Michele Lombardi - Poesie e Racconti

Pandemia

La costante distanza,
unica forma
della nostra presenza.

 


 

Una volta

Una volta
uscivo molto presto,
per godere il fasto silente
della città deserta,
come un gigante
nell’onirica impotenza,
intontito dalla quiete,
prima del reboante risveglio.
Una volta
cercavo locali sobri e caldi,
con poca gente fredda,
con le mie care persone
alla massima distanza
di un boccale,
scambiando ricche parole umide,
prima del parco e secco sonno.
Una volta
era solo un anno fa,
ora parole in gabbie di stoffa,
non più madidi boccali;
il gigante è un uomo inerte,
ma le mie persone,
ci sono ancora e diverse,
prima di un altro giorno uguale.


 

La mascherina

Sono davanti a te,
ma non sento il profumo delle tue parole.
Sto parlando a te,
ma la mia voce è un disegno di nuvole.
Le labbra sono braccia conserte,
le narici un vuoto oblio inerte.
Questo tempo ci ruba le parole,
ci consegna a una memoria senza odore.
Guardiamoci negli occhi, allora,
facciamo leva sulla mente,
persone siamo, non gente,
una strada dev’esserci ancora.


 

Pensieri sospesi

Una poltrona sulle nuvole,
dove i pensieri possano stare,
sciolti, con le gambe sghembe,
in alto, affacciati al sole.


 

Giochi sui binari

La strada verso l’agognata meta,
quella ridente di legno, ghisa e acciaio,
era già gioia, come presagita,
come l’acquolina prima dell’assaggio.

Il nonno, cerulei occhi nervosi,
teneva due mani tra i magli callosi,
piccole dita, avide e ingenue,
su sguardi in ricerca perenne.

Un cancelletto apre l’orizzonte,
doppio e parallelo, d’argento.
La banchina, palco e memento,
come scena di nuovo ardimento.

“Muori, vile e crudele codardo!”
disse il fuoco allo schivato dardo.
“Ancora devi sudar, non poco!”
disse più lesto il dardo al fuoco.

Poi il fischio, come d’araldo fiero,
annuncia la tremula locomotiva,
ansimante, ciarliera, quasi viva,
con la tuba fumosa, d’un bel nero.

Le aperte bocche tacciono, rapite,
mentre il ferro sul ferro sferraglia.
Bianchi saluti, d’ignoto la voglia,
viaggi dorati, dispersi in pepite.

Sorride quasi l’ultimo vagone,
mentre il clangore si allontana.
Il nonno con voce ferma chiama,
la via di casa si prende col magone.


 

Carapace

Un carapace voglio, trasparente,
per difendere senza nascondere,
per trascendere, restando immanente.


 

L’uno e l’altro

L’uno e l’altro,
dentro e fuori,
come il fiato.
L’uno e l’altro,
bianco o nero,
caos donato.
L’uno e l’altro,
nello specchio,
spesso ombrato.
L’altro è l’uno,
tieni a mente,
né nemico, né soldato.


 

La Lince

“Prof, ma secondo te cosa tengo in questa capa?”

“Caro Michelino, hai la guerra nella testa” – risposi, tra un sorriso accennato e un’aria semiseria.

Michelino mi guardò, dapprima con espressione interrogativa (che ai più, non conoscendo la realtà di quella scuola, poteva sembrare anche minacciosa), poi si allargò in un sorriso sornione, di chi riconosce di essere stato beccato e non cerca di nasconderlo. Prima che potesse rispondere qualcosa, aggiunsi:

“Hai la guerra in testa, ma vorresti in realtà quella pace che non trovi”.

A quel punto lo sguardo di Michelino si fece più serio, perse quell’aria da eterno spavaldo, sostituita da quello sguardo tipico dello studente curioso, cosa particolarmente insolita per lui, pluridecorato con note e sospensioni, nonché collezionatore seriale di assenze (ammesso che quando formalmente presente, stesse davvero in classe, cosa destituita di qualsiasi fondamento).

“Come ha fatto a capirmi, prof? – disse in un altrettanto insolito “lei” di cortesia (dalle nostre parti sopravvive ancora il “voi”, più difficile della xylella da estirpare).

