Mauro Paolo Fenu - Poesie e Scatti

La rondine sola…

La rondine sola lo stormo conduce
Può giunger la mattina oppur la sera
Con il suo annuncio della primavera
Si posa sui fili della luce.

Si guarda intorno scruta l’orizzonte
Cerca la gronda dove aveva il nido
Dal becco gli sfugge di dolore un “grido”
Non ha più casa; e rivalica il monte.

In questo deserto di cemento e plastica
Dove sembra malato pure il sole
Non è un bel posto per allevar la prole
“Addio ragazzi io ritorno in Africa”

 


 

Ricordi

Mi ricordo quando da militare
Mi avevano concesso una licenza
Tutto contento pronto alla partenza
Non vedevo l’ora di varcare il mare.

Con un amico prendiamo il treno
Milano-genova la destinazione,
Come siamo giunti alla stazione
La gioia; a stento tenevamo a freno

Come un torello da pastoie sciolto
Inebriato dall’aria marina
Dico: “dai che cerchiamo rame da cucina”
In quei carruggi di fronte al porto

Allora andiamo a scegliere la preda
Facendo in modo di evitar la ronda,
Mi vedo davanti una stangona bionda
Che dici che mi ha colpito l’occhio?

Dall’emozione quasi son crollato
Tremante pensando alla goduria
Andiamo in una stanza stretta e buia
Dopo che abbiamo il prezzo concordato

Infoiato come due mandrilli
Tutto pronto per cominciare il duello
Allungo la mano per toccare il vello…
E chiappo una ricotta di due kili!!!

 


 

La prima volta

Dopo tante insistenze e schermaglie
Con la femminile maliziosa ritrosìa
TI sei concessa; sei diventata mia
Del pudore hai demolito le muraglie.
Piano piano ti sei tolta il “velo”
A trattenermi giuro e stata dura
Perché una così splendida figura
Non l’ha dipinta neanche Raffaello

Mi hai detto non guardar tutta compunta
Ed’io ad occhi chiusi, con la fantasia
Dal dolce fruscìo della biancheria
Cerco di indovinar dove sei giunta.

Hai scoperto le tette ad’una ad’una
Ad’ultimo il triangolino riccio
Vellutata come un pesco primaticcio
Porti la pelle dal color di luna.

E mentre stavo quasi per svenire
Mi abbracci e per la troppa tensione
Con Il cuore impazzito d’ emozione
Non potevo neppure deglutire.

E allora tra sospiri e affanni
Non so dove tutto ho accarezzato
Questo splendido corpo adorato
Neanche avessi avuto cento mani.

Infine dopo un amplesso scatenato,
E sfinito come chi a lungo combatte
Nel tuo grembo la testa ho poggiato
E ho dormito come un maialin di latte.

 


 

Natale

Mi ricordo da ragazzino
Un po’ sul serio un po’ per giocare
Seduti davanti al focolare
Si aspettava Gesù Bambino.

I vecchi ci ammonivano;
Se quest’anno hai fatto da buono
Ti farà un grande dono
Ma se hai fatto da cattivo
Ti prenderà il diavolo per mangiarti vivo.

Allor prima di andarci a coricare
Una scarpetta sul gradino
Davanti alla bocca del camino
Ansiosi mettevamo ad aspettare.

Ad aspettar Gesù Bambino
Ed era una Gioia all’indomani
Con salti grida e batter di mani
A trovar due noci con un mandarino.

Ma sto parlando del tempo passato
Per come oggi si vive il Natale
Un’epoca remota e primordiale
Mi pare di avere rievocato.

… Ma non è proprio così, a ben vedere
In questa era vocata al consumo
Che mille risorse manda in fumo
Fino a quando si potrà sostenere??
Se davanti a un gioiello od un profumo
Pare non ci si possa trattenere
E tra pranzi, vestiti, luminarie
Si sciupano risorse finanziarie.

Risorse che si sprecano a fiumi
Ma per il nulla si spende a raffica
Viaggi, giocattoli, dolciumi
Video giochi, computer grafica
Per un sol bambino, con i suoi consumi
Ne campa per un anno cento in Africa
E questa evidente ingiustizia
Per pochi furbi è una delizia.

