Michela Urbani

Poesie e Racconti


L’ultima interrogazione

L’anima di una donna appena morta si ritrovò nel mezzo di una lunghissima fila. Comprese ben presto il motivo della sua attesa: aspettava il suo turno per essere giudicata dal Giudice Supremo ed essere poi mandata all’inferno o in paradiso.
Si sentiva a suo agio nel fare un’azione così naturale, compiuta migliaia di volte nella sua vita: alla posta, al supermercato, al fornaio. Cominciò comunque a guardarsi intorno, perché, nonostante fosse “umano” fare la fila, l’ambiente in cui si trovava era diverso da ogni altro luogo mai visto: era luminoso, ma allo stesso tempo con molte ombre; era dispersivo, ma non dava la sensazione di smarrimento, anzi piuttosto si sentiva attratta verso una destinazione: di dimensioni mai viste prima, in fondo alla fila, intravide uno di quei vecchi portoni che si incontrano ancora oggi a Roma in zona Prati nei palazzi umbertini, fatto in legno massiccio, pesante e con le rifiniture in oro.
Era ipnotizzata dall’atmosfera: aveva l’idea di trovarsi in un luogo sospeso. Impiegò del tempo ad apprezzarne il mistero, ma non saprebbe dire quanto.

D’un tratto si ritrovò ad avere solo tre persone davanti a sé. Presa dall’ansia, iniziò a scorrere i suoi ricordi per trovare una giustificazione a ogni colpa commessa, tentò di contare tutte le volte in cui era andata a messa e tutte quelle in cui si era confessata.

Era la terza.
Chiese all’uomo che la precedeva se fosse a conoscenza della severità della figura che li aspettava al di là del portone, ma purtroppo non giravano voci, come capitava solitamente sulla Terra, e nessuno ne era al corrente.

Era la seconda.
D’un tratto il tempo era divenuto guizzante: come un pesce appena pescato, sfuggiva dalle mani della donna. L’ansia lasciò spazio alla paura: aveva una manciata di ricordi e solo in essi aveva già trovato centinaia di colpe. Forse allora era stata una “cattiva persona”?

Era la prossima.
Dopo un primo pensiero di rassegnazione all’Ade, quello che lei chiamava “istinto di sopravvivenza” la fece tornare al precedente obiettivo: trovare validissime ragioni per cui avesse commesso quelle cattive azioni. Si rese poi conto che parlare di “istinto di sopravvivenza” da morta non aveva alcun senso. La paura lasciò spazio alla disperazione e iniziò a piangere.

Il portone si socchiuse e lei potè entrare.
Si ritrovò in un ambiente appartato, ma senza tetto e mura. A circa cinquanta metri dal lei un anziano signore era seduto su una sedia in legno e ferro come quelle che si trovano nelle scuole pubbliche liceali. Un’altra sedia identica, ma vuota, gli stava accanto.
Con gli occhi ancora lucidi, la donna ebbe il coraggio di guardare fisso in volto quell’uomo: sembrava il suo vecchio professore di matematica del liceo che lei adorava. Contraccambiato lo sguardo, il signore la invitò con gentilezza a sedersi e lei lo fece con un sorriso spezzato tra stupore, paura e gratitudine (dopotutto era rimasta in piedi per chissà quanto tempo). Lo stupore fu dettato dalla delusione per le aspettative sul terrificante giudice che lei si aspettava: non sedeva su alcun trono in oro, non aveva alcuno scettro o alcuna corona. Non era adirato o inquieto.
Dopo qualche istante di silenzio, la donna cominciò a esporre, a testa bassa, la lista delle sue colpe con annesse giustificazioni in modo veloce e confusionario. Alzò nuovamente lo sguardo e, per la vergogna delle sue parole, scoppiò in lacrime. L’anziano ne pose la testa sulla sua spalla e accarezzò lungamente i capelli della donna con modi dolci, come un padre consola la figlia cosciente di aver compiuto un grave errore.

Il tempo sembrò smettere di scivolare via e, anzi, sembrava essersi anch’esso seduto a terra con le gambe incrociate, come quando un bambino viene attratto da un evento più interessante della gara sfrenata che stava correndo fino al secondo precedente.
Una volta calmatasi, la donna tornò a guardare gli occhi dell’uomo e lo fece in silenzio perché aspettava fosse lui a proferire almeno una parola.
L’anziano mosse le labbra ponendole l’unico vero quesito di cui gli interessava veramente la risposta. La donna spalancò gli occhi e sentì risuonare la domanda nella mente come un’eco: “Quanto hai amato nella vita?”.

 


 

Tic…

…Tac…
Il tempo scorre come fosse in ritardo
non vorrebbe correre così veloce,
so che è sincero perché non è un bugiardo:
io lo so, conosco la sua vera voce.

…Tic…
Alcune volte sembra un piccolo infante:
non capisce cosa stia accadendo intorno.
Altre può contare ogni singolo istante,
come fa un contabile giorno per giorno.

…Tac
Vivo sentendomi sempre in ritardo.
Corro come posso, inciampando spesso
e sperando nessuno mi posi lo sguardo

addosso, come una freccia saettante
che colpisce il centro esatto di un’anima
sbucciata e in attesa di mano aiutante.

 


 

Spirit

Prendi con le mani le briglie del tempo.
Fa sì che tutte le dita percepiscano il cuoio.
Tieni salda la presa perché il vento arriverà sempre.
Non fartele sfuggire.
Se proprio non riesci a tenere le briglie
perché si dimena il cavallo,
aggrappati alla criniera con le ultime forze:
sii certo che la folta non cederà.

Sta solo a te decidere se abbandonarti
al dolore delle mani o
tenere l’impugnatura stretta.

Attenti a non far correre troppo il tempo:
è l’unico cavallo che non torna sui suoi passi mai.