“Sei proprio cane, prof!” – aggiunse, riprendendo il solito linguaggio, non solo verbale, e ordinando a un suo compagno di pagarmi il caffè, cosa che il compagno, un ragazzino di 15 anni che dimostrava molti meno anni della sua età, senza esitare un solo istante, si apprestava a fare, prima che lo fermassi con false scuse di impellenti commissioni.

In realtà mi ripugnava essere complice di quell’ordinario sopruso ed ero già più che soddisfatto dell’attimo di riflessione indotto in Michelino. Non è questione di accontentarsi,

ma una questione di realismo pragmatico, forse di analgesico succedaneo, talvolta. E della consapevolezza che solo la tecnica della goccia cinese è disponibile in certi casi.

La giornata proseguì come al solito, nelle mie classi trovo sempre una mia dimensione. In realtà non solo nelle mie, spesso anche in quelle in cui mi trovo a prestare supplenza. Talvolta mi capita di non avere le idee chiare per la lezione, ma alla fine le idee giuste, più che quelle chiare, arrivavano da sole, svolgendo i soliti gesti all’inizio dell’ora, scrutando i volti degli studenti, annusando l’aria in cerca di un momento opportuno per cominciare. Una lezione per me era sempre una rappresentazione: mi affacciavo sull’uscio al cambio dell’ora, come un attore che sbircia tra le tende qualche minuto prima di andare in scena; poi si apriva il sipario, il pubblico rumoreggiava, l’attore sul palco attendeva un minimo di silenzio ed entrava in scena, guardando senza guardare. Si comincia.

Non c’è pubblico più esigente, né critico più spietato di una classe di adolescenti.

La quinta ora era finita e per la mia classe, come per me, significava anche la fine della giornata scolastica. Mi stavo già pregustando qualcosa di buono, certo che Gianni, il titolare del locale a pochi passi dal comprensorio scolastico, stava già pensando a qualche alternativa per pranzo (lo aveva avvisato durante il caffè del mattino che ci sarebbero stati i consigli di classe nel primo pomeriggio). Le certezze erano due: il pesce come protagonista e una Grimbergen blanche per accompagnarlo.

Entrai nel locale, feci un cenno a Gianni – che rispose con un gesto altrettanto eloquente – e mi sistemai nel solito angolo vicino alla vetrata del giardino. Vidi Gianni dare disposizioni per la birra e mi guardai intorno. Qualche tavolo più in là era seduta una mia alunna. Non era strano che ci fossero miei studenti da Gianni, tanto meno Alessia, una ragazza di una mia terza, bocciata il primo anno, ma poi ripresasi in modo tale da diventare una delle migliori nell’istituto. La cosa strana era l’espressione di Alessia, di solito estroversa e spumeggiante,

aiutata in questo anche da una folta capigliatura riccia e bionda. Quel giorno, però, i capelli erano insolitamente raccolti, e mettevano in evidenza il suo viso, un viso improvvisamente più adulto, meno sbarazzino, ma non triste e nemmeno serio. Diverso, mai visto prima, ed ero sempre stato un attento osservatore, non mi sfuggivano certi dettagli.

Ad un tratto Alessia si accorse di me, mi fissò per qualche istante, riabbassò il capo e si mise di fianco, appoggiando il braccio sul tavolo e reggendosi la testa con lo stesso braccio. Poi improvvisamente si alzò e si diresse verso il mio tavolo. Intanto ero stato raggiunto da Gianni, con la birra che non era stato necessario ordinargli. Alessia rimase indietro e quando Gianni, con una risata, mi lasciò in attesa del succulento piatto di pesce, si avvicinò decisa al tavolo.

“Ciao, Prof!”
“Ciao, Alessia – risposi – come mai non sei ancora tornata a casa?”

La ragazza non rispose alla domanda e chiese di potersi sedere per qualche minuto. Rimasi un po’ interdetto, più che altro perché tenevo alle mie abitudini e quei pranzi solitari prima dei consigli erano una specie di rito catartico prima di affrontare l’agone. Non sapevo però rifiutare, specie ai miei studenti, il tempo che ritenevo necessario, nonostante fossi geloso del mio tempo in maniera quasi patologica, specie in certi momenti topici come il pranzo.