È una delizia per il commerciante
Che a peso d’oro ti vende il rame
Un terzo del mondo benestante
E tutto il resto a morir di fame
Certi vampiri che “succhiano”sangue
Con larghi sorrisi e fare galante
A Natale aumentano l’imbroglio
E vuotano le tasche e portafoglio
2 Con questi miei ricordi lontani
Cerco di resistere alla tentazione
Alle lusinghe della televisione
Che ti invoglia alle spese a piene mani
Temo che siano auspici vani
In questo mondo opulento e sprecone
Quante volte mi sento inadeguato
A rimpiangere il bel tempo passato.

Passato ,travolto, da una tempesta
Arrivata in maniera repentina
Quando due noci con una mentina
Bastavano a mandarti il cuore in festa
Mi turba quest’ingordigia meschina
Quest’euforia eccessiva; molesta
Che ogni anno all’arrivo del Natale
Si trasforma in un baccanale.

Ora sta per arrivar “Gesù Bambino”
Vecchi ricordi affollano la mente
A far festa in questo modo insolente
Quanto mi manca quel”mandarino”

 


 

La danza delle spighe

Oggi soffiava una leggera brezza
E faceva frusciar le fronde piano piano
Cosi fa con un campo di grano
Fa ondeggiar le spighe con una carezza

E loro si fanno “Coccolare
Godono del fresco soffio senza brighe
Ondeggiano che sembrano danzare
Il ballo antico del vento con le spighe.

 


 

