatti impertinenti,

barcamenati

in magistrali educazioni sui sentimenti.

Siamo gli austeri precettori di Calvino,

il senso di colpa di Caino,

la responsabilità di Sant’Agostino

e il suo dannato limbo per infanti mai nati.

Nessuno è padre a un altro,

e di madri ve ne son troppe.

Astute nutrici ammalianti,

gravide di feconde menzogne.

Allattati ai seni di patrie,

della Terra, dell’Urbe immutata,

delle Russie e delle Afriche,

di Madri Coraggio e i suoi cenciosi figli,

vi aggrappaste ai drappi virginali

di incorruttibili dee sterili,

travisandone genitrici!

Noi orfani,

antichi pargoli

di natività inconsistenti.

Per chi furon foderate in meticoloso agire

queste culle di nebbia?

Queste incubatrici di rugiada?

 

Per saperlo bene occorrerebbero millenni,

e le belle creature che modelliam dinnanzi,

non son che i monatti del nostro ardire,

il germe arrogante,

infuso in terre che non ci appartengono.

 

Allora? Dove saranno i nostri ragazzi?

Pensiamoci poco, parchi di riflessioni,

senza il logorar di attese vane.

Sognate, creatori di fanciulli! Sognate!

E i loro naufragi termineranno

sulle stesse sponde che vi hanno raccolto,

irretiti dai dubbi e dolori quali eravate.

Solcheranno acri con piedi leggeri,

senza stivali di cuoio del padre,

e alcuna stola di seta materna.

Auspicherete ogni grazia,

se potete,

come alle rondini sui pali,

frementi l’avventura degli esili autunnali.

Perché questo, e molto più, essi vivranno.

Augurategli l’isola di Vulcano,

il cenobio sul cratere,

le ricchezze di Eracle,

i fasti di Babele.

Il silenzio dei meteoriti.

L’armonia della quinta musicale:

si insinua nei timpani,

e ti domina la mente.

L’inatteso bacio di un grecale

sotto salici ridenti,

testimone di amori e tresche pomeridiane.

 

I ragazzi torneranno tardi stamattina,

siamone certi.

Non li sentiremo chiudere la porta,

nemmeno uno sbadiglio,

una risata,

alcun rumor di sorta.

Sono nati in dimore non loro,

dai talami di divorzi,

dissociazioni dell’io

smanioso di replicarsi infinitamente.

Stagioni dannate per guardarsi allo specchio

sui respiri vorticosi di generazioni transumanti,

nelle quali bocche ronzano,

pensieri e parole di alveari non loro.

Quando,

quando,

quando torneranno davvero a casa i nostri figli?!

Quando cercheranno un babbo nel chiaro di luna,

come in questa notte,

o nella tenebra ingabbiata dal petto,

armati di lumi e candelieri.

Quando, desti, rispecchiati

dall’Aurora,

coglieranno in loro

le fattezze nostre,

e il bagliore innato,

da sempre alimentato,

da nessuno generato,

che è pegno divino

e meramente umano.

Recheranno a se stessi, dunque.

Alle loro case immaginarie,

di desideri e ambire sottile.

E dagli antri ritrovati,

rimembreranno il mistero

di vecchie braccia sempre tese,

assai ricurve oggi anziché ieri,

sugli usci di tutto il mondo;

brinate dal freddo di interminabili attese,

conservano in sfoggio la medesima posa

di chi ha cullato in silenzio,

volente o nolente,

tutte loro, tutte nostre,

remote felicità in repentine concessioni.

L’immensa gratitudine

ma senza attaccamento,

potrà in coscienza svelarsi famigliare.

Ma nulla di nulla sarà più impellente,

di eguagliarsi in sol questo:

lasciare a chi crede il genetico innesto,

e serbare il cesello

eredità dei donati,

che è l’arte suprema dell’essere amati.


 

AFFINITÀ EMOTIVE

 

Italiani figli dell’emozione.

Nel calcio, la Nazionale, la nazione,

nelle Crociate del “Dio lo vuole!”.

Il terrorismo e gli attentati:

“siamo tutti americani”,

“siamo tutti clandestini”,

“Generazione Bataclan”.

Verità per Reggeni, per Cucchi, Aldovrandi.