“Siediti e dimmi che succede” – dissi ad Alessia aprendomi in un sorriso e togliendomi gli occhiali.

La ragazza mi guardò negli occhi per qualche istante, dopo essersi seduta di fronte a me, quasi cercando le parole con attenzione, visto che conosceva bene il mio pensiero rispetto alla prolissità, da me più volte definita in classe come uno “stupro del tempo”.

“Sono incinta” – disse improvvisamente, senza staccare il suo sguardo da me.

Non era facile che io, professor Maselli, restassi senza parole.

In realtà conoscevo bene quella sensazione, molto simile a un sogno sgradevole, quando vorresti urlare, reagire, ma non ci riesci, sei bloccato. Solo che io l’avevo provata da sveglio, quand’ero ragazzo, in mezzo agli altri, in tante e tante situazioni. Non sapevo reagire alle battute provocatorie, diventavo permaloso, mi chiudeva in me stesso; oppure non riuscivo a proferire parola dinanzi a una ragazza che tentava di farmi capire il suo interesse per me, mi limitavo ad arrossire. Mutismo e fuga erano le sole due armi che avevo a disposizione in tali momenti. Poi ero cambiato molto, col tempo e con passaggi non proprio gradevoli, spesso violentando la mia originaria natura, solitaria e spartana. L’unica cosa a spingermi era la mia voglia di comunicare, il mio interesse per le persone, tutti bisogni indotti dalle letture solitarie e voraci che per molti anni occuparono in prevalenza il mio tempo libero. Bastava darmi un libro per tenermi buono, rischiarono anche di dimenticarsi di me, a volte.

Per curioso paradosso quel rifugiarsi in mondi, persone e parole di carta, quello sfogliare il tempo cullando la mia stessa solitudine, mi aveva spinto nel mondo reale, tra uomini, donne, luoghi e voci. Ma adesso quella sensazione d’impotente afasia tornava prepotente e se ne aggiungeva un’altra, altrettanto inquietante. Mi rendevo conto che quella notizia di gravidanza l’avevo presa come se fosse stata rivolta al padre del bambino: mi sentivo responsabile e, nonostante fosse un pensiero assurdo, non era meno inquietante.

“Ne sei sicura?” – dissi alla fine, pentendomi un attimo dopo. Gli occhi di Alessia non si erano mai staccati dai miei durante tutto il tempo e dopo la mia domanda assunsero un’espressione fin troppo chiara. Sì, ne era certa, inutile il tentativo maldestro di prendere tempo.

“Gliel’hai detto?” – aggiunsi, questa volta con un tono di voce più deciso.

“A chi?” – rispose lei, tentando a sua volta di temporeggiare. Non era una domanda imprevista e infatti Alessia non ne era certo stupita. Ma la domanda interlocutoria nascondeva malamente il suo scarso interesse per l’argomento.

“Come a chi? Certe cose si fanno in due!”

“Non sono nemmeno certa di chi sia il bambino, in verità, e non m’importa affatto, se proprio glielo devo dire! – rispose Alessia con un’espressione piuttosto seccata.

“Forse ho sbagliato a parlare con lei, ma credevo…” – e fece per alzarsi.

“Ok, ascolto allora, senza fare domande” – dissi prontamente, alzando le braccia come per arrendermi e sfoderando uno dei miei sorrisi più accattivanti.

Alessia non sorrise, non prima di risedersi; poi sorrise, finalmente, ma tenendo la testa bassa, finché gli angoli della bocca e degli occhi non tornarono su una linea neutra; a suo modo si ricompose prima di ricominciare a parlare, voleva guardare il suo interlocutore negli occhi e convincerlo della serietà dei suoi argomenti.

“Non è stata una svista, un errore. Ho fatto in modo che accadesse. E ho fatto in modo che il “padre” non se ne ricordasse nemmeno, che non si ricordasse neppure di me.”

Fece una pausa, aspettandosi qualche altra domanda, ma questa volta mantenni la parola, restando in ascolto. Quindi riprese.

“Non voglio né un marito, né un padre per mio figlio. Voglio solo il bambino, lo voglio per lui e per me. So cosa sta pensando, che non è una passeggiata un figlio a diciassette anni, lo so bene.”