La Quercia e l’Olivo…

Siamo nelle assolate campagne del Sulcis, dove due monumentali piante affondano le loro radici, una è un ulivo millenario, l’altra una sughera di circa trecento anni.
Nel corso dei secoli sono state testimoni di eventi di ogni genere ma si sono ignorate e guardate in cagnesco, come fa in genere; celandosi dietro una finta cortesia tutto l’universo femminile.
Quando la ghianda germinò e diede vita alla quercia, si può dire che fu un colpo di fortuna, visto che era sfuggita dal becco di una garrula Pica di passaggio da una vicina querceta, in trasferimento ad un boschetto di corbezzoli e mirto stracarico di bacche rosse il corbezzolo, e di bacche nere il mirto. Sfuggì la ghianda anche alle fauci di un vorace cinghiale, che nella foga del suo grufolare notturno all’inseguimento di un succoso lombrico, con un potente colpo di grifo la copri di terra, e lei subitamente conficco il suo robusto fittone nella terra smossa dal cinghiale, inconsapevole contadino che favorì la nascita della quercia. Era distante dall’ulivo una trentina di metri, che li per li non si accorse di quella giovane plantula appena spuntata, dopotutto lei era già un’anziana signora con un bagaglio di settecento anni sulle spalle, e pur godendo di un’ottima vista, (come tutte le piante longeve) non si accorse di quelle quattro foglie coriacee con il margine seghettato confuse in mezzo all’erba, che sarebbe diventata la sua compagna di viaggio.
Come tutte le creature longeve, animali, piante, e umani compresi, hanno una lunga “gestazione”, prima di rendersi visibili consolidano la parte radicale sotterranea, a fronte di quelle quattro foglioline emerse dal suolo, c’era una radichetta lunga mezzo metro.
Anche l’ulivo settecento anni prima germinò da un seme di oleastro selvatico, mangiato e digerito da un uccello che espulse il durissimo nocciolo, infatti solo se passato nell’apparato digerente degli uccelli, il seme dell’oleastro ha qualche probabilità di germinare, essendo i loro succhi gastrici fortemente acidi e contenenti sostanze stimolanti in grado di favorire la germinazione.
Le loro esistenze nella loro fase iniziale fu assai complicata, esposte entrambe alle intemperie, al vorace appetito degli animali selvatici e di quelli domestici, e anche al vomere dell’aratro, perché ebbero la fortuna di nascere in un terreno marginale con delle rocce affioranti, non adatto ad essere coltivato, sopravvissero anche alla siccità e alla furia degli incendi, avendo un apparato radicale ben consolidato, e una strepitosa capacità di ricaccio, per cui ad ogni evento dannoso nei loro confronti, dopo un certo tempo ricacciavano nuovi teneri germogli.
Ma torniamo al nostro racconto, come detto l’ulivo non si accorse della sua “Vicina” perché fu inglobata in mezzo ad altri arbusti e rovi, che come balie vegetali la protessero dai morsi degli animali, e stimolarono in lei la competizione e l’istinto di sopravvivenza che la spinsero ad allungarsi ed emergere dai cespugli circostanti per guadagnasi la luce.
L’inesorabile trascorrere degli anni e dei secoli fece il resto, i due alberi assunsero dimensioni enormi, le loro chiome si fecero sempre più vicine, mentre il loro vasto apparato radicale già si era incontrato nel sottosuolo alla incessante ricerca degli elementi nutritizi e dell’umidità del suolo.
Allora cominciarono a preoccuparsi seriamente e a guardarsi in cagnesco, dalle occhiatacce si passò agli avvertimenti; Fatti in la disse l’ulivo, dall’alto della sua veneranda età, che con le tue foglie coriacee piene di galle che mi cadono attorno, mi stai sporcando la sottochioma, di rimando la quercia; Porta pazienza da qui non mi muovo, questo è il mio spazio vitale, e dovrai sopportare le mie foglie ruvide come io sopporto le tue, che mi cadono addosso che pur essendo lisce e lanceolate sono tutte macchiate di giallo dall’”Occhio di pavone” ed erose dal Fleotribo.
Ma l’inevitabile incontro-scontro avvenne durante una primavera mite e piovosa, i nuovi germogli al risveglio del letargo invernale furono particolarmente vigorosi e l’inevitabile contatto ci fu, smosse dal vento, a seconda della sua intensità le giovani fronde a volte si accarezzavano, a volte si frustavano; mi hai graffiato e spezzato un rametto maleducata disse l’ulivo, per forza disse la quercia, tu con la tua invadenza mi stai sottraendo la luce del sole in cerca di soffocarmi, ed io devo difendermi dalle tue male intenzioni.,
La diatriba tra le due matriarche continuò con reciproche accuse, i due rami venuti a contatto si intrecciavano e si insinuavano una volta sotto una volta sopra, a seconda dei capricci del vento, occupavano i varchi più favorevoli per godere della luce del sole, o per venire irrorati dalla pioggia, si udivano miagolii e sospiri dovuti allo sfregamento dei rami tra il durissimo legno di ulivo che causava vistose lesioni, ma brillantemente attutite dall’altrettanto duro legno di quercia, rivestito però da uno spesso strato di morbido sughero. La querelle si acquettò solo quando videro aggirarsi un tipo sospetto con una motosega in mano, che guardava verso l’alto, e che non agì per separarle solo perché i rami che si incrociavano stavano troppo in alto per poterli segare, senza correre seri pericoli, visto che non era dotato delle necessarie attrezzature per operare in sicurezza.
Passata la paura stettero in silenzio per qualche anno, i rami non solo si erano irrobustiti e intrecciati sempre più come fanno due amici che si danno la mano o si stringono in un abbraccio. A questo punto capirono che questa controversia era dannosa e inutile, e dopo non poche titubanze cominciarono a parlarsi e a raccontarsi le loro storie e le loro pene. Cominciarono a decantare le loro origini, disse l’olivo, ma lo sai che la prima pianta di olivo nacque da un colpo di lancia che la dea Atena diede ad una roccia, lo fece per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione, inoltre I miei ramoscelli portati in becco da una colomba simboleggiano la pace, anche se io sono convinta di avere origine marziana, visto che quando l’uomo raccoglie e spreme i miei frutti, il mio “Sangue” che lui chiama olio, è verde e fa bene alla sua salute e gli scioglie il colesterolo cattivo.