Gli italiani cultori dell’Opera,

dei proclama in prima pagina,

mentre il sangue sulle are si rapprende in croste,

vola via al vento. Lontano da sguardi memori.

Lo straniero è una minaccia,

LO STRANIERO È UNA RISORSA,

CHE FORTIFICA LA RAZZA!

Se muore l’uomo buono ci sentiamo tutti orfani.

Se muore l’uomo turpe silenziosa correttezza.

Se l’uomo medio se ne va, ce ne andiamo pure noi.

Italiani figli dell’emozione, del momento,

dei “Santo subito!”, dei “Morto un papa se ne fa sempre un altro” .

Italiani? Viva Verdi, Viva il Re e Avanti Savoia!!

Con l’emozione abbiamo vinto una guerra.

Con l’emozione abbiamo conquistato Fiume.

Con l’emozione….

Scesi in piazza mille volte per il vociar del vicino,

o per un vano guizzo della ragione.

Italiani figli dell’emozione, sulla carta stampata.

Manifesto della Razza: Corriere della Sera, il Popolo d’Italia.

l’Unità, il Fatto Quotidiano: CHI SBAGLIA PAGA, CHI SBAGLIA VA A CASA. AUTUNNO CALDO.

Sui rotocalchi, i drammi a tinte fosche,

incesti indicibili…

Singolar tenzone di emminenti sbraitanti

sulla Rete, in televisione: dove vuoi tu!

I PRODOTTI ITALIANI SONO I PIÙ BUONI AL MONDO !

Per l’emozione,

qualcuno donò al Duce la sua fede nuziale. Fessi sposati da almeno trent’anni.

Per l’emozione,

Totò bruciò il suo stipendio, in un film.

Emozioniamoci,

e saremo sempre dei grandi italiani,

fuggendo il torpore della lucidità umana.


 

BUCANEVE

 

Bucaneve,

cattedrale sommersa di fedi remote.

Campana molle,

con tocchi marmorei

tra nevi

ti schiudi.

Creatura ammaestrata all’attesa,

primeggia il tuo muto nascere,

discreta gioia di esili radici

in brune, addormentate zolle

mai materne.

Petali congiunti,

mani in preghiera,

sulle tombe di inverni indulgenti.

 


 

 POESIA/AFASIA N. 1

 

ECLISSE

 

Nottetempo scorsi

NEVEVENTO raro,

piuvoto in tormenta.

Candida, bianca,

LALUNA lorda,

macchiando le sabbie aride,

il soffio.

L’ombra che tronca la DORATAFACCIA, FORATAFACCIA,

giocando il nascondino di pupille stanche.

FRACACASSA il silenzio,

nel cielo è grancassa.

E il timpano del sole

è il gesto del maestro,

dell’astro che ora,

mesto,

ci serra il suo sipario.

Ci serra la sera

che è già mattino.

Che era già notte,

nei soliloqui dei lampioni.

Si dilatano allo sguardo

in cataratte di rugiada,

nei bagliori che perforano la strada.


 

NELL’ESTATE, LE CAMPANE, IL POMERIGGIO.

 

Nei sette rintocchi

un cardellino canta,

una moto squarcia il pomeriggio,

il suo trascorrere monocromatico,

il cielo color grigio.

Nei sette rintocchi

il gallo canta,

una nube di fumo è colonna celeste,

mediana tra terra ed aria.

Le fascine parlano con i cirri montanti a neve

nell’afoso orizzonte che svela, lontana,

Torino in miraggi lucenti.

Nei sette rintocchi sgocciola il tempo,

le ore, i secondi,

raccolti nella bacinella di un oblio che sorride alla strada.

Ai suoi muti passanti.


 

 IL SABBA

 

Sette ombre che si liquefano,

danzanti,

attorno al fuoco.

Echeggia un suono lugubre.

E i tronchi del boschetto

appassiscono come fiori.

Lamento agghiacciante

di una Terra calpestata.

Il gemito di un dolore,

costante,

infinito,

che senso non ha.


 

 INTERCALARE

 

Lamento di un vecchio cervo

ai primi insulti del freddo.

Rimbomba l’eco del vento,

rimbomba accanto al bramito.