Fece ancora una pausa, abbassando gli occhi e la testa, come per riprendere fiato e raccogliere le forze.

“Mia madre mi ha avuto a diciassette anni, strana ironia, per lei non è stata certo una passeggiata, anzi, il parto è stato molto complicato. Ma non è stata questa la cosa peggiore. Sapeva che mio padre avrebbe preferito che non nascessi affatto, si sarebbe risparmiato volentieri questa esperienza. Lei era molto innamorata, molto stupidamente innamorata, anzi è l’amore a essere stupido. O forse è un lusso che certe persone, quelle come mia madre, come me, non possono permettersi. La mia infanzia è stata di urla e botte, persino a Natale, anzi di più a Natale, con tutto quel vino di cui si riempiva mio padre. Più vino, più botte. La cosa che mi sono sentita ripetere di più è stata quella di essere un peso, la colpevole, insieme a mia madre, della rovina della sua vita. Mai un sorriso, mai una carezza. Quando è morto mi sono vergognata per settimane, perché ero felice. Non si può pensare questo del proprio padre e lo odio più per questo che per le botte.”

L’ascoltavo e sentivo montare dentro di me una rabbia sconosciuta, furiosa. L’empatia di cui ero capace con le persone, specie i miei studenti, si rivelava spesso un boomerang, mi costringeva a guardare dentro un pozzo nero, a scoprire sentimenti e sensazioni che avrei preferito non provare, seppur in minima parte, emozioni che sgorgavano dalle storie dei miei studenti come liquami da una fogna rotta.

Tentai di ricacciare indietro quella rabbia, di riconquistare un minimo di equilibrio, forse anche di distacco. Ci riuscii solo parzialmente, ma fu sufficiente a nascondere alla ragazza i miei pensieri.

Lei continuò.

“È morto tre anni fa, ammazzato di botte durante una rissa per stupidi motivi di gioco. Del resto sapeva fare solo quello, bere e giocare a carte. Non ha mai lavorato, mentre mia madre si ammazzava di fatica per campare me e lui. Il processo è ancora in corso, ma non ho mai seguito un’udienza. A volte mi convinco che è stato solo un brutto sogno, ma non dura per

molto. Appena gli occhi cadono su questa cicatrice, tutto torna reale, rivivo quella scena come stesse accadendo di nuovo, risento persino il dolore.”

Girò il palmo della mano e mi mostrò una cicatrice perfettamente dritta e definita, si confondeva a prima vista con le altre linee della mano, ma poi risaltava subito la sua differenza, per lo spessore e un colore leggermente diverso.

“Era la sera della vigilia di Natale, avevo dieci anni. Mio padre era seduto accanto a me, stranamente. Di solito ero sempre dal lato opposto del tavolo rettangolare, un po’ perché lui non mi voleva accanto, ma soprattutto per l’istinto protettivo di mia madre: preferiva prenderle lei le sicure ma imprevedibili botte. Ma quella sera tornò di buon umore, una delle rare volte che aveva vinto qualcosa a carte, forse, e mi volle vicina. Ero nervosa, continuavo a cercare di far qualcosa con le mani, per tenere impegnata la mente in qualcosa d’inutile, nell’attesa di usarle per mangiare e occuparmi solo di quello, con la testa bassa sul piatto, la scusa perfetta per non guardarlo. Allora presi a fare un gioco con la mano: battevo sul tavolo un dito alla volta cominciando col pollice, e, arrivata al mignolo, appoggiavo il dorso della mano sulla tovaglia e contavo fino a cinque. Poi ricominciavo. Mio padre guardava la scena, prima con scarso interesse, mentre si riempiva l’ennesimo bicchiere di vino, poi cominciò a osservare la mia mano e apparve una specie di sorriso sul suo volto. Girò la sedia verso di me, mettendosi di sbieco, con il bicchiere nella sinistra e l’altro braccio dietro la spalliera della sedia. Ero arrivata al mignolo, girai la mano appoggiando il dorso sul tavolo. Uno, due, tre, quattro… Poi quel dolore improvviso. Prima che dicessi cinque infilzò il coltello per l’arrosto nel mio palmo. Non so cosa avvenne dopo perché svenni quasi subito. Ricordo solo un dolore diverso quando mi risvegliai con la mano fasciata, un dolore meno forte ma persistente, durò per giorni quel dolore, ma forse non è mai andato davvero via.”