Scherzi disse la quercia, io sono l’albero per eccellenza, rappresento la divinità in terra, il mio frutto, la ghianda è l’organo riproduttivo di Zeus che affonda nel grembo della terra e che fa nascere un nuovo albero, delle mie fronde si cingevano la fronte gli eroi come simbolo di forza e coraggio, anche l’imperatore Augusto teneva una corona di quercia sopra la porta, considerato un onore divino.
Certo che ne devi aver visto nei settecento anni trascorsi prima che io nascessi, disse la quercia che era incuriosita dei trascorsi della sua compagna di “viaggio”.
Ehh cominciò l’ulivo pescando nei suoi ricordi , ne ho visto e sentito delle belle, perché pur essendo immobile in questo luogo, sono gli eventi che mi venivano incontro, ricordo quando avevo una ventina d’anni, il mio fusto era bello liscio di un bel colore verde, rivestito di una vellutata pruina grigiastra, si avvicinò una persona che mi squadro con attenzione, mi accarezzò il tronco, mi strappò alcuni rametti che erano spuntati sul mio fusto, io già contenta delle sue carezze e delle sue cure pensai nella mia ingenuità di giovane oleastro, di aver conquistato un ammiratore il quale all’improvviso tirò fuori una sega dalla bisaccia e mi capitozzò, cioè mi segò il tronco, mi separò dalla chioma per innestarmi con delle marze di ulivo “gentile” per mettermi a frutto disse lui.
Pensa al mio dolore che mi ritrovai dal vigoroso oleastro che ero, un misero mozzicone di tronco con dei frammenti di rametti infilzati tra la corteccia e l’alburno, la ferita la medicò con dell’argilla e la fasciò con delle foglie d’asfodelo.
La mia vigorìa era tanta che la mia linfa montante alimentò abbondantemente le gemme di questi rametti, che presto diventarono germogli e nel giro di qualche anno mi si riformò la chioma più imponente di prima, la ferita venne inglobata nella ricrescita, ma non si rimarginò mai del tutto, infatti il nucleo centrale seccò e nel corso dei secoli il legno morto marcì creando una cavità all’interno del tronco con delle ramificazioni dovute, a ferite successive e ad incendi che hanno segnato la mia vita in modo cosi visibile, nel mio tronco che come vedi è tutto piegato e contorto.
In queste cavità del mio tronco hanno trovato rifugio e riparo un gran numero di animali, Cincie, Gufi, Ghiri ed altri roditori, nelle cavità più in basso fece il nido anche un Upupa, ricordo ancora la puzza insopportabile che usciva da quel foro, vista la sua abitudine di allevare la prole in mezzo ai loro putridi escrementi.
Ti racconto un episodio che ancora mi fa sorridere, disse l’Ulivo; un coniglio fece la tana tra le mie radici, e scampò tantissime volte agli attacchi di Volpi e Martore e rapaci, vari, tra le gallerie del mio tronco, un giorno volle far l’avventuriero, abbandonò la tana sicura tra le mie radici per traslocare altrove, si imbattè in un segugio che lo spinse con i suoi latrati verso un cacciatore di passaggio, che lo uccise alla sua prima uscita di aspirante vagabondo; che tonto,Risero insieme con un pizzico di malinconia sulla triste fine del povero coniglio.
L’ulivo continuò il suo racconto, degli eserciti che si sono succeduti nelle invasioni della Sardegna, ha visto passare nelle piane del Sulcis; essendo un posto privilegiato per gli sbarchi degli eserciti invasori, Bizantini, Pisani,Genovesi e Spagnoli, all’ombra delle sue chiome hanno trovato riposo viandanti e lavoratori delle campagne, Pastori e greggi in tutte le stagioni, ma la cosa che non ha mai digerito completamente è il fatto che essendo un albero molto generoso, che ha sempre dato copiosi frutti, le stagioni in cui era carico di turgide olive vista la sua mole veniva circondato da una squadra di uomini e donne, che con lunghe pertiche veniva percossa con violenza tra i rami per far cadere i frutti , e l’operazione veniva completata dagli uomini che con lunghe scale o semplicemente arrampicandosi sul tronco segavano rami, cimavano germogli, eliminavano polloni, per operare la potatura; bella riconoscenza che ha l’uomo nei miei confronti non solo si appropria dei miei frutti, ma per farlo mi bastona selvaggiamente e mi lascia ferite ed escoriazioni da tutte le parti.
Ma ora ho parlato a lungo tocca a te a raccontare la tua storia disse l’ulivo alla quercia e si tacque.