Dal cuore del vecchio cervo

risale lo squarcio di un grido:

mi pare come un vagito,

o il pianto, patetico e greve,

di un sentimento smarrito.

Smarrire e svanire nel vento,

in lui son medesima cosa:

trafitto dal legno, ormai spiedo,

sul candido suolo si posa.

Ma io, che ne odo il rantolo,

lo sbuffo del fiato esalare,

non posso più tralasciare

Il fatto che morir farà male,

certo,

ma in vita non è che una chiosa.


 

MARE

 

Mare

in moltitudini di gocce,

lievi e coese,

in gare col vento di infiniti capricci

e follie naturali,

inesprimibili confidenze

sussurrate in incessante ondeggiare straniante.

Mare

che sorridi serio alle facce

nel contemplare le tue smorfie orizzontali accennate

sotto lampi di divino,

squarci nel cielo cinerino.

Il tuo canto è il richiamo di un eco:

echi gracchianti di gabbiani,

echi di uomini dissolti dal tuo sale.

Dormono tutti,

nei secoli, nei giorni.

Dormo anch’io nel tuo dirmi cose troppo grandi,

dalla tua immensa bocca alla mia.

E nel tuo suono di infinito non ho più orecchie.

E nel mio capirti non v’è più pensiero.


 

IL MONDO FUORI.

 

Il mondo fuori.

Il mondo fuori!

Il mondo fuori.

Ed io dentro di me,

bambino rannicchiato

avvolto in una confortante bambagia di spine,

domandandomi, spaesato,

cosa farò da grande.

Il chirurgo.

Il veterinario.

La mongolfiera!

Il pittore o il musicista?

E con quale strumento suonare?

Un oboe?

Un basso?

Un potente e definitivo,

sconvolgente

stridere di archi male accordati?

Un cuore percosso da frenetici ritmi?

Abbiamo dipinto assieme,

stupendo,

un affresco.

Tutti i colori del mondo in esso

ora stanno svanendo:

se i bambini nascessero

nel tempo di vita cui durano

gli amori,

moriremmo tutti prematuri.

Io ho vissuto cinque mesi….

Anche la poesia,

pure la più dolce,

può ucciderti dentro.

O la bocca di chi la canta.

Strane icone dorate,

lucenti,

mi stanno da giorni sorridendo:

ora ho paura!

Per qualche ragione tragica,

agli occhi dei Sinti,

io sono il Messia..

E i nostri corpi sdraiati

si accarezzavano li accanto,

dentro un tempio di cemento.

Una bugia, un sorriso sincero,

sotto un mare di stelle,

sferzato dal vento:

“Ci vedremo presto!”.

Non la rividi mai più!

 

Il mondo fuori,

e il cielo sopra.

E mari calmi.

E mari inquieti.

Deserti torridi,

eremi lieti.

Migliaia di vicoli,

attorno ad un bivio:

ci sono dentro,

mi manca l’aria!

Compiaciuto pensiero di un nauseabondo schifo,

pervaso dal pianto

di un sogno svanito.

“Domani mattina il sole entrerà nella tua stanza,

e con lui un timido sorriso”.

Ma “domani”, “sole” e “sorriso” fuggirono prima,

mentre ancora dormivo.

Il risveglio fu morte.

 

E il mondo fuori,

ed io chiuso,

incatenato ai polsi,

tra l’orgoglioso,

tra il disperato.

Un incomprensibile reato,

una giuria fantasma,

una verdetto sussurrato,

una condanna

da Teatro dell’Assurdo.

 

Il mondo fuori.

Tra alluvioni di incomprensioni,

ed una patina di indifferenza.

Talvolta pare più una fitta coltre di nebbia.

Camminando in essa,

confuso, ubriaco,

lascerò alle mie spalle,

la mia, la tua, la nostra,

sposa più bella,

vestita di speranze e solenni voti,

di voli nel sogno

fuggendo dal giorno.

Da passioni di idioti.

La Paura di Vivere

mi aspettava all’altare…

 

Il mondo fuori,

“completamente fuori”,

oramai è fuori.

Ed io dentro,

io dentro,

a tu per tu con la mia fiera maschera di follia.

Osservandola, mi osserva.

La indosseremo,

impertinenti,

per le vie del centro,

In mezzo all’assurdità

strisciante

del mondo.

La fuori.