Questa volta la pausa durò più a lungo, mentre Alessia continuava a fissare quel taglio malamente rimarginato nella pelle, come fosse ancora zampillante di sangue.

“Posso farti una domanda adesso?” – dissi timidamente, senza sorridere questa volta. Lei annuì con un cenno, senza distogliere lo sguardo dalla mano.

“Ci conosciamo da quattro anni e più, ma non mi avevi mai raccontato nulla di tutto questo. Posso forse capire perché anche da solo, ma quello che non riesco a capire è perché lo racconti proprio adesso, perché proprio a me.”

Alessia respirò profondamente, si accarezzò la cicatrice con l’altra mano, in un gesto che mi sembrò un tentativo di cancellare quel segno sulla carne; poi mi fissò dritto negli occhi, come chi è sul punto di dire qualcosa di definitivo, che non ammetteva repliche.

“Perché adesso non ho più paura, il figlio che sta per nascere è la mia forza e la mia occasione” – rispose con un tono fermo, ma sereno.

“Questa è la prima risposta” – riprese – visto che le domande erano in realtà due” – bacchettandomi simbolicamente con l’indice e accompagnando il tutto con un sorriso d’intesa. Poi riprese un’espressione più seria e continuò.

“Proprio lei perché in fondo è stato lei che ha dato il via a tutto questo.”

Quella sensazione di responsabilità che avevo provato alla notizia della gravidanza ora non mi sembrava più così strana, piuttosto la reinterpretai come un presagio.

“Si ricorda la sua lezione sulla speranza, la fortuna e il destino?” – chiese Alessia.

Non ricordavo esattamente la lezione nei dettagli, ovviamente. Se si potesse paragonare un docente a un musicista, potevo identificarmi senz’altro in un jazzista: una lezione era un atto unico, qualche volta ben riuscito, qualche volta no, ma sempre una serie di variazioni intorno

a un tema preciso. Preparavo le mie lezioni mattutine guidando per raggiungere la scuola, e ancora prima nella sosta al bar, ma soprattutto fumando la mia sigaretta prima di entrare, una specie di preghiera laica. Ma andavo sempre a braccio in classe, adattandomi alla situazione, girando tra i banchi, coinvolgendo ora tizio, ora caio. Raramente sedevo in cattedra, non solo in senso fisico.

Quella lezione era un mio cavallo di battaglia, la facevo in tutte le mie prime e, spesso, profittando delle supplenze, in altre classi, e come tutte a volte riusciva meglio di altre, come evidentemente quella che Alessia tirava ora in ballo. Avevo imparato da studente che una buona lezione è un frutto che si raccoglie spesso dopo molti anni.

“Certo, la ricordo bene” – risposi, ma prima che potessi continuare, Giovanni arrivò col pesce, delle seppie ripiene al forno con patate.

Alessia ebbe un attimo di esitazione, sentendosi in colpa per il mio pranzo, ma la rassicurai, chiesi a Giovanni di mettere tutto in una confezione da asporto e di portare arachidi, un’altra birra e una coca con ghiaccio, ma fuori in giardino.

Ci sedemmo a un tavolino nell’angolo più distante dall’ingresso del giardino, seguiti quasi immediatamente da Giovanni. Lo ringraziai, feci un sorso di birra e accesi una sigaretta.

“Ricordo bene quella lezione, ma non credo di capire bene quale sia il nesso con la tua… decisione.”

Stavo per dire “condizione”, ma subito mi resi conto di quanto quell’espressione fosse generica, quasi ottusamente burocratica, certamente inadatta.

“Lei ci disse che se volevamo credere al destino, sperare in un fato o un’occasione benevoli, potevamo farlo, ma a una condizione: rinnegare il nostro stesso valore, il nostro amor proprio, essere consapevoli di diventare relitti alla deriva, in balìa degli eventi, incapaci e inetti, palle

di un biliardo dove altri giocavano partite a noi indifferenti. Quella lezione mi tornò in mente quando credetti la prima volta di essere incinta. Era l’estate dopo la fine del secondo anno, o meglio del primo anno ripetuto, poco dopo ferragosto. Un ritardo di un paio di settimane mi aveva messo in crisi, ero disperata. Ma ero anche stupidamente innamorata. Glielo dissi, certa di trovare in lui sostegno, ma la sua reazione fu come uno schiaffo inaspettato in pieno volto da una persona cara: la delusione è molto, molto più forte del dolore. Ma fu un falso allarme, in fondo è andata davvero meglio così.”