Grazie disse la quercia, certo la mia storia non è tanto lunga quanto la tua, e poi certo non ci hai fatto caso, ma siccome mi hai visto nascere dovresti anche saperla, ma forse non ci hai fatto caso, distratta com’eri dalle tue vicissitudini.
Come detto noi piante longeve abbiamo un’infanzia lunga e difficile, abbiamo detto che giovane plantula fui inglobata tra erbe ed arbusti e cespugli di rovo e probabilmente quella fu la mia salvezza, fui protetta dai morsi degli animali e all’ombra di questi arbusti mi irrobustii e allungai fino alla mia definitiva emersione, già mi ero rivestita di una spessa corteccia di sughero, che mi fece la pelle rugosa e piena di crepe, forse non tanto bella da vedere ma confortevole, durante le escursioni termiche del gelo invernale e del torrido sole d’Agosto, pensa che grazie alla pelle di sughero sopravvissi anche a quel furioso incendio che divorò la vegetazione che mi circondava, e certo ti ricorderai arrivò a lambire anche le tue chiome visto che le tue foglie si arrossarono e caddero sfrigolando a terra..
Fu un momento terribile i miei rami non c’erano più, solo il mio fusto scheletrico resto in piedi in quel deserto di cenere, e tu pluricentenario ulivo, con le chiome strinate ti salvasti perché non investito direttamente dalle fiamme; per fortuna, sennò non saresti sopravvissuto visto che non hai lo scudo termico del sughero, e che il tuo legno e fortemente infiammabile. Il miracolo si compì, dopo qualche mese cominciarono a spuntare nuove foglioline che diventarono germogli con l’arrivo delle prime piogge d’Autunno; vidi anche tu rivestirti con un mantello di tenere foglie che mi fece dire; Pero resistente e attaccata alla vita, anche quella vecchia pianta che mi sta vicino.
Col tempo le ferite si rimarginarono la mia chioma si riformò bella e globosa come prima, molto appetibile per I bruchi di processionaria che periodicamente mi invadono in certe primavere particolari, non si sa bene perché, forse per effetto combinato di umidità e temperatura favorevoli, si sviluppano in modo impressionante questi bruchi rivestiti di Peli urticanti che rosicano giorno e notte le foglie di quercia :ma non solo quelle, tanto da lasciare intere foreste totalmente spoglie come fossero state percorse dal fuoco.
Ma come tu sai, noi piante longeve abbiamo una forte resistenza alle avversità, siano esse atmosferiche o di altra natura, e magari a fatica riusciamo a risorgere.
Ma torniamo alla nostro racconto, la corteccia pur se si era schiarita con il suo ispessimento e l’effetto degli eventi atmosferici, era comunque bruciacchiata, avrò avuto una trentina d’anni, un uomo si avvicinò con fare sospetto, con un attrezzo tagliente dal manico lungo di legno, seppi in seguito che si chiamava scure e cominciò ad incidermi la corteccia, mi fece un’incisione circolare a circa un metro e mezzo da terra, e due lunghe incisioni contrapposte lungo il tronco fino a terra, ad ogni colpo faceva una specie di torsione trasversale con la lama della scure in modo che la corteccia si divaricasse e con colpi del dorso e facendo leva con il manico mi scorticò la pelle in due plance, non gli bastò questo, lungo le linee d’incisione ripassò con la scure per rifinire la linea tracciata affinchénella successiva ricrescita le due plance avessero le linee di demarcazione ben definite per facilitare la successiva estrazione che sarebbe avvenuta dopo una decina d’anni . Il sughero di prima estrazione, o sugherone specie se percorso dal fuoco non ha un gran valore, se si riusciva ad estrarlo intero, veniva usato per fare contenitori di vario genere, oppure sedili o per altri usi, visto che duecentosettanta anni fa non esisteva la plastica, gli arnesi e suppellettili che stavano nelle case o capanne della gente dell’epoca erano fatti esclusivamente di cose naturali, sughero appunto ,legno, canne, pietra e fango. Alla seconda estrazione si chiama sughero “Gentile” e pur se non di qualità eccelsa (quella verrà dalla quarta estrazione in su), già si poteva usare per fare delle cose migliori, tipo tappi per tutti contenitori esistenti, ma io sentii dire che la mia pelle la avrebbero venduta alle tonnare di Portoscuso e Portopaglia, per farne dei galleggianti per sostenere le reti che venivano calate in mare, per catturare i tonni con la “Mattanza”. Ogni volta che mi strappavano la pelle visto che