Provai un ben noto disgusto per la categoria degli uomini alla quale appartenevo, in queste circostanze: avevo sempre avuto una sensibilità femminile molto accentuata, probabilmente perché avevo avuto molte mamme, ma nessun padre, in fondo.

Alessia continuò: “Quando mi arrivò il ciclo fu un gran sollievo, ma mi resi subito conto del rischio che avevo corso, e non mi riferisco alla gravidanza: stavo rivivendo il destino di mia madre, il più grande dei rischi che potevo immaginare, me ne resi conto solo in quel momento! Allora mi tornò in mente la sua lezione, e solo allora la compresi davvero. E sempre quel giorno presi la mia decisione: avrei fatto qualcosa per sfuggire a quel destino, anche se non sapevo ancora cosa, né tantomeno come. Mi lanciai nello studio, pensando di trovare in quello una via d’uscita, e per un po’ ha funzionato.”

“Non funziona più” – la interruppi dolcemente.
“Non mi fraintenda, prof, non sto dicendo che credo sia inutile studiare, anzi.”

Tirai in silenzio un sospiro di sollievo: il pensiero che, seppur indirettamente, una mia lezione avesse avuto quell’effetto perverso quanto involontario, era assolutamente angosciante per me.

“Il punto” – riprese Alessia – “è che non ho abbastanza amor proprio, non mi voglio bene abbastanza per poter lottare da sola, per me stessa e basta. Quando si passa tutta la vita a sentirsi un peso, un incidente indesiderato, è dura volersi bene, non ci si basta. Serve qualcuno a cui aggrapparsi, un motivo per dare senso e muscoli e volontà a una battaglia che non si vuole combattere da soli e che non si può vincere da soli. Per mia madre e per la maggior parte delle donne della mia famiglia, del mio quartiere, questo qualcuno a cui aggrapparsi è stato un marito. Ed è quasi sempre finita male, soprattutto per i figli. Dove vivo io siamo quasi tutti nati da un incidente, vero o falso che fosse.”

Ascoltavo le parole della ragazza guardandola negli occhi. E le sue parole prendevano maggiore vigore dal suo sguardo, deciso ma sereno.

Immaginai per un attimo gli ingranaggi di un pervicace marchingegno, un triste moto perpetuo che stritola tutto e tutti noncurante, neutro come la falce della morte, incosciente del bene e del male, incapace di volontà, ma di una crudele, devastante innocenza.

“E tu non vuoi un marito, né un padre” – dissi.

“Esatto, ma ho bisogno comunque di qualcuno a cui aggrapparmi. E adesso ce l’ho, ho mio figlio. Non so se sia un buon motivo per avere un figlio, ma so che ne ho visti di peggiori di motivi intorno a me. E ho visto in prima persona che fine fanno quei figli. Non so se sia giusto o sbagliato: posso amare abbastanza me stessa solo attraverso lui. Non è una questione morale, ma una questione di sopravvivenza. Anzi, una scelta di vita contro la sopravvivenza. Non voglio sopravvivere alla mia storia, voglio vivere. E siccome non riesco a vivere solo per me, ho bisogno di un’altra vita d’appoggio, non mi basta la mia.”

La ragazza smise di parlare e rimase per qualche secondo coi suoi occhi dentro i miei, per cercare qualcosa, una qualche reazione rivelatrice. Poi abbassò lo sguardo, si appoggiò allo schienale della sedia e fece un sorso della sua coca.

Ne approfittai per respirare. Avevo dissimulato bene, al limite della mia capacità recitativa. Ma avevo ascoltato l’ultima affermazione di Alessia in uno stato di crescente mancanza di ossigeno, un’apnea involontaria e progressiva. Non avevo dinanzi una ragazza con dubbi adolescenziali: avevo davanti una donna forte e consapevole, nonostante i sui 17 anni, seppur ancora per poco. Ero sbalordito, frastornato, cominciavo a capire che Alessia non era venuta da me per un consiglio, le sue decisioni le aveva già prese. Voleva un testimone, solo un testimone, qualcuno che le desse una prova di realtà. Non aveva bisogno d’altro.

Avevo bisogno di prendere tempo, prima d’incrociare di nuovo lo sguardo con quella donna dall’aspetto di liceale. Un sorso di birra, una sigaretta, la ricerca della tasca nel quale ho riposto l’accendino, secondi preziosi. Ecco l’accendino, la fiamma, la prima voluta di fumo. Ma prima che potessi dire qualunque cosa, Alessia si alzò, posò il bicchiere sul tavolino, prese il suo zaino e mi diede un bacio sulla guancia. Restai seduto e ancora più in bilico tra imbarazzo e indecisione. Mai prima di allora, infatti, Alessia era stata così espansiva e dolce con me.

“Non si preoccupi, prof, non sono venuta qui a fare domande, né a cercare risposte. Ma grazie, grazie davvero del suo tempo.” – disse a bassa voce sorridendomi. Poi si avviò verso l’entrata del giardino, si sciolse i capelli, in un gesto quasi liberatorio, e scomparve dietro la porta a vetri che dava sull’interno del locale.

Finii le mie arachidi e la mia birra mentre, dentro di me si alternavano due sensazioni molto diverse: da un lato mi sentivo frustrato nella mia funzione d’insegnante, nel senso che mi sentivo piuttosto nella condizione di chi ha appena imparato una lezione; dall’altro mi sentivo lusingato di essere stato scelto come testimone. Se si cerca un testimone, lo si vuole credibile e autorevole, in fondo.

Presi le mie cose, passai dalla cassa a pagare e chiesi a Giovanni di tenermi le seppie da parte, sarei ripassato alla fine dei consigli di classe.

Partecipai ai consigli distrattamente, si trattava di quelli intermedi, a metà quadrimestre, burocratici e interlocutori. La mia coscienza era più che salva. Le parole della ragazza, il suo sguardo, la sua decisione serena continuavano a risuonare dentro di me, come una di quelle canzoni che non riesci a toglierti dalla mente.

Continuavo a chiedermi se avrei dovuto dirle qualcosa, comunque. Ma cosa? Cosa davvero avrei potuto dirle? Non cercava risposte, né pacche sulla spalla. Non voleva né prediche, né incoraggiamenti. No, in fondo non dovevo dirle nulla.

I consigli erano finiti, un saluto frettoloso ma cordiale coi colleghi dell’ultima classe in orario, un passaggio da Giovanni per ritirare un pranzo diventato cena, poi in macchina. Collegai il telefono all’auto, avevo bisogno di musica che riuscisse a fondersi con l’altra musica che avevo in testa. Coltrane fu una scelta opportuna.

Non c’era nessuno in giro sulla statale verso casa. Le luci dei fari, le ombre, le note del sax, i pensieri che vagavano da un plesso all’altro. Ripensai a un vecchio documentario sugli animali e le loro abitudini di coppia. La lince, si spiegava, ha un comportamento pressoché unico: nel periodo dell’accoppiamento le femmine si fanno corteggiare dai maschi finché non vengono ingravidate. Successivamente il maschio si allontana, lasciando alla femmina la gravidanza, lo svezzamento e l’educazione dei piccoli, non avrà alcun ruolo nel destino della sua progenie. In quel momento mi resi conto che quel ricordo aveva preso forma nella mia testa prendendo spunto dal racconto di Alessia.

Non c’è nulla di più certo delle coincidenze.
Alessia era una lince, o meglio, aveva scelto di essere lince.

Arrivato a pochi isolati da casa, cercai un parcheggio. Il pezzo era finito e spensi subito la musica. Detesto interrompere un pezzo e non c’è ormai tempo per ascoltarne un altro. Ecco il posto. Nessuno in giro. Il cicalino dell’auto che si chiude è l’unico suono. Mi accesi l’ultima sigaretta della giornata e m’incamminai verso casa.