gli uomini che lo facevano non erano mai gli stessi, era una vera tortura c’erano quelli bravi che usavano la scure con molta attenzione per non danneggiarmi la Mamina, che è quell’ultimo sottile velo posto tra il sughero e il legno vivo all’interno, altri sugherai maldestri che picchiavano senza ritegno e mi causavano bernoccoli e ferite gravi, dai bernoccoli e dalle gibbosita che si rivestivano di sughero si ricavavano piccoli contenitori che opportunamente lavorati potevano servire come mestoli o saliere oppure tazzoni, infatti in ogni fonte o sorgente c’era sempre un’oppa, così si chiama questa specie di mestolo per poter bere l’acqua fresca.
Quando la ferita era più grave con la lacerazione e l’asportazione di grandi pezzi di Mamina il legno vivo esposto seccava e come è capitato a te, nel tempo mi si sono create le cavità che vedi, che al pari delle tue, hanno ospitato ogni tipo di animale, ricordo quando questa specie di caverna che vedi ora, era una piccola feritoia, uno sciame d’api ne fece la sua dimora, per qualche anno andò tutto bene, le api laboriose andavano in giro a impollinare i fiori e in cambio venivano pagate in nettare che trasformavano in miele.
Lo fecero con discrezione tanto che nessuno si accorse della loro presenza fino a quando venne il solito omino armato di scure per estrarre il sughero; ignaro comincio a colpire il tronco, le api ai primi colpi si allarmarono, poi si agitarono ronzando minacciosamente, quando la scure si avvicinò pericolosamente all’apertura uscirono in gruppo numerosissime, aggredirono l’omino lo coprirono con tante di quelle punture che il malcapitato dovette darsi ad una precipitosa fuga tanto che si scordò perfino la scure.
Ma come sai l’uomo non si da per vinto facilmente, l’omino tornò dopo qualche giorno ancora gonfio e tumefatto, accompagnato da un altro uomo con degli strani coltelli e con degli stracci fumiganti, che avvicinò all’apertura, le api per non morire soffocate si ritirarono in fondo al buco che venne allargato con dei potenti colpi di scure per poter entrare la mano e raccogliere i favi grondanti di giallo e dolcissimo miele. Con gli anni quella piccola apertura si allargò, sul fondo durante le piogge si formava una piccola piscina in cui si abbeveravano piccoli animali di passaggio, le api continuarono a lungo a usarmi come arnia vivente, la cavità del mio tronco mano a mano che si allargava cambiava destinazione d’uso; venne usata per sala parto di maiali, per giocare a nascondino dai bambini, da ricovero temporaneo per i pastori durante i temporali, e infine un pastore mi usò come pollaio e come stalla per il suo asinello.
Da quando le nostre vite si sono raggiunte e incrociate disse la sughera all’ulivo, abbiamo condiviso le cose che succedevano sotto le nostre chiome, storie d’amore che nascevano tra contadini e ragazze che partecipavano ai lavori agricoli venivano a ripararsi dal sole nelle ore più calde della giornata; mietitori e spigolatrici, oppure abbacchiatori e raccoglitrici di olive in autunno.
Ma ora tutto è cambiato disse l’ulivo quando vengono a raccogliere i miei frutti strane macchine mi frustano, e mi scuotono, vengono stesi grandi teli sotto, in cui cadono le olive, mi lasciano sempre graffi e escoriazioni, tutto succede in fretta, e non si sentono più gli strilli e le risa delle ragazze di un tempo, ora non lo fanno più temono di rovinarsi le unghie ”poverine”.
Per me disse la sughera non è cambiato granché, ogni dieci o dodici anni devo subire il supplizio dello scortecciamento, fatto sempre nello stesso immutabile modo; a colpi di scure, ma l’uso che si fa del sughero quello si è cambiato, per i tappi lo si usa sempre specie per i vini di pregio, ma con una punta d’orgoglio disse che ora lo usano per guarnizioni di motori, frizioni, coibentare abitazioni, e i grandi stilisti lo usano per abiti, suole di scarpe, e accessori di gran lusso, e anche le capsule spaziali hanno scudi termici di sughero per non finire in fiamme al rientro nell’atmosfera.
Mille altre storie potrebbero raccontare questi due monumenti viventi, ma si tacquero, pensavano ambedue la stessa cosa che pur appartenendo a specie e razze diverse, basta incontrarsi e conoscersi per vivere in pace.
Da queste vecchie signore anche l’uomo con tutta la sua prosopopea…Avrebbe molto da imparare.