Da lontano una figura dimessa mi venne incontro, era un uomo. “Incrociarlo sarà inevitabile, spero solo non sia un seccatore” – pensai. Avvicinandosi l’uomo si rivelò evidentemente alticcio, non aveva un’andatura regolare e sembrava parlare tra sé e sé. La minaccia della seccatura si fece più incombente. Quando fui a un paio di metri da lui, l’uomo si aprì in un sorriso ed esclamò:

“Professore!” – con una persistente scia alcolica che seguì l’unica parola pronunciata.

Ero già pronto a scartare l’importuno seccatore e a guadagnare l’angolo dove svoltare per la via di casa, ma sentirmi chiamare professore, m’indusse a fermarmi sorpreso. Non conoscevo l’uomo, anche se poteva esser facilmente stato un mio studente, l’aspetto trasandato gli conferiva un’età ben maggiore a prima vista. In ogni caso, non lo ricordavo.

“Posso dirle una cosa, professore?” – riprese l’uomo, biascicando ogni parola – “Ascolti bene, mi raccomando! Per una volta stia lei seduto nel banco! Io insegno, lei impara!”

L’uomo cercò di darsi un tono, come un attore consumato, si schiarì la voce, finendo per tossire, poi prese fiato e disse, cercando inutilmente di non biascicare:

“Chissà chi, cosa, chissà. Domani sarà
un atto di volontà.”

Poi esplose in una risata, fragorosa quanto densa di alcol, salutò con un cenno della mano, si girò e riprese la sua andatura irregolare, lasciandomi lì attonito a guardarlo allontanarsi.

Ero rimasto tutto il tempo fisso in un’espressione tra l’incredulo e il divertito. Quando l’uomo si allontanò, chiusi la bocca rimasta semiaperta e mi avviai sorridendo verso il portone. Sorridevo e scuotevo la testa, mi sentivo un po’ protagonista involontario di una storia letta da qualche parte, in qualche momento delle mie innumerevoli fughe nei libri. Una giornata memorabile, di certo.

Mangiai le mie seppie, finalmente, guardai senza interesse l’ultimo telegiornale, mi lavai i denti e me ne andai a letto.

Come sempre nella stanza doveva calare il buio più totale. Amo il buio, ma non era stato sempre così.

Da bambino lo detestavo, ne avevo una profonda paura. In alcuni momenti, quando andavo a dormire, mi prendeva una strana sensazione: era come se le lenzuola, le coperte, il cuscino, si facessero più spessi, fino a diventare enormi. Anche il letto diventava enorme e mi sentivo piccolo, schiacciato, soffocato. Allora riaccendevo la luce, preso dal panico.

Non attraversavo mai una stanza prima che le luci fossero accese e non volevo mai essere l’ultimo a spegnere la luce.

Mio padre adottivo, un uomo sposato da mia madre con l’unico scopo di dare un “padre” a suo figlio, scoprì ben presto questa mia fobia del buio, un punto debole che utilizzava per punirmi, non sempre a ragione o, meglio, quasi mai: mi chiudeva nella mia stanza, svitava tutte le lampadine, abbassava la serranda della finestra con una manovella che poi sfilava e portava via con sé e richiudeva la porta a chiave. La gravità della mancanza stabiliva proporzionalmente il tempo che dovevo restare in quella stanza immersa nell’oscurità.

Le prime volte mi accucciavo vicino all’unico scampolo di luce che filtrava sotto la porta, come fosse la sola fonte di ossigeno per respirare. Ben presto, però, trovai il modo di reagire.

Cominciai a usare quell’oscurità come una specie di lavagna, sulla quale potevo scrivere, disegnare, progettare; non pensavo più alla mia paura e alla fine lo stratagemma fu così efficace che finii per apprezzare il buio, insieme al silenzio. Era una subdola, dolce vendetta sapere che una punizione si era trasformata in un momento piacevole, seppur forzato. Era un modo per sfuggire alla punizione stessa, a maggior ragione se era stata ingiusta.

Il pensiero tornò all’incontro con Alessia, una serie di domande rimbombavano ancora nella mia testa, insistenti come refrain di spot pubblicitari: avevo abbastanza amor proprio? Non avevo moglie, né figli perché non avevo bisogno di un’altra vita a cui appoggiarmi? Anche io ero una palla da biliardo, tutto sommato? O avevo scelto di oppormi al destino?